La mia discussione del tagging non considera solo le hashtag o altre etichette testuali. Un’altra pratica che ritengo degna di attenzione è infatti il geo-tagging, l’assegnazione di coordinate GPS come metadati a un qualsiasi contenuto online. Tramite questa funzione, un contenuto – che può essere una foto, ma anche un tweet o un post su Facebook – può essere linkato ad altri posizionati nello stesso luogo o visualizzati in una mappa.
Man mano che gli oggetti geo-taggati si concentrano e si accumulano, il loro impatto può essere estetico e persino politico: già nel 2011, infatti, Jeroen Beekmans (dell’agenzia di design olandese Golfstromen) investigava le dinamiche di gentrificazione tramite i check-in di 4Square, mentre un paio di anni fa Brent Knepper parlava di come geo-taggare le foto di paesaggi su Instagram possa portare ad attirare flussi turistici senza precedenti che finiscono per rovinarli.
Ha senso, quindi, dire che il geo-tagging è un agente materiale all’interno della “megastruttura accidentale” che Benjamin H. Bratton definisce come The Stack – un’entità a sei strati che connette riserve minerarie a utenti di smart phone, attraverso un complesso groviglio di città globalizzate, interfacce digitali e tracciamenti capillari.
Se lo Stack è un ottimo concetto per visualizzare come il software sconvolga la sovranità a livello globale, quello che mi interessa in questa sede è capire come il geo-tagging si relaziona con un altro tipo di “politica del posizionamento”: quello introdotto dalla poetessa e saggista femminista Adrienne Rich negli anni Ottanta e relativo alla specificità dell’esperienza femminile. L’idea anti-universalista di Rich – ciascuno può parlare solo da una certa prospettiva, dettata dal proprio corpo e dalle proprie esperienze – è poi diventata molto influente su teorie femministe, postmoderne e postcoloniali, venendo anche adottata da Rosi Braidotti nella propria concettualizzazione di soggetti e teoria nomade.
È proprio perché le nostre esperienze sono diventate più interconnesse e iper-mediate che mai che, a mio parere, è utile mettere queste due prospettive in dialogo tra loro. Per questa ragione, ho parlato di quanto carico possa diventare l’atto del geo-tagging con l’attivista e studiosa femminista Helena Suárez Val, dottoranda al Centre for Interdisciplinary Methodologies alla Warwick University. La ricerca di Helena nasce dall’aver mappato per anni episodi di femminicidio – l’uccisione intenzionale di donne perché donne – in Uruguay, attività a sua volta ispirata dal suo background come attivista e programmatrice. Usando il geo-tagging per dare a luoghi e coordinate un’urgenza che solo il vissuto – e la morte – di individui specifici può dar loro, Helena cuce insieme lo Stack e la politica del posizionamento di Rich. Anche se di per sé il suo non è un progetto artistico, questa esplorazione del geo-tagging tocca anche temi come il potenziale politico dell’estetica.
Nicola Bozzi: Con che tipo di dati lavori per iniziare la tua mappatura?
Helena Suárez Val: Ora come ora mi concentro su diversi tabulati usati da governi o attivisti per registrare casi di “femminicidio” – omicidi di donne dove ci sono aspetti relativi al genere. Ci sono altri nomi per la categoria, ed è lì che iniziano i problemi: a volte è “femminicidio”, altre “femmicidio”, a volte “violenza femminicida”… A livello istituzionale si parla ancora di violenza domestica o di genere. Ci sono diverse categorie e caratteristiche, ma spesso si sovrappongono e interagiscono in modi complicati. In America Latina “femminicidio” e “femmicidio” vengono usati indistintamente, spesso anche insieme (“femmicidio/femminicidio”), cosa che crea particolare confusione. Questa si riflette poi anche nei dati veri e propri: come li registri, cosa registri, come chiami le cose che registri… Guardo tutti questi esempi dal punto di vista della categorizzazione, ma anche in termini di ontologia – quali entità e proprietà emergono dai dati, e così via. E provo a vedere se queste categorie e proprietà corrispondono a quello che dovrebbero rappresentare.
Nicola Bozzi: È tutto open data?
Helena Suárez Val: I dati istituzionali sono stati rilasciati come open data quest’anno e si riferiscono solo al 2018. Sto anche guardando quelli registrati da me come attivista, che partono dal 2001 – non sono proprio open data, ma la motivazione per iniziare il progetto è venuta anche da un invito da parte di WikiData a inserire i dati nella loro piattaforma per renderli aperti. Che significa riutilizzabili, accessibili… e uno dei requisiti è che ci dev’essere una descrizione dei dati, metadati che la gente può leggere per capire di cosa si sta parlando. L’open data è anche un movimento politico, ha a che fare con trasparenza e responsabilità. Si entra proprio in un mondo diverso.
Nicola Bozzi: A proposito di movimenti politici, tu hai pubblicato degli articoli accademici sulla cartografia femminista. Essendo sia attivista che ricercatrice, qual è il ruolo che è venuto prima e ha ispirato l’altro?
Helena Suárez Val: Sicuramente quello di attivista, ho iniziato l’università a quarant’anni. Prima facevo la programmatrice e a vent’anni ho iniziato a lavorare con le ONG, ma ho iniziato a essere davvero coinvolta a partire dal mio ritorno in Uruguay nel 2012. Qui mi sono data da fare sul serio e una delle cose che ho iniziato a fare era proprio mappare questi casi di femminicidio, come parte di un lavoro collettivo. Dopo un paio d’anni, ho deciso che volevo pensarci più seriamente e quindi ho iniziato a studiare questa pratica, che nasceva dal bisogno di creare un oggetto comunicativo che fosse più visivo e interessante di un tabulato. Noi uscivamo in strada a Montevideo ogni volta che una donna veniva uccisa, e queste tabelle erano solo un aspetto del nostro lavoro, ma volevamo avere una rappresentazione visiva dei casi. Ho iniziato a mapparli anche perché come web developer avevo fatto corsi di data journalism e sapevo come usare Google Maps e fare infografiche. Insomma, il formato è stato scelto sia per necessità che per questo know-how che avevo. È curioso anche come io sia poi tornata in Inghilterra, provando anche a mantenere una certa distanza dal mio lavoro. Continuerò a farlo, ma in remoto, non sono più così coinvolta direttamente.
Nicola Bozzi: Quanto al tuo paper sull’appropriazione femminista del geo-tagging, come mai hai pensato alla cartografia? Perché questo tipo di visualizzazione?
Helena Suárez Val: Ho capito il perché dopo aver iniziato. Non volevo fare una mappa così per fare, volevo una cosa visiva. Avrei potuto fare un grafico, una timeline, ma io conoscevo Google Maps e avevo seguito questo corso, quindi sapevo come farlo tecnicamente. Ma niente è così semplice come sembra, retrospettivamente ci ho pensato un sacco. Avendo ricercato per anni altri progetti di attiviste femministe incentrati sulla raccolta dati, tutti in relazione alla violenza di genere, e quello che ho trovato in tutti questi anni di diverse iniziative su Google è che in America Latina la maggior parte delle rappresentazioni finiva per essere cartografica, mentre in altri contesti geografici si tende a usare blog o database. Penso ci sia una relazione molto stretta tra la mappa e l’America Latina: la nozione della cartografia si è sviluppata con il colonialismo, e la cosiddetta scoperta del continente che è stato mappato e chiamato America. Insomma, quest’idea di mappa, colonialismo e territorio è importantissima nel panorama dell’attivismo femminista del continente – se parliamo del corpo come territorio, per esempio, qualunque femminista latinoamericana capisce immediatamente di cosa stai parlando, è proprio una cosa culturale. E poi ci sono tutti gli usi della mappa come formato attivista, come l’emblematica rappresentazione del continente “sottosopra” del pittore uruguaiano Joaquìn Torres Garcia. Insomma, la risposta semplice è che sapevo come fare mappe, quella più complessa è che come attivista tutti questi collegamenti e queste interazioni tra territorio, colonialismo e “colonialità” di genere fanno parte del mio DNA.
Nicola Bozzi: Che è una dinamica intersezionale, giusto?
Helena Suárez Val: Assolutamente. C’è questa scrittrice, María Lugones, che usa questo termine – la colonialidad del género – come equivalente di intersezionalità. Sicuramente concepiamo la violenza contro le donne come prodotto di un’interazione tra genere, razza, età, classe, identità di genere, e tutte queste altre categorie. Mappare i casi di femminicidio non può prescindere da questa premessa. E, tra parentesi, in un certo senso quello che sto provando a capire nella mia ricerca è quanto di questa nozione traspaia effettivamente dalle mappe: è solo nella mia testa o viene anche veicolato dalla struttura dei dati? Stiamo dicendo – io e i dati – le cose che voglio dire, o si tratta di mezzi inefficaci in questo senso?
Nicola Bozzi: Quest’urgenza di avere un elemento visivo mi fa pensare a Forensic Architecture e la loro contro-cartografia. Ero curioso di sapere cosa pensi dell’estetica nel contesto del tuo lavoro, sia per quanto riguarda i dati che in termini di mappatura come atto performativo – che è una cosa di cui parli tu stessa. Insomma, qual è il ruolo dell’estetica nel tuo lavoro?
Helena Suárez Val: A volte mi sono ispirata a Bifo, quando parla di poetica e ritornello. Dopotutto quando scendiamo in strada contro il femminicidio cantiamo, il femminicidio stesso è usato come dispositivo retorico, poetico ed estetico. E poi questi casi seguono un ritmo particolare e ogni luogo ha degli elementi che si ripetono e che inizi a identificare. La poetica nel tuo lavoro c’è che tu lo voglia oppure no, ma capisco che può essere più o meno intenzionale. È per questo che vorrei rifletterci un po’ meglio, visto che nella mia mappatura non ci sono decorazioni o abbellimenti – soprattutto perché è un lavoro urgente e non mi sono concentrata sull’aspetto visivo più di tanto. Per esempio ho usato i marker di default di Google, mentre in Messico i marker hanno colori e icone diverse… a volte utilizzano croci, oppure pistole o coltelli. Penso che l’estetica sia un aspetto interessante, proprio perché finora non ci avevo pensato abbastanza. Non mi piace fare distinzioni nette tipo “sono un’attivista” o “sono una ricercatrice”, e “artista” è l’etichetta che ho rifiutato di più nella mia vita. Ma poi cosa significa essere un’artista? Sono una produttrice, ho prodotto opere teatrali e anche performance di protesta, quindi sono molto in contatto con gli artisti. Alla fine l’oggetto estetico esiste finché c’è un incontro estetico; quando qualcuno vede quella mappa, la vedrà come arte, attivismo o performance? È l’incontro che la definisce.
Nicola Bozzi: È una risposta interessante. A proposito di incontri, ricordo che mi dicevi di avere alcune riserve riguardo al mostrare certi dettagli personali delle vittime, e che pensavi magari di anonimizzarle e trasformare l’oggetto in una specie di monumento alla memoria. Anche il fatto di usare una pistola come marker, per esempio, non rischia poi di trasformare quella persona in una vittima di arma da fuoco prima di tutto? Insomma, che tipo di dubbi hai trovato sul tuo cammino, e quanto open vuoi che questi dati siano?
Helena Suárez Val: È un’altra buona domanda, ma non penso possa essere risolta in un modo che faccia contenti tutti. Si tratta di un modo etico di procedere o del “mio” modo etico? Non lo so. Parte delle conversazioni che ho avuto quando ho iniziato a lavorare con WikiData riguardavano l’oggetto dei dati. Di cosa parlano? Se metti la violenza in primo piano – la pistola o il coltello – trasformi tutto in una “cosa”. Nel lavoro delle attiviste di cui faccio parte – quelle che mappano i femminicidi, insomma – di solito è la donna a essere in primo piano. I dati vengono mostrati per mostrare la gravità del problema, ma anche in memoria e nel rispetto delle vittime. È un’operazione molto delicata, perché dal primo momento ti misuri con un’azione che potrebbe non essere “giusta”. Dici che le vuoi rispettare, ma mettendole sulla mappa saranno sempre ricordate come vittime di femminicidio, che magari non è il modo in cui avrebbero voluto essere ricordate, o come i loro cari vorrebbero ricordarle. Penso che l’ideale sia una via di mezzo. Ad ogni modo mettere i dati su WikiData è molto importante, perché per capire il fenomeno devi avere dei dati che lo descrivano, che sono utili per formulare provvedimenti legali, attivismo, o collaborazioni tra istituzioni e attivisti. L’elemento più rappresentativo è il caso, il fatto, qualcosa che è successo, che si chiama femminicidio e nel quale determinati agenti sono coinvolti. Pensiamo che i dati debbano mettere in primo piano questo accadimento, questo hecho, del quale anche noi siamo parte – così come il governo, i media e il resto della società come osservatori passivi. Non so se tutto ciò possa andare su WikiData, ma spero abbia senso.
Nicola Bozzi: Certo. Il tuo dottorato è incentrato sul tuo progetto?
Helena Suárez Val: No, è più ampio. Ho proposto di esaminare Feminicidio Uruguay, ma anche progetti in Messico ed Ecuador. In questa fase tutto può ancora cambiare, ma volevo discutere tre o quattro iniziative diverse di questo tipo, inclusa la mia, e guardare le implicazioni politiche della visualizzazione dati in questo modo. Per esplorare il tema insieme ad altre attiviste spero di organizzare una serie di workshop, anche con programmatrici, ricercatrici, o funzionarie del governo interessate alla visualizzazione dati per lavorare sul femminicidio come categoria per la creazione di dati. Per il momento l’idea è questa.
Nicola Bozzi: Quanto alle hashtag che utilizzi come attivista, che dinamiche hai riscontrato? Sono più o meno efficaci del geo-tagging? Vale la pena crearne di nuove o segui hashtag già stabilite?
Helena Suárez Val: Nel mio progetto ho scelto tre hashtag che non ho creato io. Ho evitato l’ovvia #FeminicidioUruguay, usando invece #feminicidio, che è puramente categorica – di cosa si tratta? – e poi #MachismoMata e #NiUnaMenos. La prima è offerta come spiegazione: il machismo è molto conosciuto in America Latina e #MachismoMata non lascia spazio a dubbi – anche se lascia spazio a contestazioni e dispute, ovviamente. L’ho vista usare in Spagna e in contesti relativi alla violenza sulle donne, quindi usando questa tag provo a inserire il progetto in una conversazione online più ampia. Anche #NiUnaMenos riguarda l’attivismo femminista, anche se è un po’ più ambigua – se non la conosci non la capisci. Significa “neanche una di meno”, ma cos’è questa “una” femminile che non vogliamo perdere? Naturalmente in America Latina è diventata un appello contro il femminicidio, quindi ormai è familiare dentro e fuori dalla regione. È apparsa anche sul Guardian, quindi ormai fa parte dell’attivismo femminista. Da sola nessuna di queste hashtag dice molto, ma il significato viene completato dal contesto nel quale vengono usate. Le inserisco quasi ritualmente, sempre nelle stesse posizioni, nello stesso ordine. È un po’ perché sono una control freak, e così facendo ho la sensazione di nominare il problema, spiegarlo e fare un appello per una risposta.
Nicola Bozzi: Torniamo insomma al discorso sul ritmo e il ritornello di cui parlavamo prima. Dal punto di visto più teorico, invece, come ti collochi?
Helena Suárez Val: Essendo al Centre for Interdisciplinary Methodologies, una delle ragione per cui il dipartimento era interessato, e il motivo per cui è adatto al progetto, è proprio il fatto che propongo di studiare la visualizzazione dei dati sul femminicidio come metodologia per studiare il femminicidio, oltre che per l’attivismo. È interdisciplinare, riguarda teoria, pratica tecnologica, strategia politica – studio una metodologia interdisciplinare da una prospettiva interdisciplinare. Ma non so ancora cosa riuscirò a fare o quale sarà il risultato finale. Sono interessata al neomaterialismo, come hai visto, e all’idea di agenti non-umani – e immagino che anche a te interessi come le tag hanno vita propria. Quindi la mia proposta metodologica è di fare questa serie di workshop, chiedendo anche: come fa un workshop, o la presentazione di un workshop, a essere un metodo? Come si studia mentre si fa?
Nicola Bozzi: E per quanto riguarda la performatività della cartografia?
Helena Suárez Val: Fare le mappe è performativo anche nel senso che pensi tu, ho esplorato un po’ meglio la questione nella mia tesi del master a Goldsmiths. C’è la performance del mappare, dal momento che non posso farlo e basta – ricevo una notifica, leggo una news, e dico “Ok, sembra un nuovo caso.” Allora devo mettermi fisicamente a fare la mappa, mi devo sedere… Piango o no? Prima lo facevo. Se qualcuno guardasse me o qualsiasi altra attivista che fa questa operazione capirebbero che c’è una performance attiva ed emotiva. E ovviamente la mappa diventa performativa nel senso che genera emozioni anche dall’altra parte.
Nicola Bozzi: Riguardo a questa materializzazione e performatività, con questa premessa se smettessi di mappare la gente potrebbe vedere la mappa e pensare “il femminicidio è questa cosa qui, queste sono le persone che sono state uccise”, ma magari nel frattempo sono morte altre 100 persone. Quindi in un certo senso ti prendi la responsabilità di continuare? Anche se ognuno può contribuire, giusto?
Helena Suárez Val: È parte del motivo per cui stiamo parlando di strutturare i dati in modo da minimizzare il rischio che qualcuno faccia lo stronzo, per esempio vandalizzando informazioni su quelle che sono persone vere. Ma il discorso della performatività della mappa e della materializzazione del femminicidio non finisce qui: manifesta l’idea di donna, un’idea di questa nazione… Dal momento che uso Google Maps, tutto funziona nel contesto di una configurazione statale particolare, e un aspetto interessante e pericoloso di questo uso della cartografia come strumento attivista è proprio che mappare un territorio contribuisce a renderlo “fisso”. Nella mappa di Feminicidio Uruguay ci sono alcuni casi di donne che sono state uccise fuori dal Paese, ma che erano comunque uruguaiane. Sono solo alcuni casi, ma bastano già a disturbare l’idea della mappa. Anzi, in un certo senso è peggio. Che cosa sta registrando la mappa? Mostra i casi di omicidio di donne in Uruguay o di donne uruguaiane? È un concetto instabile, ma sembra stabilissimo. Cos’è una donna, cos’è il femminicidio, cos’è l’Uruguay?