“Mai come ora la performance é stata così importante, grazie all’impegno delle istituzioni artistiche nella sperimentazione di nuovi modi attraverso cui presentare materiale storico dell’arte dal vivo, allineandosi ai metodi interdisciplinari seguiti dagli artisti contemporanei” (RoseLee Goldberg) [1].

La mostra Move: Choreographing You all’Hayward Gallery di Londra mi ha lasciato semplicemente senza fiato e al colmo dell’eccitazione. Organizzata da Stephanie Rosenthal, curatore capo all’Hayward, è in sostanza una mostra partecipativa che invita “a non essere più meri spettatori passivi, rendendovi anzi compartecipi – o addirittura dei ballerini – nelle ambientazioni e nelle sculture create da artisti visivi e coreografi di livello internazionale” [2].

Move esplora il legame che intercorre fra la danza e le arti visive dagli anni Sessanta a oggi. Lo spettacolo presenta sia opere storiche realizzate dagli artisti di maggior rilievo quali William Forsythe, Lygia Clark, Trisha Brown e Simone Forti, che nuove commissioni affidate ai principali professionisti contemporanei come ad esempio La Ribot e Isaac Julien.

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Entrando, il primo pezzo in cui ci si imbatte é il Green Light Corridor di Bruce Nauman (1971), uno stretto corridoio immerso in una luce verde fluorescente. É talmente angusto che non é possibile percorrerlo camminando dritti; l’unico modo é farlo lateralmente, simulando i movimenti del granchio [3].

Questo é, in un certo senso, l’ingresso della mostra: dal momento in cui si entra, la Rosenthal esorta i visitatori a pensare in che modo poter gestire lo spazio e come sentire il loro corpo e i movimenti in questa spazialità. La Rosenthal ha curato una mostra che “realizza coreografie” per i visitatori, facendo leva sui loro movimenti corporali. Curando una serie di opere che, ai fini del loro compimento, richiedono l’interazione fisica dello spettatore, Move fa emergere la consapevolezza del proprio corpo all’interno dello spazio galleristico. In questo spettacolo le opere d’arte non sono disposte su un piedistallo e il visitatore non dovrà quindi contemplarle a una distanza di sicurezza. Per contro, si tratta di opere partecipative, interattive, aperte o dinamicamente relazionali in diversi modi e il visitatore dovrà interpretarle o foggiarle per poter dare vita allo spettacolo.

L’esibizione prosegue più o meno allo stesso modo in cui é iniziata. The House is the Body: Penetration, Ovulation, Germination, Expulsion (1968), la scultura realizzata da Lygia Clark, invita un visitatore alla volta a sperimentare una sorta di nascita all’interno di uno spazio costituito da quattro stanze che io definirei: scura, tenue e mutevole; sracolma di palloncini bianchi; piena di bolle d’aria trasparenti; soffice, lanuginosa e variopinta.

La brillante opera di Robert Morris, Bodyspacemotioning (inaugurata alla Tate Gallery nel 1971) invita invece gli spettatori a salire su un’altalena a bilico fatta di legno compensato e sul tronco che la sostiene, affinché possano prendere coscienza del loro peso corporeo e di come questo possa essere ridistribuito per mantenere l’equilibrio su quelle superfici, da soli o con altri.

La superba creazione di William Forsythe, The Fact of Matter (2009) é ciò che lo stesso l’artista definisce “un oggetto coreografico” che “più che da osservare, è da usare”[4]. The Fact of Matter é una “foresta” di cerchi ginnici appesi al soffitto a diverse altezze, con cui i visitatori possono interagire. Cercando di coordinare i propri movimenti, rimanendo aggrappato a questi cerchi, il visitatore ha modo di apprezzare diversamente o di riconsiderare la sua forza, il peso e la coordinazione del corpo, molto più di quanto non faccia un ballerino con la pratica.

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Ma vi sono altre opere che campeggiano nell’esibizione: Adaptation: Test Room Containing Multiple Stimuli Known to Elicit Curiosity and Manipulatory Responses (1999) di Mike Kelley, é uno spazio dedicato a una serie di oggetti scultorei provenienti da esperimenti condotti nel 1960 sulla natura affettiva dei primati, con cui gli spettatori sono esortati a interagire; in Hangers, di Simone Forti, tre ballerini (o spettatori) rimangono appesi nello spazio tramite delle corde, muovendosi solo per mezzo dell’impatto creato dai passanti; le sculture portatili realizzate da Franz West, chiamate Adaptives o Fitting Pieces (degli anni ’70), con le quali gli spettatori sono invitati a interagire, sperimentando pose singolari e spesso grotteche.

Il Rooftop Routine di Christian Jankowski (2007, ispirato al Roof Piece di Trisha Brown del 1973) coinvolge 25 volontari di hula-hoop ripresi nella Chinatown di New York, esortando così lo spettatore a fare l’hula-hoop guardando simultaneamente il video (si forniscono le hula-hoop con relative istruzioni); la grandiosa installazione filmica a multischermo di Isaac Julien, Ten Thosand Waves (2010) – girata in Cina, é volta a “esplorare il movimento delle persone fra paesi e continenti e a riflettere sui viaggi incompiuti”[5] offrendo dunque una consapevolezza molto diversa e più complessa (anche se meno legata alla danza) del movimento, rispetto alla maggior parte delle altre operein mostra.

L’esibizione fornisce inoltre un archivio straordinariamente ricco di opere realizzate dal 1959 fino ai giorni nostri. L’archivio, una presenza forte nella mostra in virtù di un design funzionale e attraente di marchio unit9, permette ai visitatori di cercare le opere per artista, decennio o argomento. L’obiettivo che si prefigge quindi il progetto consiste – spiega LA Rosenthal – nell’esortare gli spettatori a “contemplare l’arte non solo attraverso gli occhi ma con tutto il corpo” e a “penetrare le opere con il corpo e con la mente assieme”[6]

L’esibizione riesce perfettamente nel suo scopo: nelle due ore e mezza trascorse all’interno ho potuto constatare come ogni genere di persona interagisse fisicamente con le opere d’arte (alcune delle quali particolarmente impegnative), dai più piccoli ai più grandi, dai ballerini alle persone che, almeno all’inizio, si sentivano naturalmente a disagio nel “calcare la scena”. Tuttavia non é del tutto consentito ai visitatori di “mettere in movimento” lo spettacolo: nello spazio espositivo erano sempre presenti 5 artisti a interpretare diverse pièce. Unitamente alla rappresentazione era previsto un ricco programma di performance dal vivo, repliche/re-interpretazioni a cura di artisti e coreografi di livello internazionale come Thomas Lehmen, Tino Sehgal, La Ribot, Rosemary Butcher, Siobhan Davies e molti altri.

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“Pfff! Move: Choreographing You? É come essere in un parco giochi” – ha commentato un amico (storico dell’arte). “Come molti dei recenti spettacoli alla Hayward é pieno di trucchi, tutto é interattivo e partecipativo”. “Che c’é di sbagliato nell’interattività?”- ho contestato – “Che c’é di male nel far partecipare i visitatori a uno spettacolo che verte sull’arte e sulla danza?”

É vero che molti dei recenti spettacoli tenutisi alla Hayward ( tra cui in particolare Psycho Buildings nel 2008) si sono caratterizzati per “l’interattività”, invitando gli spettatori a interagire giocosamente con le opere esposte. Situata presso il Southbank Centre, uno dei maggiori centri nevralgici culturali di Londra (e dell’Inghilterra), l’Hayward Gallery potrebbe anche essere sotto pressione per “democratizzare” il suo programma allestendo rappresentazioni che possono attirare una gamma più vasta di visitatori, richiamando famiglie e turisti, ma anche un pubblico culturalmente più attento.

Se é così allora, chapeau alla Hayward, che ha saputo trovare un delicato equilibrio tra l’aspetto sofisticato, contestuale e stimolante e una visione più ludica, accessibile e alla portata di tutti. Move costituisce uno spettacolo incredibilmente eterogeneo in grado di soddisfare i gusti più diversi. L’esaustivo archivio e le opere complesse come l’installazione filmica di Julien e la creazione elusiva Walk the Chair di La Ribot (2010) convivono armoniosamente con strutture “ricreative” come le installazioni/gli ambienti realizzati da Kelley e Forsythe.

Ne deriva un allestimento ingegnoso che offre agli spettatori una varietà di contesti volti a stimolare una giocosità esuberante, pubblica stupidità e divertimento allo stato puro, ma presentando al contempo delle opere più profonde, concettualmente complesse, intime, quasi introspettive nella loro essenza. Ma cosa ancor più importante é che tutte quelle opere consentono allo spettatore di confrontarsi con la propria fisicità, testando le capacità e i limiti del proprio corpo, l’ambiente e i movimenti. Move esaudisce così il desiderio della Rosenthal: permettere a noi spettatori di sentire le opere attraverso i nostri corpi – senza limitarsi alle sole facoltà visive – in un contesto spesso collaborativo e condiviso e concederci al contempo occasioni per una riflessione più intima e raccolta.

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“No, non é stato un granché di spettacolo”, ha riferito un altra amica (storica dell’arte). “C’era poca sostanza. Naturalmente sono tornata due volte”. Mi sono messa a ridere e le ho chiesto come mai ci fosse ritornata. Forse le era piaciuto? “Beh, non penso che si dovrebbe provare un divertimento così sfrenato a uno spettacolo di arti visive!”, é stata la sua risposta. Una risposta però illuminante che mi ha portato a una successiva riflessione: può forse essere questa la ragione per cui gli spettacoli interattivi e di new media art vengono spesso snobbati allo stesso modo da critici di arte visiva e storici dell’arte? Ci si chiede, a questo punto, se queste mostre siano percepite come “campi da gioco” virtuali dove si debba necessariamente offrire un eccessivo divertimento affinché le opere vengano prese sul serio?


Note:

[1] Goldberg, RoseLee, 2010, PERFORMA Year End Campaign, http://performa-arts.org/blog/get-involved/performa-year-end-campaign/.

[2] Hayward Gallery (http://move.southbankcentre.co.uk/), 2010, Move: Choreographing You exhibition leaflet.

[3] Davies, Siobhan, 2010, Move: Choreographing You Audiotour, http://move.southbankcentre.co.uk/

[4]Forsythe, William, 2009, The Fact of Matter, http://www.williamforsythe.de/installations.html?&no_cache=1&detail=1&uid=29

[5] Julien, Isaac, 2010, TEN THOUSAND WAVES, http://www.isaacjulien.com/installations/tenthousandwaves

[6] Rosenthal, Stephanie, 2010, Move: Choreographing You Audiotour, http://move.southbankcentre.co.uk/