François Vogel è fotografo e film-maker francese. E’ stato definito di volta in volta “mago barocco del video” [2] o “cosmonauta dell’immagine” [3] e si muove con agilità tra il mondo della comunicazione e quello del video indipendente realizzando spot pubblicitari, video musicali e numerosi cortometraggi conosciuti e premiati a livello internazionale. L’ultima edizione del festival Invideo gli ha dedicato una retrospettiva [4], offrendoci così l’occasione di osservare da vicino il suo straordinario lavoro, in cui deformazioni e vertigini prospettiche si affiancano spesso alle tecniche dello stop motion e del time lapse.

Tra le sue opere più note il virtuoso Cuisine (2007), autoritratto durante un’onirica colazione notturna, Stretching (2009), dove la relazione con l’architettura passa attraverso una sorta di “ginnastica urbana”, o Terrains Glissants (2010), eccentrico diario di viaggio in cui paesaggi urbani e luoghi incontaminati si alternano in poetiche proiezioni stereografiche. Per entrare nel mondo visionario di François Vogel occorre forse recuperare la memoria di quella sensazione di paura e stupore con cui da bambini, al luna park, attraversavamo i labirinti di specchi deformanti.

L’esperienza della nostra immagine distorta, moltiplicata all’infinito e vista da ogni prospettiva possibile era una vertigine dello sguardo difficile da arrestare. Quei dispositivi della meraviglia, per cinque minuti e poche lire, ci regalavano l’adrenalica illusione di un occhio a 360 gradi in grado di abbracciare il mondo rompendo la cornice e scovando il fuori campo nascosto.

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Qualcosa di simile accade nella ricerca visuale dell’artista francese. Racconta Vogel che arrivando per la prima volta davanti a Notre-Dame con la sua famiglia, da piccolo, si gettò a terra per cercare di vedere il più possibile, “tutto in una volta” [5]. Una sorta di collasso della visione che solo la caduta del corpo, l’abbandono della postura eretta e dello sguardo frontale, sembravano in grado di garantire. Era ancora un bambino, quindi, quando la visione e la rappresentazione del mondo già costituivano qualcosa di più di un semplice interesse.

“Era un sogno. Un sogno d’infanzia”, mi risponde quando gli chiedo di raccontarmi l’inizio del suo percorso artistico. La passione per il disegno lo prende fin dai primi anni, non ancora adolescente realizza film d’animazione girati con la cinepresa super 8 del padre, conosce e s’innamora delle opere visionarie di M. C. Escher, che rimarrà uno dei suoi principali riferimenti estetici e, dopo aver intrapreso e poi abbandonato studi scientifici, si iscrive all’Accademia di Arti Decorative a Parigi. Comincerà allora un percorso in cui sperimenterà numerose tecniche per aprire la realtà ad ogni interpretazione possibile: dalle macchine stenopeiche da lui stesso costruite, alle sfere di vetro con cui realizza gran parte delle riprese dei suoi video, fino ai software per la modellazione 3D.

Una costellazione di strumenti che Vogel utilizza con lo spirito di un ricercatore, di un inventore, di un fabbricatore di immagini. Il suo è un gioco continuo con la rappresentazione della realtà, nel tentativo di portarla fino ai suoi limiti più estremi, dilatarla dall’interno, rovesciarla come un guanto. E se molte delle sue deformazioni visive ricordano le sperimentazioni di stampo surrealista, e non è un caso che il cineasta ceco Jan Švankmajer sia uno dei suoi autori più cari, è nella visione barocca, con i suoi grandangoli e le sue anamorfosi, che occorre cercare la radice estetica della ricerca di Vogel. [6]

Una messa in questione della prospettiva classica, una sfida alla rappresentazione dove immaginazione e calcolo geometrico si fondono per la creazione di mondi (im)possibili. Per comprendere la sua ricerca, che da vent’anni abbraccia fotografia, film, video e installazioni, occorre forse partire dalla tecnica che non rappresenta solo l’inizio, ma l’essenza stessa del suo percorso creativo: la fotografia stenopeica. Ce ne offre un quadro il testo appena pubblicato, Nouveau Traité du Sténopé [7], in cui si possono ammirare non solo le opere fotografiche dei primi anni ’90, ma gli svariati modelli di macchine stenopeiche da lui stesso realizzate assieme ai dettagliati disegni per il calcolo geometrico preparatorio agli scatti.

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La mia conversazione con François Vogel comincia da qui, da questa scelta verso una fotografia senza macchina fotografica.

Giulia Simi: Lo stenopeico è basato sul noto meccanismo della camera oscura, che precede di molti secoli l’invenzione della fotografia ed è utilizzato nelle tecniche pittoriche di artisti come Canaletto e, secondo studi recenti, anche Caravaggio. Una pratica antica, quindi, che risuona come un affascinante anacronismo nelle mani di artisti che hanno a disposizione sofisticati software di elaborazione dell’immagine. Cosa significa per te lavorare con lo stenopeico?

François Vogel:Molti artisti utilizzano lo stenopeico nel loro lavoro attuale. E’ una tecnica che in realtà non è mai stata molto popolare, forse perché in effetti ha un lato “primitivo”, non tecnologico. Lo stenopeico è un po’ l’Arte Povera del fotografico. Da un parte c’è sicuramente una motivazione economica, si può realizzare una macchina stenopeica con una scatola di scarpe, ma c’è anche il fatto che offre una maniera alternativa di fotografare. Non si “rubano” cliché con uno stenopeico…

Bisogna prendersi più tempo, la durata di esposizione è molto lunga, si vede meno, bisogna spesso avvicinarsi molto al soggetto e a volte l’apparecchio si posa direttamente su di esso. Anche esteticamente, la grana dell’immagine è diversa. L’immagine non è esposta uniformemente. C’è quella specie di limpidezza tipica dello stenopeico: tutto è definito da zero all’infinito ma nello stesso tempo tutto è leggermente offuscato. Quello che personalmente amo di più nello stenopeico è che permette di giocare con la prospettiva. I raggi luminosi passano in linea retta dal soggetto fotografato alla lastra sensibile senza attraversare nient’altro che l’aria. Trovo affascinante questa purezza geometrica.

In questo senso, non è molto lontana dalla tecnica di rappresentazione dello spazio in ambiente digitale. All’inizio del 3D c’era in qualche modo uno stenopeico virtuale che catturava la scena, non un sistema ottico. Io lavoro molto con il software e il mio intervento digitale sulle immagini deriva assolutamente dalla tecnica stenopeica. Molti dei cortometraggi sono come filmati da uno stenopeico virtuale.

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Giulia Simi: La distorsione della forma è una costante nella tua pratica artistica e attraversa ogni tuo lavoro. Uno sguardo poco attento potrebbe attribuirla ad un grande sforzo di post produzione, ma in realtà già nelle tecniche di ripresa, e prima ancora appunto nella fotografia stenopeica, c’è un radicamento nel corpo, nel gesto, nel lavoro plastico che ti permette di preparare la scena e costruire i giusti strumenti per catturare le immagini…

François Vogel: bSono affascinato dai mezzi che permettono di cogliere il reale e amo particolarmente quando si verifica un’osmosi tra lo strumento di cattura e il soggetto. Quando fotografo un cactus per esempio, m’interessa la sua forma geometrica circolare, e allora immagino un apparecchio fotografico che possa donare delle deformazioni sferiche concentrate sul centro del cactus. Nelle mie prime esperienze fotografiche mi capitava di fabbricare un apparecchio fotografico in funzione di ciò che volevo fotografare. La geometria del soggetto orientava la geometria dell’apparecchio fotografico.Nei miei cortometraggi faccio spesso intervenire i mezzi informatici ma ho conservato questo percorso di fabbricazione degli strumenti.

Spesso quando monto le miei immagini al computer ho l’impressione di modellare della plastilina fotografica! E’ come se massaggiassi il sensore della macchina. Anche la ripresa è realizzata in funzione delle deformazioni a cui l’immagine è destinata. E spesso, siccome lavoro con dei grandangolari assai ampi, tutto deve essere molto vicino. Il personaggio è molto vicino alla macchina fotografica o alla telecamera che è a sua volta molto vicina alla scenografia. Tutto lo spazio è condensato in modo che le cose quasi arrivino a toccarsi. La scena prende quindi questo carattere che può dare l’effetto di “cosmonauta dell’immagine”.

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Giulia Simi: Come in Cuisine

François Vogel: Sì, Cuisine è realizzato con una macchina fotografica che riprendeva l’immagine della cucina riflessa su una sfera di vetro posta sopra un bicchiere al centro del piano di lavoro. E’ un intero piano sequenza, la macchina scattava ogni due secondi, quindi io ero costretto a muovermi 20 volte più lentamente. Questo mi permetteva in realtà di riflettere sui giusti movimenti da compiere per posizionare gli oggetti in funzione della fase di postproduzione. Bisogna anche pensare che in una ripresa a 360 gradi nulla è nascosto. Non esiste il concetto di fuori campo. Significa che occorre controllare ogni minima posizione degli oggetti, ogni minimo spostamento. Cuisine è in effetti quasi una coreografia.

Giulia Simi: Occorre relazionarsi continuamente con lo spazio quindi. Questa relazione tra corpo, apparecchio di ripresa e messa in scena è costante. Una sorta di “menage à trois” che già descrivevi prima e che ha un radicamento fisico molto forte. Anche in Terrains Glissants, in cui attraversi spazi metropolitani o luoghi immersi nella natura, accade qualcosa del genere. Il lato performativo è di nuovo molto accentuato.

François Vogel: Sì, sicuramente. In Terrains Glissants c’è una sequenza in cui attraverso l’intera città di Manhattan, filmando dall’alba al tramonto, per 15 ore di fila. La tecnica è simile a quella di Cuisine, con macchina fotografica che scatta ad intervalli regolari. Scattavo una foto e facevo tre passi, una foto, tre passi. In più avevo con me tutta l’attrezzatura per la mia tecnica di ripresa che filma il riflesso attraverso una sfera di vetro. Giulia Simi: Esatto. Quella tecnica che ti permette, insieme ad obiettivi grandangolari, la visione a 360 gradi che è così centrale nella tua ricerca.

François Vogel:Io sono sempre stato affascinato dai riflessi, a cominciare da quello del rubinetto nella vasca da bagno. Mi piace pormi domande su come rappresentiamo lo spazio che ci circonda. Noi ci muoviamo in uno spazio tridimensionale che poi trasferiamo in una dimensione piatta che è quella dell’immagine. Ci sono così tanti modi di realizzare questo trasferimento! E ormai tra l’altro sappiamo che ci sono più di tre dimensioni.

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Giulia Simi: Un’ultima domanda è d’obbligo e riguarda il tuo rapporto con la comunicazione. Fino ad oggi hai realizzato infatti molti spot pubblicitari, per marchi come HP, Sharp, Lexus, dove comunque riesci a sperimentare soluzioni linguistiche interessanti. Che rapporto hai con la pubblicità e come si coniuga con la tua pratica artistica?

François Vogel:Io amo molto il mio lavoro di pubblicitario. E’ un lavoro molto collettivo. Mi permette di viaggiare, di fare incontri, mi permette anche di riuscire a filmare con grandi attrezzature, e, non da ultimo, mi permette di finanziare i miei lavori personali. Però c’è un lato frustrante, perché alla fine in pubblicità non si può conservare il prodotto. E poi è l’arte dell’usa e getta. Dura qualche settimana e dopo cade nel dimenticatoio. A volte, dopo aver realizzato di seguito una serie di spot mentre il mio lavoro personale non avanza, sento salire un’onda di depressione. Ecco, in quel momento so che devo cambiare il fucile in spalla. Sento che devo lanciarmi nel mio lavoro personale!


Note:

[1] – Questo il titolo dell’intervista di Donald James a François Vogel pubblicata in «Bref» n. 95, nov-dic 2010.

[2] – La definizione si deve a Jean-Michel Galley nel testo Nouveau Traité du Sténopé, cit.

[3] – In quell’occasione sono stati proiettati i video Cuisine (2007), Riante Contrée (1996), Le bruit de la vrillette (1992), Rue Francis (1997), Ready Made – LIVE@THE END (2002), After the Rain (2008), Tournis (2006), Rébus (2008), Stretching (2009), This Thirst (2011).Per un report su Invideo XX1 cfr. l’articolo pubblicato nel numero #70 di questa rivista: http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=2229

[4] – Nouveau Traité du Sténopé, cit.

[5] – E’ lo stesso François Vogel, nella già citata intervista di Donald James, a dichiarare: “Nella grande opposizione tra il barocco e il classico sono, come autore, sul versante barocco.”

[6] – Op. Cit.