Yuri Ancarani (Ravenna 1972), “artista visivo – film maker” come si definisce, sviluppa la sua ricerca partendo dal territorio. Che sia il suo d’origine, la riviera e la Romagna come per il video Vicino al Cuore (2003), che dichiara essere l’opera alla quale è più legato, oppure il Carso (Bora, 2011) o le cave di Carrara (Il Capo, 2010), coglie sempre l’aspetto invisibile che riempie di significato quei luoghi.

Reduce da numerosi Film Festival sparsi per il mondo e alcuni premi vinti, ultimo in ordine di tempo la Genziana d’Argento per il miglior cortometraggio al 59° Trento Film Festival, si ritrova catapultato nel mondo del cinema quasi per caso, dopo la presentazione de Il Capo alla 67° edizione del Festival di Venezia per la sezione Orizzonti.

Tante le collaborazioni importanti tra cui l’ultima con Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari per il nuovo progetto editoriale Toilet Paper in cui Ancarani si occupa dell’immagine in movimento. L’ultimo film, Bora,sarà presentato il 4 luglio 2011 nel contesto della rassegna Weird Tales a cura di Franco Masotti e Christopher di Bronson Produzioni, da due anni sezione speciale di Ravenna Festival, manifestazione arrivata al suo ventiduesimo anno la cui peculiarità è una programmazione di eventi che spazia tra teatro, musica, danza classica e contemporanea.

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Bora è commissionato e prodotto da Ravenna Festival in collaborazione con la Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone, sarà proiettato come visual che accompagnerà la performance live di Steven O’Malley, chitarrista e compositore statunitense fondatore di diversi gruppi drone, doom metal e death/doom tra cui i Sunn 0))).

Alessandra Saviotti: Come nasce la collaborazione con Steven O’Malley per Bora?

Yuri Ancarani: Ho ascoltato per tanto tempo i suoi dischi e durante il montaggio del video ascoltavo musica. Mi sono accorto che funzionava particolarmente bene la sovrapposizione della musica di O’Malley con le mie immagini perciò ho pensato di contattarlo e di inviargli un “pre-montaggio” spiegandogli cosa avrei voluto fare con questo materiale. Da lì è nata la collaborazione.

Alessandra Saviotti: Bora è considerato come una performance?

Yuri Ancarani: Secondo me si tratta di uno spettacolo. E’ nato nell’ambito di Ravenna Festival per la nuova sezione dedicata alla musica contemporanea. Ultimamente vi è la tendenza di abbinare la musica contemporanea ad un’esperienza anche visiva e credo che la ragione sia perché prima il musicista era una sorta di “fenomeno da palcoscenico” ora invece con le nuove tecnologie, spesso rimane seduto davanti ad un computer anche durante la performance live. Secondo me c’è l’esigenza di creare un movimento, un’attrazione per il pubblico.

Per Bora non sarà del tutto vero questo discorso perché O’Malley ha lo stesso presenza scenica. Ma la differenza sta nella concezione del film: a differenza dei miei altri lavori non vi è un soggetto ben definito. L’ho concepito pensando che vi è qualcuno sul palco e la presenza del pubblico è concentrata su di lui. E’ lui che diventa il personaggio del video.

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Alessandra Saviotti: Da dove deriva l’idea di girare il video al Carso?

Yuri Ancarani: Tutto è nato perché ero stato invitato da Andrea Bruciati (Direttore della Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone) insieme ad altri artisti a sviluppare un progetto artistico sul territorio di Monfalcone. Il sopralluogo lo feci un giorno in cui tirava molto forte la bora e da qui, ogni volta che c’era il vento ritornavo sul Carso. Questo ha fatto sì che la mia percezione del territorio risultasse completamente “diversa”. Nell’arco di due anni sono stato sei volte e in vari punti del Carso.

Ma il luogo più significativo e spettacolare dal punto di vista visivo, è la Val Rosandra: è carico di tantissime storie, era il punto più facile in cui attraversare il confine tra Italia e Slovenia. E’ anche il luogo in cui il vento si incanala e tira molto più forte, che si chiama sella di bora. Qui il vento ha una forza inaudita ma non si percepisce nulla a livello visivo perché ci sono solamente sassi, non c’è movimento. Si percepisce la violenza del vento ma è come se non succedesse nulla.

La musica è un’improvvisazione live che accompagna il video, senza la live performance sarebbe piatto e insignificante perché è stato concepito proprio per questo lavoro in particolare. Il video però ha una sua storia, un suo svolgimento. O’Malley tutte le volte che il lavoro sarà riproposto, probabilmente farà una performance diversa lavorando in diretta sulle immagini.

Alessandra Saviotti: Parlando di un altro tuo recente film Il Capo, l’aspetto che mi ha fatto più riflettere è l’opposizione tra una presenza molto fisica e “violenta” del personaggio, dell’ambiente, dell’industria pesante con le azioni e i gesti che invece sono molto delicati. Che ne pensi?

Yuri Ancarani: La delicatezza e l’accortezza delle azioni credo che sia data dal tipo di lavoro: i cavatori devono lavorare con un marmo che è il più pregiato e veramente costoso, e non devono rovinarlo. Ho voluto enfatizzare che la “bestialità” del personaggio, non è poi così “bestiale” e ho preferito dare importanza alla perfezione del lavoro e delle azioni con le inquadrature. Ho cercato i punti migliori della cava facendolo sembrare un ambiente perfetto poiché sembrasse un set, quando in realtà è un cantiere. A me, a differenza di altri videomakers che si avvicinano al mondo del lavoro come soggetto e ne ricercando la rozzezza quasi da reportage, interessa sottolinearne la spettacolarità e voglio che tutto sia perfetto, quasi un set costruito. E’ faticosissimo cercare la perfezione in questi posti eh!

Alessandra Saviotti: Quanto sono durate le riprese per Il Capo?

Yuri Ancarani: Le scene che si susseguono in cui vengono ricavate le bancate di marmo le ho girate in un anno. Quando i cavatori erano pronti per estrarlo, mi chiamavano e io andavo a riprendere. Le scene sul capo della cava le ho girate in una settimana e sembra che sia una sola giornata di lavoro. Sicuramente avrei potuto metterci meno tempo, ma io giravo in un cantiere, la cava non si poteva fermare per me. Ho deciso di fare un film in 35 mm che mi ha permesso di ottenere immagini che emozionano.

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Alessandra Saviotti: Oltre all’immagine molto curata, si percepisce un’attenzione particolare al suono.

Yuri Ancarani: Il suono è l’aspetto più curato, ho lavorato con un fonico che si occupa di cinema, Mirco Mencacci, che è un vero maestro. Ha accettato di collaborare con me perché, pur avendo trent’anni di esperienza, lo coinvolgo sempre in progetti che gli permettono di sperimentare.

Alessandra Saviotti: Come hai fatto ad entrare in un ambiente del genere che sembra così duro?

Yuri Ancarani: Io ci metto così tanto entusiasmo che le persone si convincono. Ovviamente ci vuole molto tempo.

Alessandra Saviotti: Tu ti consideri un regista o un videomaker?

Yuri Ancarani: E’ complicato, io mi considero un “artista visivo – filmmaker”, nome composto. Ma ultimamente sto dicendo “videoartista” perché è più comodo, anche se nell’ambiente dell’arte è un nome obsoleto. Di solito è così: nell’ambiente dell’arte sono un filmmaker e nell’ambiente del cinema sono un artista!

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Alessandra Saviotti: Al Festival del Cinema di Venezia quindi come sei arrivato? Come artista o come filmmaker?

Yuri Ancarani: Sono arrivato come artista alla sezione Orizzonti del Festival dedicata alla ricerca cinematografica internazionale che è fatta sulla base del lavoro presentato. E’ stata piuttosto dura perché la selezione dei film è fatta in ogni ambito dell’immagine in movimento. Per fortuna dall’anno scorso è stata modificata l’idea della durata del film e sono state accorpate le categorie di cortometraggio, mediometraggio e lungometraggio, per cui il film non deve avere una durata standard, ma quella adatta al lavoro. Nel mondo dell’arte 15 minuti hanno tutta la loro dignità, anzi, meno tempo ci metti per rappresentare il messaggio e più sei bravo, mentre nel cinema è completamente diverso. Il cortometraggio è quasi una forma di palestra per poi realizzare dei film “lunghi”.

Dopodiché il film è stato presentato in vari festival, tra cui IDFA (24e International Documentary Film Festival Amsterdam) che è tra i festival di documentari più importanti al mondo, poi negli Stati Uniti (SXSV ad Austin – Texas, True/False Film Festival – Missouri, Ann Arbor Film Festival – Michigan), al Cinema du Réel al Centre Pompidou di Parigi dove è stato scelto uno still per l’immagine ufficiale del festival per cui tutti i selezionatori al mondo sanno che esiste.

Alessandra Saviotti: Sia Bora che Il Capo sono girati in un territorio che non è il tuo. Nei primi lavori sei partito da Ravenna.

Yuri Ancarani: Sono dieci anni (2000-2010) che lavoro su Ravenna e sul territorio romagnolo con una serie di video che rimarranno come una sorta di passaggio. Sono nella botte di ebano ad insaporirsi. Negli anni ’80 ci fu Pier Vittorio Tondelli che scriveva di questo territorio, adesso io ho l’ambizione di fare qualcosa del genere con un linguaggio più vicino a noi ora, che può essere il video, ma anche il videoclip, infatti ho realizzato anche video della durata di 2 minuti. Il tutto è nato da un’esigenza ben precisa: io vivo a metà tra Ravenna e Milano e quest’ultima è una città sterile.

Una città in cui non puoi pensare di lavorare con la testa, è un’ottima vetrina ma non è fatta assolutamente per creare. La ricerca si fa in provincia, questo è poco ma sicuro, ma poi non puoi rimanerci. Certo è che se fossi stato sempre a Ravenna non avrei avuto gli occhi per captare degli aspetti particolari e non avrei acquisito la tecnica.

Ho realizzato sette lavori sul territorio della riviera, volevo farne dieci.. ho già i soggetti, mi manca solo il tempo.

Alessandra Saviotti: Hai dei riferimenti in particolare per il tuo lavoro?

Yuri Ancarani: Ho delle passioni, non dei riferimenti ben precisi. Diciamo che la cosa che mi interessa in questo momento è la fotografia di architettura rispetto alla tecnica, alle inquadrature ecc. Io lavoro di “pancia”.