Aether Architecture è uno studio di design e architettura Ungherese di Budapest ma conosciuto a livello internazionale per il suo approccio innovativo e concettuale alla media architecture.

Dopo essere stati rappresentanti del padiglione ungherese all’ultima Biennale di Architettura di Venezia nel 2004, e dopo aver partecipato a una serie interminabile di festivals e rassegne in tutto il mondo (compresa la partecipazione alla mostra di installazioni del festival Mixed Media di Milano del 2006, curata da Paolo Rigamonti e Silvio Mondino con il coordinamento di Tiziana Gemin), Adam Somlai-Fischer e i suoi soci sono ormai tra i più raffinati rappresentanti di quella disciplina che utilizza gli strumenti del digitale (o delle nuove tecnologie integrate in generale) per rappresentare fisicamente i nuovi spazi virtuali, le connessioni, le correlazioni, le Reti, i flussi di informazioni della società di oggi.

In progetti come “Ping Genius Loci” o “Wifi Camera”, il digitale è difatti utilizzato come vero e proprio strumento architettonico, con l’idea di promuoverne un utilizzo strutturale che consenta la visualizzazione di spazi di mediazione, tra reale e virtuale, tra locale e globale in termini di connessione tra singoli individui. Per Adam lo spazio urbano e quello virtuale rappresentano un tutt’uno in costante relazione, un ambiente espanso con il quale l’architetto deve necessariamente confrontarsi.

Da quanto ho iniziato questo tipo di trattazione e analisi su DigiMag (la relazione cioè tra multimedialità audiovisiva, rapporto con lo spazio e visualizzazione delle relazioni tra spazi reali e nuovi spazi virtuali), Aether Architecture costituisce probabilmente un capitolo nuovo. La complessità dell’approccio teorico e metodologico, l’intellettualismo mai fine a se stesso, lo sforzo di perseguire un ruolo totalmente nuovo e radicale all’architettura, sono tutti elementi che fanno di Adam Somlai-Fischer uno dei protagonisti della scena internazionale della nuova architettura. Una disciplina questa che non persegue lo studio e la ricerca della forma esteriore, quanto più la complessità architettonica che può nascere dalla partecipazione comune a un determinato progetto e dalle relazioni sociali possibili che i mondi digitali consentono (“Open Source Architecture”), senza per questo dimenticare le possiblità offerte dalle tecnologie a basso costo e da un approccio quasi hacking alla manualità analogica (circuiti, macchine, oggetti di recupero) e alla scrittura del codice (software generativi e open source). E’ la filosofia del “do it yourself” applicata all’architettura e al design, per una visione democratica di questa disciplina di progetto. Date un’occhiata a progetti come Reconfigurable House, oppure parlate con chi ha partecipato ai workshops Low Tech Sensors e Acuators: la sensazione è quella di un approccio fresco e quasi giocoso all’architettura, intesa come riconfigurazione dello spazio fisico aperto e interattivo, mai rigido e chiuso su se stesso.

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Al contempo, per Adam e i suoi soci all’interno di Aether Architecture, il digitale è anche utilizzato come vero e proprio materiale. Chiaro che la cosa possa risultare di difficile comprensione, se si ha dell’architettura e del design una visione ancora troppo tradizionale. Ma nella serie di progetti Induction House (Fishtak, Fishing Kit e Distributed Projection Structure), l’approccio iper-concettuale e multi-disciplinare, consente anche questo tipo di astrazioni in cui il codice e il suo output finale sono appunto materiali da modellare, con cui lavorare, malleabili e flessibili come quasi nulla esistente in natura o creabile in laboratorio.

Marco Mancuso: vorrei proprio partire dagli inizi della tua attività e della tua carriera. Nel 2002 con il progetto “Mediated Spaces”, il tuo scopo è quello di esplorare spazi di mediazione su varia scala: tra l’umano, il fisico e il virtuale, tra l’ambiente locale e media ubiqui digitali. Sembra in sostanza un manifesto della tua attività come designer, in termini di uso delle tecnologie come strumento per una nuova forma di architettura…

Adam Somlai-Fischer: sono stato piuttosto fortunato nel trovare qualcosa che mi motivasse ai tempi della mia tesi. So che può suonare come un punto di partenza un po’ stupido, ma spendendo molto tempo di fronte ai computer ho sviluppato l’istinto nell’utilizzare azioni tipiche del computer anche nel mondo reale. Avendo per esempio la percezione di dover schiacciare “undo” dopo aver rovesciato l’acqua sulla mia scrivania, o cercare di “salvare” prima di una mossa difficile. Tutto questo accade a molte persone ovviamente, ma come architetto o designer di spazi per la vita contemporanea, sento di dover guardare maggiormente all’interno di questi sintomi. Dopo alcune ricerche ai tempi della tesi, ho scoperto che ci sono effettivamente molte nuove qualità molto interessanti nella società connessa di oggi, che non sono propriamente correlate con l’architettura.

Ho iniziato quindi a costruire un set di sistemi interattivi e installazioni, cercando di esplorare alcune di queste tematiche. Sei anno dopo, lo sto facendo ancora. E in questo sono stato molto fortunato a imparare moltissimo riguardo ai team di lavoro cross-disciplinari: ad oggi, tutti i progetti di cui parliamo, sono stati fatti in collaborazione con altri professionisti e artisti. Francamente, ai tempi della tesi, la commissione non apprezzò del tutto il mio approccio, dato che loro alla fine chiedevano delle costruzioni più classiche. Ho intuito che però mentre tutti gli altri studenti facevano disegni, e non costruzioni, io facevo al contrario dei prototipi di nuovi spazi senza necessariamente disegnarli. In architettura, se qualcosa è veramente nuovo, tu non lo puoi assolutamente disegnare: in sostanza non c’è alcun riferimento per lo spettatore, con l’esperienza reale. Con mio grande sollievo comunque alla fine designboom.it pubblicò la mia tesi, e capii così di essere sulla strada giusta.

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Marco Mancuso: al contempo, con la serie di progetti Induction House (Fishtak, Fishing Kit e Distributed Projection Structure), hai lavorato con lo scopo di creare prototipi che cercassero una modalità di lavorare con i media digitali come materiali fisici da poter modellare. Pensi che questa sia una delle prossime sfide dell’architettura? Intendo dire, non utilizzare i media digitali come strumento per modellare nuove forme e figure, ma utilizzare le strutture architettoniche per appunto manipolarli, per trattarli come oggetti reali. In questi termini quali sono le differenze tra questi progetti?

Adam Somlai-Fischer: questi progetti sono sicuramente frutto dello stesso concetto, sviluppato in forme differenti. Noi (io, Anita Pozna, Peter Hudini e Bengt Sjölén) stavamo cercando di costruire una nuova materialità, uno strumento malleabile. Per noi, la bellezza dei media digitali non risiede nel disegnare appunto forme complesse ma assolutamente statiche, quanto piuttosto nel lavorare con qualcosa che può cambiare e adattarsi, che può essere programmato e che può rispondere al suo ambiente.

Allo scopo quindi di creare un elemento iniziale per un tipo di architettura che comprendesse questa attitudine, abbiamo deciso di costruire uno spazio/oggetto fisico e strutturale (dal metallo, carta, plastica e tessuto), dandogli una forma procedurale (qualcosa cioè che potesse essere descritto con un algoritmo) e animandolo in profondità con delle proiezioni. Questi esperimenti possono essere considerati come dei lavori sui media, soprattutto per la facilità e la velocità di cambiamento nel tempo, ma con la caratteristica di essere assolutamente presenti, tangibili e non astratti come gli schermi dei computer. Penso sinceramente che la versione più efficace sia questa: http://www.aether.hu/induction-house-distributed-projection-structure

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Marco Mancuso: quale è il tuo approccio metodologico all’architettura e al design? Nel senso che nei tuoi lavori parti dai studi classici nel design e nell’architettura e poi integri nel processo i media tecnologici, oppure cerchi direttamente di tirare fuori le potenzialità e il possibile impatto sociale e urbanistico dei media digitali tramite l’architettura e i design?

Adam Somlai-Fischer: devo ammettere che una grande fonte di ispirazione sono le discussioni con i miei collaboratori. Per fortuna vivo una vita in cui lavoro con molte persone provenienti da altre discipline: scienziati sociali, scienziati dei computer, ricercatori sui media, artisti e così via. Anche quando lavoro con i miei colleghi, parliamo di varie influenze da mondi al di fuori dell’architettura. Un’altra grande fonte di ispirazione è molto più empirica e proviene dalla nostra vita connessa di oggi: penso che oggi non sia molto difficile infatti fare esperienza di cose reali a partire proprio dalla produzione per nodi. Grazie a questo in studio facciamo molti esperimenti, brainstorming, discussioni, progetti e schizzi di varie applicazioni tecnologiche. Tutto questo non è propriamente una conseguenza di una discussione di qualche tipo, ma è un metodo di ricerca nel vero senso della parola.

Marco Mancuso: ho avuto modo di fare altre interviste nei numeri scorsi del magazine con Limiteazero, Lab [Au], Lozano-Hemmer e dNA e ho sempre posto la stessa domanda. Pensi che l’architettura e l’interaction design possano essere le discipline che forniranno in futuro nuove possibilità di interagire con le tecnologie digitali, per vivere gli spazi urbani in modo differente e maggiormente immersivo, per visualizzare anche il flusso di informazioni che sarà sempre più diffuso su differenti livelli all’interno delle nostre città?

Adam Somlai-Fischer: Mi viene da dire che è l'”openess” dei nuovi media che io trovo particolarmente interessante. Lasciami spiegare questo concetto guardando al processo di evoluzione della “pubblicazione”. Dagli obelischi alla Bibbia scritta a mano, i caratteri mobili, la stampa per i quotidiani e i blog di oggi, lo sforzo, l’energia necessaria per farti sentire in modo autonomo e modellare quindi la cultura generale è notevolmente diminuito. E’ possibile disegnare un grafico relativo all’inerzia delle media technlogies, e vedere come essa diminuisce. Per esempio mi costa uno sforzo minimo scrivere queste righe.

La scrittura è una modalità di espressione molto diretta per noi oggi, ma al contempo l’architettura e la costruzione degli ambienti è sempre stata una forma di personificazione delle nostre identità. Questa possibilità di collaborazione e apertura nei nuovi media è un vero valore aggiunto per un’architettura che desidera rispondere alle identità degli individui e delle communities di oggi. Siamo sempre meno interessati a credere nei vecchi principi, come per esempio il privilegio di pochi che decidono sopra le nostre teste, e sempre più interessati a imparare e decidere in modo collaborativo.

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Marco Mancuso: vorrei parlare del concetto di Open Source Architecture. Tu affermi che le qualità degli spazi virtuali stanno costruendo condizioni sociali a cui l’architettura dovrebbe rispondere, così come al contempo la nostra percezione dello spazio e dell’architettura sta subendo grandi trasformazioni grazie all’abitazione degli spazi virtuali. Pensi che progettare spazi immateriali con gli strumenti dell’architettura possa ridefinire la nostra percezione della relazione tra spazi fisici e spazi virtuali, i quali possono divenire spazi utopici in cui un designer può costruire relazioni sociali attraverso avatars e cittadini virtuali?

Adam Somlai-Fischer: questa mia affermazione non è tanto relativa al mondo virtuale quanto al concetto di spazio contemporaneo, e non tanto alle possibili relazioni instaurate dal designer quanto più al ruolo vero e proprio del designer. In questo senso, sto parlando di diffondere conoscenze specifiche e consentire a molti di divenire dei designer part-time essi stessi. Se molte persone scelgono di collaborare a qualcosa e si impegnano a fornire costanti feedback sulle rispettive decisioni, il sistema che essi costruiranno sarà sicuramente di alta qualità. Un esempio forte di quello che sto dicendo è l’esperimento condotto da Loren Carpenter, riguardo a come un pubblico di 5000 persone può decidere contemporaneamente in tempo reale. Lo si può vedere online qui: http://www.kk.org/outofcontrol/ch2-b.html

Marco Mancuso: tu lavori anche come interaction designer, sviluppando oggetti e strumenti che consentono come detto una relazione maggiore tra umano e tecnologico. Quello che mi ha stupito è la tua attitudine hacking che non conoscevo. Segui i principi del “do it yourself” e delle tecnologie a basso costo, e questo è una cosa abbastanza inusuale per i desginer a livello internazionale. Sembra quasi che tu non sia troppo interessato all’estetica finale dell’oggetto, quanto più alla sua funzionalità. Hai lavorato in questa direzione con progetti come Reconfigurable House, oppure con i workshops Low Tech Sensors e Acuators

Adam Somlai-Fischer: è molto interessante quello che dici. L’estetica per me non è solamente un concetto di forma. Forse questo è in parte un effetto collaterale dell’aver lavorato troppo con i software 3D quando ero studente: impari così tanto riguardo a come costruire forme, tutte le forme intendo, sperimenti nel generare forme. Evidentemente a un certo punto ho perso interesse nell’idea che la forma si necessariamente così piena di significati. Non sto dicendo che tutta la cultura visuale di oggi non sia importante, la nostra cultura E’ visuale; sto solo dicendo che l’attenzione data alla forma ci sta portando lontano da altre importanti caratteristiche come il comportamento, il linguaggio dell’internazione, l’apertura e la leggibilità, ecc…

Allo stesso tempo, quando utilizziamo la tecnologia nei nostri progetti, cerchiamo di applicare l’idea di apertura di cui ti ho parlato prima, in modo tale che i nostri sistemi tecnologici rimangano aperti, leggibili. In questo modo gli altri non penseranno che questi progetti siano una magia chiusa, ma piuttosto un’idea iniziale da cui ripartire. Cosa che noi preferiamo in senso assoluto.

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Marco Mancuso: la tua idea di architettura e design è così sottile e intelligente, sembra quasi che tu voglia promuovere una nuova idea di media architecture come stumento per visualizzare gli spazi che ci circondano nella vita di tutti i giorni. Lavori in questa direzione con progetti come Ping Genius Loci (lo spazio è visualizzato costruendo un network all’interno della poetica dello spazio) o Wifi Camera (lo spazio è visualizzato attraverso una serie di fotografie dello spazio elettromagnetico che ci circonda con strumenti wireless). Quanto è importante per il tuo lavoro dare forma allo spazio immateriale?

Adam Somlai-Fischer: sì, trovo tutto ciò molto interessante, ma principalmente perché tutti questi fenomeni non sono del tutto immateriali. Non sono visibili o direttamente percepibili, ma sono sicuramente molto presenti. I networks invisibili stanno dando forma alle nostre vite quotidiane, anche se non li vediamo e quindi non è facile comprenderli

Mentre stavamo lavorando a Wifi Camera (con Usman Haque e Bengt Sjölén) abbiamo avuto un’esperienza eccitante di comprensione di come gli spazi Wifi appaiono realmente. Il Wifi è sempre presente, mentre sediamo in un caffè cercando di prendere il segnale con il nostro laptop, girandolo allo scopo di avere una migliore ricezione, cosa che è piuttosto frustrante dato che non si ha alcuna idea di cosa si sta in realtà cercando di catturare. Vedere in sostanza è il primo passo per comprendere, e quindi abbiamo deciso di costruire un device che facesse delle foto, che scansisse la vista dello spazio Wifi. Quello che trovammo ci soprese molto: vedere come il Wifi entra dalle finestre, come crea grandi pattern fumosi, come rimane fermo anche per mesi, come illumina gli spazi in cui viviamo. Al momento stiamo lavorando su una versione della camera in tempo reale, in modo tale da vedere lo spazio Wifi nelle sue vere e proprie dinamiche

Marco Mancuso: ho visto come alcuni vostri progetti (come Ping Genius Loci o Reconfigurable House) sono linkati e connessi al sito e alla mostra di Processing. Potete quindi spiegarmi come inserite tools generativi e software nel vostro processo di lavoro? O in altri termini, come è strutturato il vostro flusso di lavoro in termini di design, sofftware, codice, concept?

Adam Somlai-Fischer: io amo Processing e sto continuando a usarlo da molto tempo per simulare comportamenti e interazioni. È fantastico simulare progetti dove ci sono molte parti coinvolte, che interagiscono, comunicano, ecc… Quindi per me Processing è quello che è CAD per il design formale: lo usiamo per condurre interazioni, controllare sistemi e qualche volte per scrivere interfacce per i visitatori che interagiscono con i nostri sistemi. E poichè il codice si esprime al meglio quando progettiamo con i numeri, i metodi generativi sono ormai presenti dappertutto, non tanto come strumento principale quanto più come integrazione efficace al fianco dei modelli 3D e dell’hacking hardware.

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Marco Mancuso: infine, vorresti parlarmi di un progetto che hai amato e che non hai mai avuto la possibilità di sviluppare? Sto parlando in relazione alla colonna di destra del vostro sito, relativa appunto a quei progetti che non hai avuto occasione di sviluppare in passato.

Adam Somlai-Fischer: Avenue of Cars. E’ totalmente un’utopia, ma vorrei veramente lavorarci in futuro, creando un nastro trasportatore attorno al Danubio a Budapest (alimentato dal fiume stesso)in grado di portare in giro le macchine, in modo tale che i guidatori possano uscire mentre aspettano di arrivare alla loro uscita, creando in questo modo uno spazio sociale al posto di uno semi-sociale come è quello del traffico oggi. Un mio vecchio compagno di classe (Timo Keller) mi ha fatto notare che esiste qualcosa di simile nei traghetti, in cui fermi il motore della tua macchina, esci, parli, ecc…Quello che qundi noi proponiamo, non è certo veloce e pratico come le autostrade, ma in fondo è molto più umano. Ogni città con un fiume potrebbe utilizzarlo.


http://www.aether.hu/avenue-of-cars

www.aether.hu/