Immaginate di avere un account Facebook, per molti non dovrebbe essere difficile. Immaginate di essere un danese che vive a Copenhagen e che qualcuno vi chieda di sostenere una causa in difesa della Stork Fountain, simbolo della città, che sta per essere demolita. Se foste un cittadino che crede nelle identità storiche dei luoghi in cui vive probabilmente sosterreste la causa senza batter ciglio e addirittura la diffondereste tra i vostri amici. C’è solo un particolare, questa notizia è completamente falsa, nessuno ha mai avuto intenzione di demolire il luogo più significativo della capitale Danese.

Se si stesse parlando di fake o prank sarebbe spontaneo fare un parallelo con il Nike Ground degli 01.org, nella Karlsplatz di Vienna, con le dovute distinzioni naturalmente. Invece, l’autore di questa azione in Rete è stato lo psicologo danese Anders Colding-Jørgensen che, dopo aver visto aumentare il numero di supporter fino a 28.000 elementi in pochi giorni, ha deciso di interrompere l’esperimento.

Con questo esempio Evgeny Morozov ha iniziato il suo intervento alla conferenza Cloud activism, che si è tenuta durante Ars Electronica quest’anno a Linz. Una serie di interventi sull’attivismo analizzato alla luce delle riflessioni sulla cloud intelligence. Il giornalista e blogger russo si è esplicitamente dichiarato molto scettico sulle campagne di attivismo digitale che cercano di cambiare il mondo attraverso Facebook o Twitter. In effetti viene spontaneo chiedersi come mai 28.000 persone abbiano deciso di sostenere una causa che in realtà non esiste. La spiegazione sembra essere nel modo in cui queste cause vengono vissute all’interno non solo di Facebook, ma dei social network più in generale.

Queste infatti sembrano essere una sorta di arredamento, con cui ogni utente riempie il proprio account come più gli aggrada. In effetti gli studi di Sherri Grasmuck, sociologo presso la Temple University, hanno reso evidente come gli utenti di social network commerciali rivelano la loro identità più in modo implicito che esplicito; cioè l’insieme delle cause, gruppi o qualsiasi altra cosa essi facciano, è più indicativo della loro storia rispetto a quello che essi scrivono esplicitamente su di loro. Si tratta di considerazioni interessanti, ma che non ci dicono molto su quali sono le effettive conseguenze per l’attivismo.

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Per questo motivo Morozov suggerisce l’emergere di una nuova pratica che definisce con il neologismo Slacktivism cioè l’attivismo praticato dagli slacker. Facebook è diventato una sorta di supermercato delle identità, in cui l’adesione alle cause ci dà la sensazione di essere importanti con uno forzo quasi pari a zero e, inevitabilmente, con un impatto nel sociale nullo. Forse, però, la cosa più preoccupante è che questo tipo di pratiche hanno portato ad un allontanamento da un effettivo supporto.

Si potrebbe pensare che quel gesto per molti non sia l’inizio del sostegno reale alla risoluzione di questioni sociali, ma costituisca la fine dell’impegno. Durante la conferenza Morozov ha cercato di analizzare i presupposti sbagliati da cui partono queste campagne. La convinzione più diffusa è quella che un alto livello di visibilità possa essere determinante nella risoluzione di una problematica, per questo motivo si chiede spesso di aderire, aprire cause su diversi social network e diffondere quanto più possibile. Questo può essere vero in alcuni casi prevalentemente locali, ma nel caso di problemi globali l’utilizzo di questi strumenti si rivela controproducente, perché non c’è un’effettiva traduzione della consapevolezza in azione.

La cosa diventa molto più evidente nel caso delle raccolte di fondi, che può effettivamente essere più proficua attraverso l’uso di questi social networks, ma che quasi azzera la possibilità che chi effettua le donazioni compia delle azioni reali a favore della causa. Interessante è a questo proposito l’iniziativa promossa dal sito Free Monem per la liberazione di un blogger egiziano che invitava a non fare donazioni, ma ad entrare in azione: lo slogan era infatti: “NOT DONATE; Take action”. Secondo il promotore dell’iniziativa Sami Ben Gharbia, attivista tunisino, la campagna era stata realizzata per mettere in evidenza il fatto che non si avesse bisogno solo di donazioni ma di azioni ben più importanti, e per sottolineare come molte ONG locali avessero raccolto fondi senza aver poi ottenuto molto sul piano della risoluzione e della liberazione del blogger.

Diversi psicologi hanno cercato di analizzare il fenomeno delle adesioni a campagne politiche digitali definendolo social loafing (pigrizia sociale). È una scoperta fatta da Max Ringelmann nel 1913. Lo scienziato francese chiese ad un gruppo di persone di tirare insieme una corda e si accorse che la forza applicata dai singoli era inferiore a quella che avrebbero usato se avessero dovuto tirare la corda da soli. Morozov ha commentato durante la conferenza questi esperimenti: “Questo è esattamente il contrario della sinergia. Gli esperimenti provano che si impiegano normalmente molte meno energie in una azione quando ci sono altri che fanno la stessa cosa (Si pensi all’ultima volta che si è dovuto cantare “tanti auguri”). La lezione fondamentale è che, quando tutti nel gruppo svolgono lo stesso compito banale, è impossibile valutare i singoli contributi, così la gente inevitabilmente comincia a impigrirsi. Aumentando il numero di persone diminuisce la pressione sociale relativa di ogni singola persona”. Si può quindi pensare che trovare un minimo comune denominatore a tutti gli utenti per spingerli ad adottare una causa in un social network possa in realtà comportare una ricaduta negativa sull’attivismo e uno sforzo maggiore per gli attivisti nel coinvolgimento dei singoli.

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Apparentemente distanti da queste analisi sono stati gli interveti degli altri due relatori della conferenza:
Xiao Qiang, attivista cinese, e Hamid Tehrani, blogger e giornalista iraniano.

Nei giorni in cui il movimento verde iraniano scendeva nelle strade e nelle piazze di Teheran, abbiamo assistito ad un particolare interesse mediatico sull’utilizzo di Twitter all’interno di quelle proteste. L’immagine errata che ne derivava era di un ruolo chiave di questa piattaforma negli aspetti organizzativi e divulgativi delle manifestazioni. Se questo può essere in parte vero per l’aspetto divulgativo, non è così per quello organizzativo. Tehrani ha ricordato, durante la conferenza, che Twitter è una piattaforma censurata in Iran, e la proliferazione di account in quei giorni era in parte dovuta a residenti all’estero che attraverso email di amici o parenti erano in costante aggiornamento.

Questo aumento inoltre era necessario per creare una copertura per quelle persone che in Iran erano riuscite ad aggirare la censura. Attraverso Twitter si è riusciti a tenere in costante informazione la comunità iraniana all’estero attirando l’interesse mediatico occidentale. Era quindi falso quello che i media suggerivano, cioè che il numero di attivisti connessi a quella piattaforma corrispondesse al numero delle persone nelle piazze. Questa esperienza è sicuramente ben lontana da quella dello slacktivism. In questo caso anche il solo utilizzo di questo social network costituiva un atto politico di critica al regime di censura. Inoltre i diversi strumenti erano utilizzati in modo assai distante dalle finalità comunicative per cui erano stato progettati.

Questo tipo di approccio è possibile anche in situazioni in cui non vi è l’emergenza degli eventi. La capacità di rielaborazione dei mezzi a disposizione è quasi naturale in paesi in cui l’informazione subisce una forte censura dall’alto, e non solo in quelli.

Xiao Qiang ha ricordato come in Cina ci sia un grosso cortocircuito tra la volontà di un controllo oppressivo sulla popolazione da parte delle autorità da una parte e dall’altra parte una spinta al consumo e all’utilizzo di nuovi media. Per questo motivo, gruppi di blogger cinesi hanno finito per costruire una rete in cui i singoli soggetti riescono a evitare la morte dei propri blog assumendo identità mutevoli all’interno di un comunità che ha definito nel tempo i suoi codici comunicativi. Alcuni dei simboli del potere sono stati utilizzati all’interno di questa lingua, così il granchio di acqua dolce, parola che in cinese ha lo stesso suono di “armonia”, viene utilizzato per indicare i blog che sono stati armonizzati cioè censurati, mentre l’alpaca, strano cavallo cinese, simbolo delle censura, viene utilizzato come segno di riconoscimento. La condizione dei blogger cinesi è sicuramente diversa dalle comunità che fanno uso di social network, ma ci fa comprendere in cosa siano diversi e in cosa simili gli orizzonti di analisi di questi due relatori e quello di Morozov.

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Lo strumento delle cause di Facebook, come tutti gli altri che vengono utilizzati nella stessa maniera, non sono altro che la forma “normalizzata” delle pratiche attiviste. In questo modo anche gli strumenti per l’azione politica sono messi a valore nei processi di produzione. Così come era scritto nel testo introduttivo del seminario Storia e critica sociale del web 2.0 tenutosi lo scorso anno durante l’AHA Camp: “L’ultima fase iperglobalizzata del capitalismo, infatti, il “capitalismo cognitivo” o linguistico, si basa sulla capacità di far entrare nel processo di valorizzazione economica ogni genere di attività umana, anche non volontariamente indirizzata all’economia: questo risultato è il prodotto di un’intelligente mossa dei capitali internazionali, quella di assorbire una serie di istanze che erano state proprie dei movimenti di contestazione del capitalismo nei decenni precedenti (rivendicazione di flessibilità nel lavoro, tentativo di porre fine alla separazione fra tempo di lavoro e tempo libero, autonomia nelle scelte), inserendole in un nuovo contesto tecnico e organizzativo, e quindi cambiandone e stravolgendone il segno”.

In questo caso non si parla solo dei contenuti ma anche e soprattutto dei mezzi. Non si tratta infatti di modalità nuove: chi non ricorda gli appelli firmati dagli intellettuali degli anni 20 e 30 che sentivano la necessità di sostenere attraverso una firma una protesta? Quante sono ancora oggi le pratiche simili, e generalizzate ad un pubblico più ampio, che non necessariamente fanno uso di un social network? Si tratta naturalmente di pratiche che fanno leva su di una concezione ristretta di consapevolezza sociale e che riducono la responsabilità politica all’atto di un clic o di una firma. Probabilmente questi metodi hanno perso gran parte della loro forza ben prima che Facebook li facesse diventare un piccolo tool dell’interfaccia, sempre che prima ne abbiano avuta.

Se si guarda però alla realtà italiana, sembra molto più interessante analizzare come dai social network stia emergendo una differente espressione della coscienza politica. Il diffuso disagio per la situazione in cui versano i maggiori media italiani, televisione e giornali, spinge i singoli soggetti ad una reazione che trova il suo maggior sfogo in YouTube e che si diffonde velocemente attraverso Facebook. Vengono realizzati video di denuncia e controinformazione da ogni tipo di utente, non solo professionisti, ma anche comuni cittadini che hanno deciso di prendere la parola. Alcuni di questi video riescono a diffondersi come virus facendo uso di tecniche di montaggio audio e video ironiche o richiamando immaginari condivisi o denunciando situazioni critiche, o tutte questi fattori insieme.

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Uno degli esempi più interessanti è Il progetto Lost In Berlusconi della Kook Unidentified Production (http://www.kook.it/), completamente indipendente ed autofinanziato. In esso gli autori, facendo riferimento alla conosciutissima produzione televisiva Lost, hanno realizzato due puntate (si spera di una serie), di un telefilm fatto per essere diffuso via YouTube. In questi brevi video si ironizza in maniera geniale sulle inspiegabilità del governo italiano. È un esempio in cui le competenze tecniche sono visibilmente elaborate e il gioco di rimandi tra il telefilm diffuso tramite i canali televisivi e la situazione politica italiana è molto raffinato.

La diffusioni di video come questo, ma anche di video meno raffinati anche se altrettanto interessanti, non è di certo recentissima, ma negli ultimi tempi sembra essere espressione di una condivisa reazione alla politica dei palazzi ufficiali.