«È inutile sbarrare le porte alle idee: le scavalcano» – Klemens von Metternich

 


 

Nel 2007, quando ho cominciato a collaborare con Digicult e a scrivere su Digimag, ho discusso con il suo direttore, Marco Mancuso, di quali potessero essere le zone di intersezione fra le arti digitali e il cinema. All’epoca ero ancora abbastanza fresco dagli esami universitari di un corso di laurea in studi cinematografici interamente basato su testi che adottavano una terminologia distante anni luce dalle concrete pratiche del “fare” cinema. Sei anni dopo il cinema si è definitivamente e totalmente digitalizzato, ma il linguaggio della critica è rimasto pressoché immutato.

Il 2013 è l’anno della definitiva “vittoria” del digitale in ambito cinematografico, affermazione che si inscrive nella più ampia “rivoluzione tecnologica” che segna l’inizio del XXI secolo. Un mutamento che non si concretizza unicamente nella comparsa sul mercato di una nuova gamma/generazione di prodotti e servizi, ma che ha un impatto complessivo su ogni settore dell’economia tale da modificarne la struttura dei costi come pure le condizioni di produzione e distribuzione. Todo cambia. La “rivoluzione” digitale è una trasformazione dalla portata storica assimilabile a quelle avvenute grazie a innovazioni quali la ferrovia e l’energia elettrica. Non si tratta dunque unicamente della comparsa di un nuovo paradigma tecnico-scientifico, ma soprattutto della sua capacità di diffondersi in una parte rilevante dell’intera economia al punto da rinnovarla, trasformando l’intera società in ogni suo aspetto. Il digitale, dopo essersi imposto come sistema di produzione, è definitivamente giunto alla quadratura del cerchio, anche in ambito cinematografico, con la proiezione. Addio alla pellicola. Ma se la pellicola è stata abbandonata dall’industria (ad esempio The Place Beyond the Pines, diretto da Derek Cianfrance e prodotto dalla Focus Features, è uscito a partire da marzo 2013 in 1442 schermi statunitensi, di cui solo 105, cioè il 7%, in 35mm), per lasciare spazio al Digital Cinema Package (DCP) delle proiezioni 2-4K (e oltre), perché ostinarsi a nominare i film “pellicole”?

Il rapporto stilato alla fine del 2012 da David Hancock per l’IHS Screen Digest parla chiaro: dei quasi 130.000 schermi presenti in tutto il mondo, oltre due terzi erano digitali e poco più della metà permettevano la proiezione 3D (fino al 2005 il dato di sale digitalizzate a livello mondiale era trascurabile, prossimo allo zero). Hancock prevede che entro il 2015 la proiezione tradizionale verrà definitivamente abbandonata dal circuito commerciale (mentre una sua sopravvivenza nei circuiti cinéphile è una certezza: l’ingresso sulla scena di una nuova tecnologia non comporta la scomparsa del paradigma precedente, ma una coesistenza dei due sistemi – si pensi al vinile in ambito musicale).

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Il cinema contemporaneo ha divaricato la propria traiettoria da quella dei Lumière (linearità e piano sequenza) e pure da Méliès (discontinuità e montaggio in camera), andando oltre la fase transitoria del Digital Intermediate della conversione del negativo “tradizionale” (fino all’ultimo ancora sostanzialmente identico all’epoca delle origini): nella macchina da presa non accade più nulla di “reale” perché i nuovi strumenti digitali di ripresa, sempre più raffinati, trasformano ciò che sta davanti all’obiettivo in un dato numerico talmente complesso da essere inintelligibile per l’uomo.

Siamo nel pieno di un’esplosione cambriana, un salto evolutivo accelerato, di nuove macchine da presa per il cinema, mentre il vecchio mondo si sgretola sempre più velocemente. Nel luglio 2011 la Technicolor chiude i laboratori di Los Angeles, a ottobre Panavision, Aaton e Arri annunciano la dismissione della produzione di macchine da presa a pellicola, a novembre la Twentieth Century Fox comunica la cessazione dell’invio di copie 35mm entro uno o due anni, nel gennaio 2012 Eastman Kodak avvia la procedura protetta di fallimento, a marzo 2013 Fuji interrompe la produzione e la vendita di pellicola cinematografica 35mm.

Però, in questa situazione “rivoluzionaria”, la critica e peggio ancora gli “attori” stessi del cinema (registi, sceneggiatori, direttori della fotografia ma pure produttori) persistono nell’utilizzo di un vocabolario divenuto, nella pratica, obsoleto. Non si accorgono che ogni nuova tecnologia genera una nuova tecnica e che questa produce nuovi stili e nuove opportunità: tutto questo è incredibilmente stimolante e affascinante, non cogliere la portata storica del cambiamento in atto segnala un comportamento fondamentalmente reazionario. Parte del mondo del cinema e della sua cultura di riferimento sta comportandosi allo stesso modo dei sovrani e dell’aristocrazia europea degli anni ’14 e ’15 del XIX secolo, inconsapevoli restauratori dell’Ancien Régime, fingendo di non comprendere il sopraggiunto cambiamento che solo i “nativi digitali” saranno in grado di cogliere nella profondità della sua portata.

Il termine workflow (flusso di lavoro) in breve tempo è divenuto una parola che, dall’ambito tecnico e specialistico, ha saputo travalicare i propri confini, configurandosi come uno dei concetti cardine del cinema contemporaneo. Analizzato con attenzione e competenza dalle riviste specializzate (mi riferisco soprattutto a quelle testate attente agli aspetti tecnici del “fare” cinema/immagini) e dibattuto con insistenza nei forum e nei convegni, nelle scuole di cinema e nei campus estivi delle facoltà del mondo intero, incontra ancora parecchie ingenuità, financo vere e proprie omissioni, in ambito critico (mi riferisco alla critica cinematografica).

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Il workflow è una parte fondamentale del dialogo intercorrente fra registi e case di produzione, fra produttori di immagini e produttori della strumentazione necessaria alla loro realizzazione: un dialogo che verte attorno al concetto di come un film può e deve essere fatto. Il termine – che ha le sue origini in ambito informatico – definisce quella serie di processi e procedure attraverso le quali organizzare le informazioni digitali per trasformarle in materiale proiettabile. Il “flusso di lavoro” è dunque lo spazio entro il quale un’opera cinematografica prende forma: fra il girato (shooting) e il montaggio definitivo, fra le riprese, la postproduzione e l’opera conclusa. Nel workflow contemporaneo c’è tutto: tutto quello che si muove fra l’hardware e il software, ed è il solo concetto capace di racchiudere le differenti pratiche attraverso le quali realizzare un film (in epoca digitale). In esso i concetti di velocità, flessibilità e maneggevolezza sono centrali.

Le macchine da presa di fascia alta, come RED e Arri Alexa, non catturano le immagini in senso convenzionale ma registrano grandi quantità di dati visivi. Il cinema digitale è divenuto immateriale, strutturandosi attorno a sequenze binarie e metadati, perdendo per sempre la propria materialità fotochimica e, di conseguenza, tutti i processi che ricadono sotto il termine “ombrello” di postproduzione posseggono un potenziale di interpolabilità assai maggiore di quanto fino a pochissimi anni fa avremmo mai immaginato. Con il digitale salta ogni “materialità”, dunque ogni aspetto della produzione di immagini (intesa come shooting e postproduzione) diviene scalabile e modificabile in ogni momento e aspetto. Il film contemporaneo è dunque assai differente dal suo antenato analogico/fotografico perché è il risultato di un processo “filosoficamente” differente.

La tecnologia RED HDRx – utilizzata nei modelli Scarlet-X e Epic-X – arriva al punto di produrre contemporaneamente due tracce video diversamente esposte di ogni singola ripresa. Miscelando fra loro le due esposizioni della medesima ripresa si è in grado di produrre un’immagine composita dotata di un’elevata gamma dinamica (HDR); questo significa che un interno poco illuminato e un esterno sovra illuminato possono apparire correttamente esposti nella medesima ripresa. Questo è un esempio concreto di come il girato non sia più vincolato alle reali condizioni di ripresa, ma divenga un elemento dinamico costantemente manipolabile.

La figura professionale dei tecnici di immagini digitali (Digital Imaging Technicians – DIT) si occupa di gestire i dati (corretta trasmissione e correzione dei metadati corrotti) e consigliare i cameraman circa le scelte da compiere durante le riprese. Fondamentalmente sono da considerarsi come tecnici di postproduzione sul set, coloro i quali instradano il processo di workflow nei tempi più rapidi possibili in maniera tale da massimizzare le potenzialità del processo, rendendole immediatamente disponibili all’intera troupe (in particolar modo al direttore della fotografia). Sinteticamente il DIT si occupa (a vario titolo e con diverse modalità) delle seguenti operazioni: riprese (ad esempio il settaggio dalla macchina da presa), transcodifica, sincronizzazione, colore, windowburn, watermarking, versioning, conversione color space e lined-script notes. Questa figura professionale, tutt’altro che circoscrivibile, vista la sua continua evoluzione e l’ampliamento costante della propria operatività, rende evidente lo spostamento della fase di post nel luogo stesso e durante le riprese. Il futuro prossimo sarà dunque quello dell’integrazione degli studi di postproduzione direttamente nella fase di ripresa e produzione, quello anteriore sarà invece di una sempre maggiore integrazione tecnologica nella macchina da presa di tutti quei procedimenti che oggi sono affidati ai DIT (secondo la prima legge di Moore: «Le prestazioni dei processori, e il numero di transistor ad esso relativo, raddoppiano ogni 18 mesi»).

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È dunque possibile affermare che sono i DIT a rendere disponibile all’interno del workflow il materiale girato. Dunque l’agente del workflow è il DIT. Ma questo solo in teoria, unicamente nelle condizioni ottimali, perché nella pratica questa figura professionale, considerata troppo costosa per la maggior parte delle produzioni, viene sostituita dalle case di produzione attraverso la frammentazione delle operazioni (oppure alla sua esternalizzazione), ad esempio per le operazioni di Color Correction e Color Grading.

La possibilità di modificare costantemente ogni aspetto delle riprese apre anche un altro scenario controverso e minaccioso per registi, direttori della fotografia, sceneggiatori e più in generale per tutte quelle figure professionali che, de facto, realizzano l’opera (ma non la finanziano): la possibilità, da parte della produzione (dei finanziatori e dei committenti), di esautorare i reali autori dell’opera, modificando il materiale girato a proprio piacimento in fase di postproduzione. Dal punto di vista giuridico si corre ai ripari con clausole contrattuali (con discontinuità da paese a paese) facilmente aggirabili per lo scarso potere contrattuale di molti professionisti del settore. Nella pubblicità e nella produzione televisiva seriale (ambiti creativi assediati dai finanziatori), in fase di post, vengono estromessi con estrema facilità i concreti realizzatori delle riprese e dell’idea creativa, confinandoli al ruolo di meri esecutori di shooting – tanto più il materiale girato/raccolto sarà “esteso” e ricco di variabili, tanto più sarà possibile modificarlo (modifiche cromatiche sostanziali, riduzione dello spazio visivo interno all’inquadratura attraverso l’alterazione dell’idea originale, cambi dei tempi delle riprese, dei movimenti di macchina, eccetera).

Se il concetto di “flusso di lavoro” è divenuto nevralgico nella costruzione dei film contemporanei, centrale dovrebbe essere anche il controllo da parte degli autori dell’opera di fronte alle insidie poste in essere da committenti invasivi e poco rispettosi. Il concetto di workflow si estende ben al di là di un discorso meramente tecnologico, ben al di là di una modalità (semplicemente) produttiva da contrapporsi al metodo “tradizionale”, ma si configura come un sistema di produzione di senso inedito, capace di creare un’estetica profondamente rinnovata per le immagini in movimento del XXI secolo. Diviene il nuovo terreno dell’eterna lotta fra produttori e realizzatori che da sempre caratterizza la storia del cinema.

All’interno del trionfo della rivoluzione digitale la critica e la cultura cinematografica segnano il passo nei confronti delle reali pratiche produttive, rimanendo ancorate a un vocabolario antiquato che ignora i profondi cambiamenti avvenuti nell’industria cinematografica (cambiamenti che riguardano, tanto un grande studio hollywoodiano, quanto il giovane filmmaker al suo primo cortometraggio realizzato con una Canon 5D). Non arrivo ad affermare che concetti cardine della pratica cinematografica, come il montaggio o la messa in scena, siano stati soppiantati da altro (sarebbe ingenuo non comprenderne l’eternità che esula dalla tecnica e che addirittura precede il cinematografo), ma intendo unicamente evidenziare la (in)sufficienza con la quale ci si è scordati che, già dai tempi dei sopracitati Lumière e Méliès, il cinema è un mezzo indissolubilmente legato alla tecnologia e dunque, una sua corretta e utile analisi, non dovrebbe prescindere dalle reali modalità produttive.

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Negli ultimi anni la critica più avveduta si è soffermata, nel migliore dei casi, sulla pratica della Color Correction, in molti casi beandosi di quest’attenzione a un aspetto tecnico, presunto come innovativo e inedito. Ma, soprassedendo sulla storicizzazione del concetto (cos’era il Technicolor utilizzato nel 1939 nel capolavoro di Victor Fleming The Wizard of Oz?), come rimanere in silenzio di fronte alla totale modificazione delle fasi realizzative dei film che andiamo a vedere al cinema?

La critica cinematografica e la limitrofa cultura di riferimento, salvo notevoli e lodevoli eccezioni (penso in particolar modo al quadrimestrale newyorkese «Filmmaker»), hanno speso negli ultimi anni fiumi di inchiostro (reale e/o digitale) in una difesa nostalgica, da amarcord, del supporto fisico/fotografico, spendendosi in una sterminata sequela di articoli, saggi, libri e convegni, sull’abbandono della pellicola tradizionale a favore del digitale, entrando troppo poco di frequente nella descrizione dello specifico di questa digitalizzazione dell’industria cinematografica. L’accademia e le riviste specializzate hanno di fronte a loro un notevole ritardo da colmare e questa sarà la loro risorsa per gli anni a venire, che si concretizzerà in una proliferazione di dottorati e convegni, pubblicazioni, campus e forum, per certificare una volta ancora, agli albori del XXI secolo, il proprio intrinseco ritardo rispetto al reale.

Seppur prossimo al concetto di découpage, il “flusso di lavoro” si differenzia da questi perché (sostanzialmente) invisibile, ma soprattutto perché definisce un processo e non un risultato.

«Il termine découpage è usato in almeno due o tre accezioni, concernenti la tecnica, l’estetica e la teoria del cinema. Esso designa un’operazione tecnica, l’azione di découper (ritagliare) in piani e in sequenze la sceneggiatura di un film, così come il risultato di questa operazione, l’oggetto materiale chiamato découpage tecnico. In seguito un altro significato, derivato dal vocabolario critico e teorico, è venuto ad aggiungersi ai primi due: parlando l’uno di “evoluzione del découpage classico” ed elaborando l’altro la sua “difesa e illustrazione del découpage classico”, il critico André Bazin e il cineasta Jean-Luc Godard evocano non uno strumento tecnico ma la stessa struttura audiovisiva del film in tutta la sua complessità, vale a dire la realizzazione concreta del d. tecnico filmato sulla pellicola, montato nel film terminato e visto dallo spettatore.» – Michel Marie, «Découpage» in Enciclopedia del Cinema, Treccani 2003

Nell’invisibilità del processo risiedono le difficoltà che la critica incontra nell’analisi cinematografica nell’era del workflow.

Il cinema del XX secolo è stato (anche) analizzato per mezzo del découpage critico, focalizzando l’attenzione dell’analisi sulla messa in scena, definita come essenza del lavoro del regista o della troupe che firmava le opere. Attraverso un’attenta analisi delle sequenze delle quali si componeva il film, “smontando” la pellicola nelle singole scene di cui si componeva, si ricostruivano le scelte compiute dagli autori e se ne deduceva lo stile. Scelte che nel cinema digitale mutano per quantità, moltiplicandosi per via della crescente scalabilità del dato numerico in fase di registrazione e post-produzione.

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Orson Welles in Citizen Kane è stato uno scrittore per immagini che utilizzava la competenza tecnica e il talento del direttore della fotografia Gregg Toland, e della troupe, nell’illuminare la scena fotografandola in profondità di campo con una macchina da presa 35mm Mitchell BNC (siamo nel 1941). Oggi l’abilità è la medesima (qualità), la visione e l’occhio del regista debbono provare ad essere altrettanto aguzzi, quel che cambia è il rapporto quantitativo delle scelte e delle variabili chiamate in causa dalla rivoluzione cambriana di ogni aspetto realizzativo.

The Girl with the Dragon Tattoo di David Fincher è stato realizzato in 5 settimane e mezzo di riprese con macchine RED Epic MX ed Epic a risoluzione, rispettivamente, di 4,5 e 5K, per un totale di 483 ore di girato. Di queste, 443 sono state utilizzate nel “flusso di lavoro”, per un totale di oltre 1,9 milione di metri di pellicola 3-perf. Il film concluso, a 4K con un rapporto di 2,1 e della durata di 158 minuti, si compone di un quarto di milione di fotogrammi a 45 MB ciascuno. Ciò significa che rispetto alle riprese con RED Epic si è utilizzato solo il 70% di ogni singolo fotogramma, cosa che ha permesso al team di Fincher di rivedere ogni frame e riformularlo. In tale maniera il “flusso di lavoro” in The Girl with the Dragon Tattoo  svolge un ruolo centrale nella costruzione estetica, ogni ripresa, ogni fotogramma, è stato rivisto per adattarsi ai ritmi visivi dell’opera complessiva. Come di tutta evidenza, il problema per un cinema di tali “dimensioni” è la complessità prodotta dallo “spostamento” di considerevoli quantità di dati in tempi ragionevoli.

Dal punto di vista tecnico il cinema è mutato più negli ultimi 5 anni che nella sua storia ultracentenaria.

Per la vastità delle operazioni possibili attive nel processo di workflow e per la loro invisibilità, la comprensione delle scelte attuate dai registi e dei loro staff paiono incommensurabili se misurate a quelle del cinema analogico/fotografico. Ma un processo invisibile può diventare uno stile e registi quali Steven Soderbergh, David Fincher e Roman Coppola (solo per fare qualche nome e al netto di giudizi sulla qualità intrinseca delle loro opere e poetiche) sono lì a (di)mostrarcelo, con film quali Side Effects (2013), The Girl with the Dragon Tattoo (2011) e A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III (2013). Il problema è divenuto quello di individuare queste scelte, di riconoscerle: perché tutto nel cinema, da sempre, è libero arbitrio e autorialità ma, senza la consapevolezza del cambiamento in atto nella modalità produttive del cinema contemporaneo, queste “differenze” qualitative e stilistiche tendono ad essere invisibili (meglio sarebbe dire: difficili da vedere) per la critica e i cinefili, proprio come i processi di workflow che rappresentano il luogo, immateriale e delocalizzato, entro il quale i film prendono concretamente forma.

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Essenzialmente il “flusso di lavoro” serve per correggere gli errori massimizzando la velocità e rendendo più immediata l’operazione. Un ottimo “flusso di lavoro” unitamente alla presenza sul set di DIT accorcia i tempi di produzione: potendo contare su idee chiare, un’ottima sceneggiatura e attori calati alla perfezione nella parte, la velocità complessiva di realizzazione delle opere subisce un drastico ridimensionamento: ed è per questo motivo che la produzione televisiva seriale, soprattutto statunitense, si affida a questa modalità produttiva. Alta qualità delle immagini e velocità estrema di postproduzione a partire già dal set, sono i tratti peculiari del cinema realizzato in uno spazio, dematerializzato, che definiamo di workflow, vale a dire l’intersezione, in ambiente software, di tutte le componenti hardware della produzione e postproduzione cinematografica. Poter lavorare a un pre-montaggio, operando i tagli a poche ore di distanza dalle riprese, rappresenta un incredibile vantaggio per i registi e le case di produzione, perché rende possibile un costante monitoraggio del materiale e allo stesso tempo apre alla possibilità di correzioni pressoché immediate. E lo stesso è ovviamente applicabile anche alla componente visiva dell’opera, costantemente modulabile a seconda delle esigenze del regista e della sua squadra di lavoro. L’immediatezza della presenza sul set dell’intera filiera produttiva rende possibile il coinvolgimento dell’intera troupe (attori e tecnici) a possibili aggiustamenti in corso d’opera, stimolandoli a modificare il “tiro” del proprio contributo al film.

L’idea chiave, nel “flusso di lavoro”, è la correzione degli errori. Il workflow digitale e il montaggio non lineare permettono alle decisioni di essere modificate in qualsiasi istante: i tagli possono essere variati, i movimenti di macchina resi maggiormente fluidi, l’esposizione alterata, il colore completamente modificato.

Però, se è vero come è vero, come ci ricordano le Oblique Strategies di Brian Eno, che si dovrebbe onorare il proprio errore «come un’intenzione nascosta», non sarà difficile afferrare i rischi che la digitalizzazione totale del processo cinematografico comporta per il cinema e i suoi sviluppi: da una parte la creazione di una generazione di cineasti ansiosi, ansiogeni e insicuri, sempre all’erta su ogni possibile modifica apportabile al materiale, e dall’altra (pericolo ben più concreto e serio) un’invadenza sempre più pervicace dell’industria, dei finanziatori, negli aspetti più cruciali dell’estetica della creazione.

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Il concetto di “flusso di lavoro”, la filosofia che lo sottende, in ultima istanza è piuttosto semplice da afferrare ed esiste ancora prima della rivoluzione digitale, si potrebbe arrivare a dire che il workflow null’altro è che ciò che si muove nella testa dell’autore, la sua intelligenza unita alle competenze tecniche ma, nell’attuale scenario della produzione cinematografica, individuarlo nel corpo di un film è un’attività estremamente complessa che richiede nuovi strumenti critici e un nuovo approccio al cinema e ai suoi realizzatori. Non cogliere le profonde implicazioni di queste novità relega la critica in un angolo marginale e inattuale del cinema contemporaneo: afasico per i filmmaker, inutile (e innocua) per l’industria. 

Una versione leggermente differente del presente saggio è stata pubblicata in Rapporto Confidenziale 39 (luglio/agosto 2013), pag. 28-36
http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=28768
 
Sul sito di RC è disponibile un’appendice al saggio, dedicata alle specifiche tecniche dei film in concorso all’ultima edizione del festival di Cannes (2013)
http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=28841

 


Riferimenti:

Bordwell David, Pandora’s digital box: End times, «David Bordwell’s website on cinema», 12 maggio 2013, http://www.davidbordwell.net/blog/2013/05/12/pandoras-digital-box-end-times/

Bordwell David, Pandora’s Digital Box: Films, Files, and the Future of Movies [Ebook], Irvington Way Institute Press 2012

Burch Noël, Prassi del cinema, Il Castoro 2001 (ed. or. Praxis du cinéma, Gallimard 1969)

Cioni Michael, the new breed of communicators, «Foresight», 15 luglio 2012, http://michaelcioni.tumblr.com/post/27313664313/the-new-breed-of-communicators

Cioni Michael, the dit dilemma, «Foresight», 27 dicembre 2012, http://michaelcioni.tumblr.com/post/38993994656/the-dit-dilemma

Flichy Patrice, Storia della comunicazione moderna. Sfera pubblica e dimensione privata, Baskerville 1994 (ed. or. Une histoire de la communication moderne. Espace public et vie privée, La Découverte 1991)

Hancock David, Technology Moves to the Forefront in Cinema as Digital Overtakes Film, «isuppli.com», 13 febbraio 2013, http://www.isuppli.com/media-research/news/pages/technology-moves-to-the-forefront-in-cinema-as-digital-overtakes-film.aspx

Kodak Educational Products, The Essential Reference Guide for Filmmakers, Eastman Kodak Company 2007, http://motion.kodak.com/motion/uploadedFiles/Kodak/motion/Education/Publications/Essential_Reference_Guide/kodak_essential_reference_guide.pdf

Leitner David, Festival Cinematography Notes: Of Sundance, Berlin and the Canon 5D, «Filmmaker Magazine», 29 febbraio 2012, http://filmmakermagazine.com/41364-festival-cinematography-notes-of-sundance-berlin-and-the-canon-5d

Manovich Lev, Software takes command, 20 novembre 2008, http://black2.fri.uni-lj.si/humbug/files/doktorat-vaupotic/zotero/storage/D22GEWS3/manovich_softbook_11_20_2008.pdf

Murie Michael, Color Grading “A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III”, Part 1: Ryan Bozajian on the Art of the Pre-Grade, «Filmmaker Magazine», 26 marzo 2013, http://filmmakermagazine.com/67501-color-grading-a-glimpse-inside-the-mind-of-charles-swan-iii-part-1-ryan-bozajian-on-the-art-of-the-pre-grade/

Murie Michael, Color Grading “A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III”, Part 2: Chris Martin on the Art of the Post-Grade, «Filmmaker Magazine», 27 marzo 2013, http://filmmakermagazine.com/67590-color-grading-a-glimpse-inside-the-mind-of-charles-swan-iii-part-2-chris-martin-on-the-art-of-the-post-grade/

Pennington Adrian, 4K – Bane or blessing?, «Digital Production Middle East», 28 settembre 2008, http://www.digitalproductionme.com/article-718-4k–bane-or-blessing/1

Vishnevetsky Ignatiy, What is the 21st Century?: Revising the Dictionary, «Notebook», 1 febbraio 2013, http://mubi.com/notebook/posts/what-is-the-21st-century-revising-the-dictionary