Tra le figure più interessanti del panorama artistico contemporaneo, Herman Kolgen vive a Montréal (Québec, Canada). Scultore audiocinetico, lavora a partire dalla relazione tra il suono e l’immagine creando, dalla loro convergenza, opere presentate sottoforma di installazioni, performance, sculture sonore, opere video e cinematografiche ricordiamo qui a titolo di esempio Silent room (2005), film, installazione e live performance realizzato in collaborazione con la videoartista e fotografa Dominique [t] Skoltz con la quale ha fondato nel 1996 la cellula pluridisciplinare Skoltz_Kolgen (di cui Digimag si è occupato più volte in passato).
Dal 2008 Herman Kolgen ha inaugurato un percorso individuale d’interrogazione radicale dei sistemi audiovisivi. Il suo lavoro proteiforme è caratterizzato da un approccio che potremmo definire “radiografico” alla materia sonora e visuale, in cui le dimensioni dell’invisibile e dell’inudibile prendono forma manifestandosi alla percezione dello spettatore. Attratto dalla dimensione organica, Herman Kolgen è ispirato dalla tensione interna che abita la (tras)formazione della materia; questo processo lo porta a comporre opere al cui centro è posta la nozione di Tempo.
Combinata e associata al digitale, attraverso un lavoro di estrema sensibilità, la dimensione organica è incanalata verso forme ibride di presenza. I suoi interventi integrano, inoltre, un lavoro radicale di spazializzazione sonora, in cui lo spazio fisico della sala, il suo volume, si fa geometria della pulsazione. Le sue creazioni, ricordiamo in particolare Inject (2009-2010), il recente Dust (2010) e le instalazioni Stochastic Process (2010) e Water Musik (2010), sono presentate in gallerie e nei principali festival d’arte elettronica in Europa, Americhe e Asia.
Enrico Pitozzi: Il tuo lavoro è un interessante esempio d’integrazione tra l’immagine e il suono. Potresti riprendere guardando al tuo percorso le modalità d’integrazione tra queste due dimensioni?
Herman Kolgen: Quella che sollevi è una preoccupazione che esiste da molto tempo. Fin da giovane, all’età di 12 anni, suonavo la batteria e, al contempo, esponevo i miei primi lavori visivi nella città in cui sono cresciuto. È solo più tardi, verso i 18 anni, che ho cominciato a pormi delle domande rispetto a quale strada prendere realmente, sviluppando fino in fondo uno dei due medium. Tuttavia non sono mai riuscito, per lungo tempo, a prendere una strada piuttosto che l’altra, a dedicarmi interamente a un aspetto piuttosto che all’altro.
Ho sempre sentito, probabilmente, che le due dimensioni avrebbero potuto svilupparsi insieme, trovare delle traiettorie comuni tanto da organizzare un linguaggio particolare fatto di intersezioni, rimandi, accavallamenti e influenze operative. A questo aspetto si è poi affiancato uno sviluppo tecnico che, nel tempo, ha portato i computer ad essere sempre più potenti, tanto da offrire la possibilità di operare contemporaneamente sui due linguaggi…
Enrico Pitozzi: come se a una necessità d’ordine compositivo lavorare simultaneamente l’aspetto video e la dimensione sonora rispondesse uno sviluppo tecnologico in grado di offrire strumenti che vadano nella direzione che si intende tracciare. Questo aspetto è legato al lavoro sui materiali e alla loro qualità d’impatto sulla percezione. Potresti tratteggiare qualche caratteristica del tuo linguaggio audiovisivo?
Herman Kolgen: Concepisco il suono e l’immagine in modo simultaneo: ottenere una sola materia omogenea in grado di essere assorbita a livello emotivo dal pubblico, mettendo così in secondo piano la tecnologia utilizzata. Suono e immagine, in questo senso, sono per me materiali dinamici, palpabili, che hanno una densità, una porosità, un’elasticità temporale. La loro caratteristica comune, in questo senso, è che sono due materiali che si sviluppano e si modificano nello stesso spazio-tempo.
Ciò è essenziale per poter sviluppare un linguaggio audiovisivo che non sia semplicemente la somma di un suono e di un’immagine, ma che sia il risultato di una serie di concatenamenti e risonanze interne ai materiali. Questa traiettoria temporale li lega intimamente, a tal punto da attribuirgli una forza d’impatto sullo spettatore così potente da penetrare dentro il suo sistema percettivo. Nonostante abitino il corpo passando per canali diversi classicamente attraverso la vista e l’udito è nell’apparato emotivo e sensoriale dello spettatore che il suono e l’immagine si fondono e si scompongono, come in un prisma, per toccare la sua percezione.
Enrico Pitozzi: Sulla scena elettronica contemporanea è possibile delineare due tendenze in atto: da un lato quella che definirei una linea organica interna in cui l’articolazione del materiale visivo e sonoro tende verso una forma di narrazione; dall’altro, invece, una linea organica esterna in cui il funzionamento dei materiali tende verso l’astrazione. Le due prospettive tracciate non sono necessariamente in contrasto tra loro ma, piuttosto, tendono a concatenarsi. Puoi ripercorrere, attraverso il tuo lavoro, questa tensione che lega astrazione e narrazione nel trattamento dei materiali?
Herman Kolgen: Nel mio lavoro compositivo l’astrazione e la narrazione coabitano senza frizioni; si sviluppano a partire da elementi comuni per prendere poi strade e percorsi differenti secondo le traiettorie che intendo imprimere a ogni lavoro.
In Stochastic Process presentato recentemente a Ginevra, ho lavorato nella direzione di un’astrazione pura, sia a livello del trattamento dei materiali visivi che sonori. In uno spazio nero e chiuso, una sorgente sonora tiene in sospensione delle polveri luminose proiettate. La tensione dinamica che il suono produce ha un effetto diretto sulla gravitazione delle polveri microscopiche. La geografia di queste particelle è dunque influenzata dalle modulazioni aleatorie che producono rotture improvvise del flusso o, all’opposto, favoriscono la formazione di sistemi estremamente organizzati chiamati, appunto, Stochastic Process.
Siamo di fronte a un paesaggio astratto. Tuttavia, se facciamo attenzione allo sviluppo dell’installazione, c’è una traiettoria narrativa profonda che, in filigrana, attraversa i materiali stabilendo una tensione a livello sensoriale con lo spettatore. In questo caso è la narrazione stessa ad essere astratta, nel senso che non ha una forma identificabile, ma questo non le impedisce di manifestarsi in altro modo, tanto da poter essere assorbita in maniera inconscia dal pubblico.
Enrico Pitozzi: Si tratta, dunque, di un processo che si sviluppa in modo subliminale e che passa attraverso la trasformazione della materia
Herman Kolgen: La narrazione è una traiettoria più o meno determinata da chi compone la performance; in questo senso potrebbe essere davvero considerata come una dimensione subliminale: a livello della composizione, il suo grado d’impatto con lo spettatore può essere progettato. I materiali sono così lavorati al fine sviluppare questo potenziale intrinseco.
Detto questo, nella maggior parte dei miei lavori, c’è una parte d’astrazione e una parte di narrazione. La loro relazione corrisponde un po’ al funzionamento del nostro pensiero strutturato che è costantemente spinto e sostenuto da pensieri irragionevoli o anche da impulsi astratti che sollecitano la mente. Tutto questo coabita senza creare particolari scompensi dando vita ad un ecosistema in equilibrio. Anche se qualcosa, a prima vista, sembra astratto come un impulso che non si riesce a decifrare nell’immediato questo non significa che non ci sia, al suo interno, un senso nascosto, un tracciato narrativo da poter sviluppare, far emergere o, viceversa, decidere volontariamente di lasciare nascosto. Nella composizione è come se qualcosa passasse attraverso di me, per poi trovare una sua autonomia di senso al di là delle direzioni che il mio intervento può imprimere al lavoro.
Si tratta, in altri termini, di conservare uno spazio per qualcosa che possa giungere inatteso. L’inatteso è qualcosa che può non avere un senso immediato, ma questa tensione inqualificabile ha una pulsazione interna che la fa vibrare: è possibile riconoscere al fondo di questa pulsazione un’energia particolare che deve essere sviluppata e che, indipendentemente, può prendere una forma visiva o sonora o, ancora, svilupparsi in modo inedito trovando così punti di convergenza tra le due dimensioni, là dove un impulso sonoro passa nel trattamento e nel controllo dell’immagine o viceversa.
Mi interessa plasmare universi non reali, organizzandoli però in una proposizione credibile. È qui, in questo punto, che la relazione tra gli elementi visivi e sonori si fa tensione palpabile, pressione solforosa.
Enrico Pitozzi: In linea con questo principio d’intervento sulla materia, Inject permette allo spettatore di percepire una serie di cambiamenti e trasformazioni neurosensoriali del corpo del performer dalle fibre della pelle fino al suo sistema nervoso in reazione alla cisterna d’acqua in cui è contenuto. Puoi soffermarti, in sintesi, sul processo di composizione di questo lavoro?
Herman Kolgen: Un corpo umano è immerso in una cisterna. Nel corso di 45 minuti, la pressione del liquido esercitata su di esso moltiplica le trasformazioni neurosensoriali. Dalla sua fibra epidermica fino al suo sistema nervoso, il corpo reagisce alle variazioni di viscosità della camera liquida. La sua corteccia, a causa della mancanza di ossigeno, perde gradualmente ogni cognizione di realtà. Il corpo di Yso, il performer, diventa così un corpo-cavia: un corpo materia i cui stati psicofisici sono oggetto di quadri cinetici.
Il materiale visivo per questo lavoro è stato composto in un’unica seduta di registrazione della durata di circa sei giorni. Durante questo periodo il corpo di Yso è immerso in una cisterna piena d’acqua, per oltre 8 ore al giorno, oscillando tra l’assenza di gravità e la mancanza di ossigeno. Con l’aiuto di varie tecniche di registrazione video digitali e differenti sistemi fotografici, ho assemblato diverse sequenze catturate in altrettanti momenti temporali, ottenendo così una serie di immagini che ho poi riunito in un corpus flessibile e modulare.
Enrico Pitozzi: Vorrei riprendere qui un aspetto che è rimasto tra le pieghe della nostra conversazione: il tuo lavoro ruota attorno alla nozione di organicità dei materiali. Inject, che hai appena descritto, va in questa direzione, ma penso anche a Water Musik e al recente Dust. Potresti precisare questo principio operativo?
Herman Kolgen: Mi interessa lavorare sulla materia vivente. Con questo non intendo solo fare riferimento a ciò che vive in senso proprio, ma anche a ciò che è in mutazione, in cambiamento, in senso evolutivo.
Water musik che verrà presentata in Corea è un’installazione sonora che potremmo inscrivere nella cornice della bio art composta da sei diversi dispositivi audio interattivi che funzionano in senso generativo. L’installazione è composta da un certo numero di lumache immerse in un bacino d’acqua. Esse sono equipaggiate da un sensore GPS che ne traccia il movimento, al fine di captare e analizzare il loro comportamento in colonia. I risultati di questi comportamenti sono poi trasmessi a un sistema di composizione musicale che gestisce il trattamento dati in tempo reale.
L’acqua in cui sono immerse agisce così a titolo di materiale mobile,il cui movimento permette di creare delle interazioni tra i diversi elementi dell’opera. Lo spostamento nello spazio degli elementi viventi come le lumache o le alghe, per esempio si ripercuote sul movimento dell’acqua. A partire da questo processo è quindi possibile elaborare una forma di interpretazione audio di questi spostamenti, dando così origine a un materiale che può essere captato, elaborato e ritrasmesso.
Questo dispositivo fa parte di una serie di otto diverse installazioni, tutte pensate in relazione a organismi viventi. In ogni lavoro mi interessa che la materia prima con la quale mi confronto sia essa stessa autonoma, autosufficiente. Si tratta quindi di una materia che ha una sua impulsività intrinseca con la quale devo trovare un’intesa: posso servirmi di quest’identità energetica biforcandola verso direzioni creative che possono essere opposte o in relazione alla sua qualità primaria.
Questa attrazione verso l’organicità non è però premeditata; proviene, invece, in modo del tutto naturale, dalla sensibilità con la quale percepisco la vita. Ciò che mi interessa al fondo di questo discorso è la dimensione evolutiva delle cose, la loro capacità di mantenersi in tensione, di modificarsi costantemente.
Un aspetto mi affascina particolarmente: lavorare con una forma di ingrandimento delle cose mi permette di capire quali sono i passaggi che, a partire da un insieme di elementi ben organizzato e strutturato, portano alla definizione di sistemi molto più particolareggiati e unici.
In Dust per esempio, cerco di dare forma a questo processo. Mi sono talmente avvicinato alla materia che un ammasso di polvere è diventato per me un sistema molto complesso, capace di rivelare altri territori di polvere articolati come universi. In questo processo si sviluppa la nozione particolare di tempo con la quale opero. La materia diventa così simile a un elastico “organico” che si tende e si contrae. In tensione, rende visibili dettagli che, a prima vista, appaiono inesistenti.
In questo momento, per fornire un esempio, lavoro con il vento. Per me il vento è una materia, anche se molto dinamica e volatile, che eccede la mia comprensione e le mie possibili previsioni, dato che basta aggiungere un ostacolo al dispositivo che si è composto un cilindro, una parete perforata e tutta la turbolenza interna ne risente. Cerco quindi di sfruttare questa forza eolica come materiale artistico.
Enrico Pitozzi: Con questo passaggio si ha così accesso a un altro aspetto centrale del tuo lavoro: il cambiamento di stato della materia, là dove la relazione tra gli elementi si fa megnetismo, tensione. Questo processo riguarda la possibilità di dare forma visibile e udibile a intensità che non sono direttamente percepibili ai sensi. Potresti sviluppare questo argomento attraverso la tua composizione audiovisiva?
Herman Kolgen: Mi interessa rendere percepibili gli elementi che, in qualche modo, sfuggono alla nostra attenzione. Mi affascina dare una forma a ciò che l’occhio non riesce a captare. Penso spesso alle cose: se un oggetto è un volume solido, lo è a causa di tutte le tensioni che si annullano e lo mantengono in uno stato di riposo apparente. Se si altera quest’equilibrio, questi legami si sfaldano e l’oggetto diventa semplicemente una materia energetica e volatile.
Un’amica, che lavora la fusione del vetro ad alte temperature, è quotidianamente in contatto con questo cambiamento di stato della materia causato dall’attività delle molecole del vetro sottoposte al calore. Dunque, intervenendo con un elemento esterno su un oggetto, possiamo drasticamente cambiarne l’assetto fisico. Questo mi riporta, inevitabilmente, a riflettere sulle emozioni e le percezioni umane: basta semplicemente inserire un elemento perturbante nella vita di qualcuno e tutto il suo equilibrio può essere minacciato. Inject è il caso estremo di questo passaggio.
In assenza di ossigeno elemento la cui presenza è data sempre per acquisita l’equilibrio psicofisico del performer immerso nell’acqua è drasticamente perturbato, anche se, a poco a poco, il suo sistema emotivo e il suo assetto fisico ritrovano un nuovo equilibrio a partire dalle condizioni cui il corpo è esposto. Egli è immerso nell’acqua; lentamente, questo elemento diventa la nuova condizione attraverso la quale rinnovare l’equilibrio e ciò ha una ripercussione diretta sul suo stato fisico ed emotivo. Si tratta di trovare una nuova appartenenza. Curiosamente, durante le riprese, è quello che si è verificato: dopo 24 ore, Yso non volava più uscire dalla cisterna in cui era immerso.
Tutto il suo corpo, compreso il suo metabolismo, avevano ristabilito un nuovo equilibrio generale, compreso un nuovo ritmo del movimento: più difficile, più lento, ma forse anche più cosciente; la stessa cosa per la sua respirazione. Per quanto riguarda il suo isolamento uditivo l’immersione gli imponeva un sentire tutto interno al corpo, concentrato solo sulle sue funzioni anch’esso trova soluzione in un nuovo assetto. Credo che una tale esperienza, a prima vista traumatica, sia diventata per lui, a poco a poco, meditativa e benefica.
Enrico Pitozzi: Alla trasformazione della materia alla soglia tra visibile e invisibile, udibile e inudibile è dedicato anche il tuo ultimo progetto, Dust. Puoi riprenderne, in sintesi, alcune caratteristiche?
Herman Kolgen: Ispirato alla fotografia di Marcel Duchamp e Man Ray Èlevage de poussière (1920) Dust propone l’esplorazione interna di una materia particolare: la polvere. Alla soglia dell’impercettibile, alcuni pigmenti sono in sospensione introno a un campo magnetico. Essi si organizzano in modo aleatorio in reti fibrose per divenire poi delle composizioni di una complessità ipnotica: vere e proprie ragnatele, diagrammi di polvere. Le particelle sonore, accoppiate agli aggregati luminosi dell’immagine, sono qui trattate secondo una scala dove si annullano tutti i riferimenti e ogni sistema di riconoscibilità è messo fuori gioco. Siamo dentro la materia, in modo inequivocabile.
Dust è una cerniera tra l’invisibile e il visibile, là dove la polvere diventa una vertigine e produce, sulla superficie del video, un’accumulazione visibile come ai raggi X: oltrepassata la soglia della visibilità, ci si immerge dentro la polvere, nelle sue fibre, nella sua struttura profonda.
Enrico Pitozzi: Dunque siamo di fronte a una radiografia della materia come principio operativo del tuo lavoro. Dust, in questo senso, mi appare come una visualizzazione della struttura che compone il reale, una maglia restituita sottoforma d’impulsi sonori e luminosi. Questo mette in gioco un lavoro sulla dimensione dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo che è ben presente nel tuo orizzonte compositivo. Potresti soffermati su questo aspetto?
Herman Kolgen: Grazie ai nuovi strumenti digitali possiamo entrare dentro la materia. È evidente che in precedenza si poteva, fino a un certo limite, modificare la scala temporale per esempio di un’immagine rallentandola o accelerandola attraverso la manipolazione video; tuttavia questa operazione si limitava alla semplice moltiplicazione di frames: nessuna vera informazione supplementare era svelata. Ora il margine d’intervento a disposizione è totalmente diverso e si sviluppa a livelli altrettanto diversi. Abbiamo accesso, per esempio, a telecamere ad alta velocità che hanno la capacità di captare delle informazioni-immagini impossibili da percepire ad occhio nudo.
Queste telecamere super veloci sono state concepite inizialmente per risolvere problemi legati alla produzione industriale, mentre ora sono diffusamente accessibili a tutti; il loro impiego può essere quindi sviluppato anche in senso artistico. L’alta potenza di ricezione delle informazioni fino a 2000 fts ci permette di captare fino a cinquanta volte di più rispetto a ciò che possiamo normalmente percepire con i nostri occhi. Tutte queste informazioni di carattere visivo ci mostrano come, oltre la nostra percezione, si rivelano qualità della materia alle quali non abbiamo accesso.
Enrico Pitozzi: Questo passaggio mette in gioco, come per altro hai accennato poco sopra, la nozione di tempo. La formula Dare a vedere il tempo può essere considerata la sintesi del tuo lavoro audiovisivo. Potresti soffermati, in chiusura, su questo aspetto?
Herman Kolgen: La nozione di tempo quella che comunemente definiamo la quarta dimensione è diventata, in ragione di quello che prima sottolineavo, una materia malleabile alla stregua del suono o dell’immagine. Tutto questo ha a che vedere con l’accesso a un’altra scala temporale; qui siamo molto vicini alla teoria di Einstein sulla relatività del tempo.
Quando accediamo allo spazio-tempo invisibile interno alla materia, tutta la nostra percezione si modifica, cerca un nuovo posizionamento. Ciò significa che possiamo lavorare con il supporto delle tecnologie a una scala temporale infinitamente piccola, quasi fino al punto in cui il tempo sembra arrestarsi (freeze system). Quando tutto sembra immobile e ci si avvicina alla più piccola particella della materia, ci si rende conto che anche questa, nonostante tutto, è in movimento continuo e alla ricerca di una relazione dinamica con l’ambiente.
A partire da qui, possiamo dunque progettare sistemi virtuali autonomi, in movimento perpetuo, secondo regole dinamiche precise o aleatorie. Per esempio, oltre a queste regole intrinseche, se si interviene diminuendo il fattore comportamentale fino al grado 0, il sistema smetterà d’interagire. Sarà come in levitazione, ma la macchina fotografica virtuale il nostro occhio potrà comunque navigare nel freeze system, nella sospensione del tempo.
Accanto a questa, anche la nozione di coabitazione tra due diverse dimensioni spazio-temporali è una pista estremamente interessante e gravida di conseguenze creative. È qui, attraverso questi aspetti, che il tempo diventa materia palpabile, malleabile e qualitativamente organica.
Mi ricordo all’inizio dei miei primi lavori audio digitali alla fine degli anni Ottanta di aver esplorato l’estensione di un suono dilatandolo fino a produrre una serie di textures sonore simili a una superficie rugosa molto complessa, producendo così una qualità acustica completamente diversa, che non aveva più nessuna relazione con la matrice di riferimento. Tuttavia, questa qualità particolare era, nonostante tutto, già contenuta nella matrice, ma lo era a livello impercettibile.
Dopo una decina d’anni quando i sistemi digitali l’hanno permesso la stessa nozione di elasticità temporale l’ho applicata in modo molto più preciso e pertinente anche al mio lavoro visivo.
Dunque, quello che m’interessa di questo aspetto, è poter intervenire in modo da creare una relazione organica tra il materiale sonoro e visivo, anche se questa, in sé, non è la finalità del mio lavoro o meglio, lo è solo in quanto risponde alla mia principale preoccupazione: indagare le qualità della percezione sensoriale.
Sono dunque tre i livelli che, nella mia visione compositiva, sono indissociabili: l’ingrandimento ottica, il micro-suono e il tempo in scala microscopica. Mi interessa che questi tre elementi siano in costante relazione dinamica tra loro: come se io fossi un cursore in cui il posizionamento ottico, quello uditivo e temporale siano in movimento ma sempre dinamicamente interrelati.