(In occasione dell’anniversario della morte di Neda Agha Soltan, 20 giugno 2009, uccisa durante le proteste successive alla contestata rielezione di M. Ahmadinejad) – http://www.youtube.com/watch?v=bbdEf0QRsLM
“L’immagine della morte di Neda s’insinua tra i villi cerebrali, compulsivamente. L’occhio, complice cannibale e affamato, osserva la morte nella decongestionante presa di coscienza satellitare che ormai da giorni aspettavamo ci fosse disattivata com’era accaduto alle palazzine circostanti. La CNN continua a ripetere le immagini del viso di Neda. Il grande occhio catodico annusa l’odore del sangue e conosce i suoi adepti, bulimici vampirizzati, e li spreme fino a che il rosso canicolare diventi invisibile, e il momento della morte, il trapasso, si trasformi in un sogno, come nel chocking game, rituale tra i teenager americani di buona famiglia che si strangolano a vicenda sino a svenire e rantolare per qualche secondo in preda agli spasmi, per risvegliarsi tra le risate dei loro amici senza capire dove si trovano né perché o quando.
1.
Credo sia l’atto di filmare e il gesto di registrare la morte, di cui il gioco dello strangolamento fornisce un assaggio reversibile, ad essere in comune tra il choking e Neda. Mi chiedo se l’esperienza del chocking avrebbe l’impatto che ha sui giovani americani senza poter essere filmata, riprodotta all’infinito e successivamente condivisa online, permettendo a chi la subisce di guardare i momenti nei quali non c’è stato, almeno per se stesso.
Mi chiedo quanta cinica e incomprensibile comicità ci sia nel tentativo di raccontare episodi come questo cercando di storicizzarli, analizzandoli e sezionandoli come un cadavere in obitorio, nonostante il formato immersivo dello street journalism suggerisca un approccio diverso. Forse le autopsie cominciano da qui, dallo schermo televisivo.
Eppure manca qualcosa in questo blaterare d’immagini. Nell’inconscio collettivo di un popolo queste immagini funzionano come il detonatore di una serie imprevedibile di microeventi pronti ad emergere e a risuonare in stridenti e impenetrabili glossolalie gestuali involontarie e condivise, in un fare inconsulto che riassorbe il concetto e lo amplifica e lo interroga portandolo ai limiti del suo porsi in definizione, piuttosto che in dubbio, equivoco, scarto nobile dell’azione.
Neda è già simbolo, icona, thumbnails da computer, facebook profile’s picture di ognuno degli iraniani coinvolti nella rivolta. Lo shock dell’immagine si è già razionalizzato nella coscienza che ognuno potrebbe essere Neda, e questa coscienza toglie all’immagine visibilità, concretezza, trasformandola in icona. Mi chiedo se la CNN non stia già suggerendo quest’approccio percettivo, per giustificare la coatta ripetizione dell’immagine, attraverso il contrappunto della voce, che propone Neda come simbolo della rivolta.
2.
Muore bellissima, più bella di quanto appaia nelle foto che la ritraggono da viva, o meglio, da morta, come sembra in quelle schedature scolastiche, immobile, senza fiato. Com’è strano guardarla ingessata in quelle pose artificiali appena dopo la pulsazione delle immagini in movimento della sua morte, così paradossalmente vive ed ingorde di vita nel risucchio improvviso e silenzioso della fine, tra le urla circostanti. Neda è più bella, al momento della morte, e nessuno lo dice, per rispetto. È forse quest’elemento, che le televisioni tacciono, ad alimentare la morbosa voglia proiettiva?
3.
Ma c’è dell’altro nel momento di questa morte convulsa, barocca, c’è dell’altro nell’animalesca porcellana di un viso in fusione con l’indicibilmente altro. Questa morte, sgranata e puntinista, si accorge di essere vista. E guarda, a sua volta. Neda s’introduce nella camera, la sfonda, ne frantuma la grana. Neda ci guarda. Neda si accorge di essere filmata, nell’intorno della morte, e la morte entra nell’immagine, non viceversa, almeno per una volta. Riproducibilità e morte gridano lo stesso urlo iconico, del simbolo allo stato puro, dell’immagine oltre se stessa, della visione che diventa linguaggio e parola. In quello sguardo, probabilmente non ricambiato da chi la filma se non attraverso il filtro della camera, Neda trova se stessa come icona. La sua morte, nello sguardo in camera, è l’esempio sublime del mistero dell’esposizione del corpo intruso di se stesso dallo sguardo degli altri.
In quell’istante, in quello sguardo, la morte è in stand-by per sempre, come in una sindone aggiornata ad icona digitale che perde l’aura ma guadagna la ripetizione. Gli occhi di Neda si ribaltano inesorabilmente e si fissano per qualche millesimo di secondo nello sguardo elettronico del telefonino che la riprende, nel quale l’occhio di chi guarda è probabilmente assorto. In quel momento il culmine della reversibilità dello sguardo è in atto, per sempre e mai più allo stesso tempo. Nell’occhio digitale che innesca il processo iconico Neda che guarda è sia vedente che (in)visibile.
Mi chiedo cosa sia successo a Neda in preda alla morte e alla simultanea coscienza di essere filmata. L’estraneità gelida del mezzo converge nell’occhio di Neda, che vive una doppia intrusione, quella del risucchio nel trapasso e quella del percepirsi nello sguardo degli altri. Il funerale come evento pubblico nasce forse dall’incanalamento di questa forzata esposizione del corpo, che anzi nella morte si vorrebbe sottratto allo sguardo, e che tuttavia viene riproposto ad esso, ordinatamente, uno per volta, come in camera mortuaria. Come a rimandare il recesso del principio della visione ancora per un attimo, sino all’ultimo, incitando in questo modo il distorto processo fotografico e narrativo del ricordo.
4.
Il digitale, apparentemente neutro, che fissa la vitalità estrema della morte, lo spossessamento inesorabile e la definitiva intrusione, non si sottrae all’erotismo dello sguardo. La morte si cristallizza, anzi, si pixelizza nello sguardo di Neda. In quello sguardo la morte convive con la vita, se la fotte. E Neda, per una pura coincidenza frutto di un cortocircuito, effetto di una serie di prospicenze fisiche e geografiche involontarie, si accorge di una presenza, e proietta quest’orgia convulsa nella fiammata di uno sguardo che si accende per un ultima vampata. Neda non guarda chi filma. Guarda la camera, il telefono che cerca di filmarla. L’inconscio della morte è così esposto e destinato a ripetersi all’infinito, raffreddato dalla potenziale reiterazione, penetrato dall’occhio di Neda, registrato da quello della camera. La morte è al limite di se stessa, in quello sguardo: invincibile, indicibile, invisibile, ora ci guarda, orgogliosa, esce da se stessa e da chi la vive. Cosa pensa Neda in quello sguardo, se davvero si rende conto di essere filmata?
La morte eccede l’immagine, e in quell’occhiata l’intrusione della morte si estroflette. La camera immortala il trapasso senza soluzione di continuità tra l’internità della morte e l’esternità del suo divenire infinitamente e mediatamente condivisibile. Lo sguardo di Neda trapassa l’occhio digitale e si pone dalla parte di chi guarda, dove finisce, o si prolunga, lo sguardo di chi filma. Mi chiedo quanto lo strumento sia in grado di assorbire chi filma nell’immagine filmata facendogli dimenticare che si tratta del mondo attorno, e non di una semplicemente un’inquadratura. Ma chi suggerisce le inquadrature, in questi momenti estremi di realtà? Cosa muove il corpo del ragazzo che filma in modo che lo sguardo di Neda cada precisamente in quello della camera?
5.
Lo strumento è inconsapevole, eppure, anch’esso, situato, prende una sorta di coscienza, o d’inconscio, e ci chiede com’essere usato, guardato, ce lo suggerisce. Il modo in cui lo possiamo afferrare e controllare è già un modo del suo dirci, della sua sensuale indipendenza. L’immagine è rapporto tra l’occhio e la mano: paradossalmente anche nel digitale, è ancora per mezzo della mano che si fa l’immagine, come in pittura. L’immagine è gestuale, perfomativa, a maggior ragione quando le tecnologie si riducono in dimensione e l’impatto-posizionamento constante del gesto emerge più nitido come una forma di sintonizzazione linguistico-percettiva tra il mio abitare il mondo e i modi di raccontarlo suggeriti dallo strumento in gioco, nel caso di Neda un telefonino munito di camera.
Da un punto di vista coreografico la convulsione della morte si sincronizza al corpo di Neda e a quello di chi filma nel momento del fulmineo sguardo in camera: c’è qualcuno che guarda, nel fuori campo, ad una distanza minima ma incolmabile, intimamente fredda. c’è qualcuno, dietro l’armatura digitale di un atto che è appropriazione e volontà ipertrofica dello sguardo sul mondo, e in questo caso sulla morte.
Ho l’impressione che in questi momenti un principio comune di appartenenza al mondo renda una serie di movimenti irriflessi parte di un tessuto comune, frutto dell’emergenza del reale. La realtà di queste occasioni chiama le posture dei nostri corpi e le immagini dei nostri strumenti e il loro disporsi rispetto a noi e agli altri, tra noi e gli altri. In questi momenti diventa difficile pensare a questo genere di media come a dei prolungamenti. Essi ci risucchiano al proprio interno assorbendo il mondo reale circostante nel ricalco monadico di un occhio riproducibile, di un gestualità irripetibile.
La realtà esterna all’inquadratura, analoga a quella interna, perde le qualità empatiche a vantaggio di un involontario principio di forma e composizione che spinge il corpo di chi filma a intervenire sulla spinta del reale che lo muove nella scelta dell’inquadratura, tentando di riportare il corpo ed il mezzo al controllo di se stessi. L’occhio di chi guarda sembra subire un raffreddamento, un distanziamento. Il mondo è ridotto ad un frame che ne amplifica le qualità estetico-formali, deprivandolo, per un momento, di quelle empatiche, nel paradosso che in quella ricerca di forma e d’equilibrio dell’immagine chi filma vorrebbe proprio raccontare quell’empatia che lui stesso è stato incapace di provare nell’atto di riprendere.
6.
C’è una violenza illuminista nel tentativo di ridurre la realtà ad un’inquadratura controllabile, nel tentativo di impossessarsene e renderla riproducibile, all’infinito, sottraendola così al tempo dell’istante e donandole una cosmesi d’eternità attraverso il filtro dell’immagine binaria. L’atto di filmare è allora una forma di afferramento rimemorativo che ci illude di controllare la freccia del tempo, confermando la natura nostalgico-simbolica della memoria e il suo bisogno di esteriorizzarsi. Tuttavia, l’atto di filmare diventa un riflesso involontario della nostra contemporaneità, e sfugge sempre di più all’analisi cosciente del soggetto che lo compie, trasformando le immagini registrate in sacche di memoria involontaria.
L’impossessarsi della realtà ha un accento profondamente politico in Iran, e il digitalizzare il mondo circostante diventa l’unico modo per comunicare all’esterno del paese ciò che sta accadendo al suo interno. In questo contesto di repressione violenta le nuove tecnologie a basso costo sembrano restituire all’immagine il valore testimoniale di una volta, l’attestazione di un accadimento collettivo, come nelle foto di famiglia. Ma nemmeno in questo caso le immagini si limitano a riprodurre. Al contrario, in un contesto nel quale nessuna immagine ufficiale sembra uscire dal paese, le poche in grado di farlo possono, come tali, generare un principio di realtà autonomo, e cioè affermarsi come immagini-mondo, sacche di realtà autonome rispetto al referente cui si vorrebbero ancorare.
7.
L’immagine rivendica la presenza della cosa, non si limita a imitarla. Rivendica la presenza della morte, non la rappresenta, nonostante la morte sia presente sempre e solo metaforicamente come segno di sé, interno malfunzionamento, consumo, invecchiamento, necessario stornamento. Il fondo dell’immagine è la morte come suo interno rovesciamento, processo d’oggettivazione sospeso nello sguardo in camera come in quello di Narciso nello specchio d’acqua. Viviamo la società della morte urlata come negativo dello sguardo, oltre il tabù di Icaro, oltre Narciso che muore ucciso dal nichilismo di essere visto senza potersi vedere, se non riflesso.
La morte apre alla presenza-assenza, principio di funzionamento dell’immagine come tale, nel momento della visione, come in quello del ricordo. La camera è uno specchio digitale, proiettore oltre che registratore capace di fermare l’immagine quando l’originale viene a mancare, mostrandone così l’arroganza, sempre eccedente nel rivaleggiare con l’originale, sempre insoddisfatta dallo statuto derivato di copia. L’immagine mostra spudoratamente la propria natura nel digitale, luogo della propria riproducibilità infinita e della propria genesi come referente autonomo, oltre che come segno di esso.
8.
Penso al concetto di parallasse e provo ad applicarlo alla morte di Neda per osservare più da vicino le relazioni tra gli elementi che la compongono. Ho l’impressione che tra la morte singolare e incarnata di Neda e il suo divenire im-mediatamente pubblica e riproducibile sia accaduto qualcosa di più che un semplice passaggio di stato. Al contrario, sembra che gli elementi coinvolti non si allineino più lungo una retta ma cadano leggermente spostati rispetto al loro punto di partenza, rompendo la biunivocità della relazione e aggiungendo un fattore di variazione derivato, o scarto.
La parallasse già in atto tra il soggetto e il momento della sua morte, spostata minimamente ma infinitamente rispetto a chi la vive in modo tale da non essere mai completamente esperibile, è analogamente spostata dall’asse tra lo sguardo della morte di Neda e quello della camera e di chi filma, come se agisse un fattore di distorsione. Nel passaggio tra morte singolare e morte riproducibile c’è il passaggio tra un infinito singolare, incarnato e potenziale, nel senso di mai attuale dal punto di vista di chi lo vive, a un infinito attuale ,dal punto di vista di chi lo filma e lo guarda. Nella conquista della ripetizione l’infinito si esteriorizza e disincarna.
Il centro fittizio di queste relazioni è la camera, nella quale convergono gli occhi dei personaggi coinvolti, nella quale avviene la staffetta della morte con la vita e, in microscala, la visione della distruzione totale nella sincrona immortalità. Due infiniti si scontrano a duello, e lo strumento veicola la distorsione, l’angolo di parallasse tra la morte singolare e quella riproducibile. L’occhio di Neda che vive la morte e quello filmato in cosa differiscono, se non nel trapasso di un infinito nell’altro? L’occhio di Neda in camera diventa immortale e affronta l’occhio di chi la guarda, singolarità assoluta che si incarna nella gestualità primitiva a fuoco sul viso di Neda, rivendicando l’attimo della sintonizzazione come singolarità derivata, da subito intrappolata nel meccanismo di un infinito a posteriori.
L’occhio della mano che filma cerca il punctum in divenire dell’immagine di fronte, e non più intorno, come nel mondo delle immagini al di fuori dell’inquadratura, e si estranea, guadagnando in immortalità anempatica ciò che perde in singolarità, e trasformando la singolarità incarnata che ha di fronte in infinito riproducibile. La morte in camera paga il prezzo della carne, per diventare tessuto e icona.”
Il testo è un frammento riadattato di “Iran contro Iran”. Elezioni e rivolta a Teheran, Mitra Azar 2011, pp. 135, (http://www.mimesisedizioni.it/archives/001787.html).