Andy C. Deck, net artist e pioniere dell’arte concettuale in Rete, attivo da oltre un decennio, non è personaggio che abbia bisogno di molte presentazioni. Residente a New York, Andy Deck si laurea in Letteratura Inglese all’Università del Michigan, studia a Parigi presso l'”École Nationale Supérieure des Arts Décoratifs” e nel 1993 ottiene il MFA in Computer Art presso la “School of Visual Art” di New York, all’interno della quale è oggi docente, oltre a insegnare Media Design & Theory al Sarah Lawrence College di NY e alla New York University.

La ricchissima e prolifica attività artistica di Andy Deck si manifesta in tutta la sua esuberanza navigando quelle piattaforme web che fungono ormai da archivio dei suoi lavori: Andyland.net e soprattutto Artcontext.net. Mischiando con sapienza le dominanti tipiche della net art, pensiero critico, processi collaborativi, propensione attivista, utilizzo del codice, detournment estetico, defamiliarizzazione del mezzo, interattività, Andy Deck sviluppa dalla metà degli anni Novanta quelli che lui stesso ha definito “progetti di arte pubblica”. Dove però lo spazio pubblico attivato dall’artista non è quello fisico dei contesti urbani nei quali abitiamo (sui quali Lettrismo, Situazionismo, Arte Pubblica, Teatro di strada e non solo, si concentrarono nel secolo scorso), quanto quello virtuale di Internet.

Rimanendo da sempre fedele all’idea di sviluppare progetti artistici che possano attivare un dialogo tra arte e attivismo politico e sociale, Andy Deck focalizza da anni la sua attenzione sui principali temi di interesse collettivo fortemente medializzati: dal consumismo al pacifismo, dall’ambientalismo alla passività dell’uomo contemporaneo nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa. Mai banale, supportato da una profonda ironia tipicamente Yankee, Andy Deck fa della partecipazione attiva del pubblico, della sua responsabilizzazione dei confronti dell’opera, della riflessione indotta verso temi sociali e culturali emergenti, l’elemento centrale della sua poetica.

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Sono a mio avviso queste le dominanti che rendono terribilmente attuale ed efficace il lavoro di Andy Deck, a differenza di ciò che accade a molti suoi illustri colleghi che si sono un po’ persi, in questi anni, per le mille strade della vita e del mercato. Da progetti per il disegno collaborativo online (come Glyphiti , Collabirynth , Cogs, Cages, Clusters and Knots , Open Studio) a una serie di riflessioni estetico-politiche sui sistemi di decodifica e sulle unità di misura delle immagini digitali (Icontext , Screening Circle , Surge Cycle , Bardcode e il bellissimo Lexicon), dai lavori artistici contro la guerra (AntiWar404 e General Vision su tutti) ai progetti di sensibilizzazione su tematiche ecologiste e ambientali (Aquanode , Ecoscope e l’utilissimo portale Fix News), e a quelli anti-corportations e pubblicità (come Space Invaders e Ad Mission), l’opera di Andy Deck stupisce per varietà e coerenza.

I progetti di Andy Deck sono stati presentati alle principali manifestazioni artistiche internazionali, come Ars Electronica a Linz (1998), Net_Condition allo ZKM di Karlsruhe (1999) o la recente Web Biennal di Istanbul (2005) solo per citare i più importanti. Le opere di Deck sono state rappresentate al New York Short Film and Video Festival (1996), al Mac Classics (1997), al Kentler International Drawing Space di New York (1998), al Prix Ars Electronica di Linz (1998), al Machida City Graphics Arts Museum di Tokyo (1999), e ancora in varie mostre presso il PS1-MoMA di New York, il MACBA di Barcelona e il Walker Art Center di Minneapolis (Art Entertainment Network, 2000).

Nel 2006 alcune opere di Deck sono state ospitate alla HTTP Gallery di Londra, nella personale a lui dedicata dal titolo: Open Vice/Virtue: The Online Art Context. Deck ha anche curato la rassegna on-line Catchy Name: An Idiosyncratic Concept (2000) per Turbolence, e ha ricevuto commissioni da Rhizome, dalla Tate Online nonchè dal Whitney Museum. Nel 2001 è stato tra i fondatori del collettivo di eco-arte Transnational Temps (vincitore del secondo premio al Vida Life del 2001), che è stato poi ospite delle mostre EcoMedia tra il 2008 e il 2009 in Germania, Svizzera e Spagna.

Recentemente ha vinto il secondo premio alla Bienniale di Ibiza (2008) e attualmente i suoi lavori sono in tour mondiale all’interno di una mostra sulla prima gamer art, in mostra per ora in Australia (Garden of Forking Paths, 2009).

Il suo ultimo lavoro, pretesto per questa lunga intervista, si chiama Artistic Licence: con la consueta ironia e intelligenza, l’artista suggerisce una riflessione sulla capacità di diventare artista oggi grazie alla facilità di utilizzo di tools digitali, fornendo una vera e propria licenza plastificata disegnabile tramite una semplice interfaccia web. Dall’archivio online di Licenze di persone comuni, è stato ricavato il consueto calendario per l’anno 2010 (Andy Deck produce calendari partecipativi ormai da moltissimi anni).

Il progetto si colloca apertamente all’interno di un’altra branchia di ricerca dell’artista, quella dei progetti collaborativi di poster e caledari che aveva già portato in passato alla produzione di progetti come Imprimatur e Panel Jct.#2.

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Marco Mancuso: Iniziamo parlando dalla tua ultima opera, un buon pretesto per cercare di individuare un punto di partenza nella tua lunga e prolifica carriera. Vuoi dirci qualcosa di più sul progetto Artistic License? Giusto qualche indiscrezione, quando e come è nata l’idea, qual è il tuo punto di vista in merito al progetto?

Andy Deck: Tanto per cominciare, ho un debole per i giochi di parole. Il titolo Artistic License si riferisce non solo a questa opera bizzarra, un po’ simile a una patente di guida, ma anche alla libertà d’espressione di cui gli artisti a volte si impadroniscono per fini creativi. Questo titolo mi attira perché comunica il concetto di ibridismo nell’opera d’arte: diversi modi per conoscerla e accedervi. L’apertura è in pratica lo spazio online nel quale tutti possono entrare, per dare una rapida occhiata.

Perché Artistic License? Una volta ho letto un avviso in una copisteria che diceva: “Le tessere laminate durano per sempre”. Forse una parte di me ci crede. Quasi vent’anni fa, un amico mi ha spedito un vecchio laminatore cigolante per produrre tessere e dopo tanto tempo l’ ho tirato fuori e ho deciso di usarlo per questo progetto. Ho cominciato a fare le carte d’identità quando ero troppo giovane per bere alcool e in quel periodo ho iniziato a laminare piccole immagini e porzioni di testo con degli involucri di plastica.

Negli anni ’90, quando vivevo a Parigi, sono venuto a sapere che gli artisti lì possedevano tessere artistiche che potevano usare per aver accesso ai musei d’arte; allora io ho fornito i ritagli dei giornali sulle mie opere al Musée d’Art Modern de la Ville de Paris,e sono stato accolto calorosamente.

Non posso garantire che Artistic License funzioni allo stesso modo, ma lo spero. Mi alletta l’idea di fare un po’ di culture jamming sulla crecente mania per la sicurezza identitaria che governa l’accesso ai palazzi e agli spazi privati. Siamo sempre più controllati quando effettuiamo movimenti, per mezzo di dati biometrici o altri codici criptati. È una cosa seria. Una donna della Motorizzazione Civile non mi lascerebbe nemmeno sorridere sulla mia stessa foto!

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Marco Mancuso:Artistic License può essere considerato l’ultimo capitolo di un lungo viaggio nella tua ricerca artistica. Tu sei stato uni dei primi net artist che si è veramente e seriamente concentrato sui possibili rapporti di collaborazione tra le persone attraverso la piattaforma di Internet. Con Artistic License non hai cambiato il tuo approccio al mondo della Rete: come con alcuni altri progetti, hai concepito il lavoro in team come un processo creativo per un nuovo “spazio pubblico” dedicato all’arte. Che genere di riscontro ha ottenuto? Vedi qualche differenza rispetto ai tuoi progetti analighi del passato? Come pensi che Internet e le connessioni in rete siano cambiate negli ultimi 5-10 anni?

Andy Deck:Credo fermamente che quello che faccio sia arte pubblica, ma l’idea di creare uno “spazio” nei media elettronici è una e propria utopia. Usare il termine “spazio pubblico” in questo contesto genera forse più smarrimento che vantaggi. Ciononostante, ho sostenuto iniziative come Creative Commons. Odio vedere come tutto ciò con cui abbiamo a che fare nel web diventi un bene economico. A parte i miliardi di persone che possono a mala pena permettersi l’elettricità e la connessione ad internet. Per Artistic License ho un po’ cambiato il mio approccio.

È la prima volta che invito le persone ad usare i fotoritratti e a giocare con le proprie identità. C’è una specie di fascino intrinseco che questo genere di lavoretti attira in tante persone. Ai primi tempi dell’interattività in Rete. molta gente era interessata a vedere quali immagini si potessero creare, ma ora sento che l’entusiasmo di esplorare e scoprire è calato. Con la nascita dei sistemi di Rete è più difficile che le persone trascorrano il tempo fuori dalle solite attività online come controllare le email ed accedere a Twitter…

Marco Mancuso: A tal proposito, tu che lavori a diretto contatto con le dinamiche umane della rete, che cosa pensi del possibile futuro di Internet? Voglio dire, che cosa pensi dell’entusiasmo dilagante riguardo al Web 2.0, della sua capacità di creare connessioni, della libertà di condivisione e d’informazione contro gli ipotetici rischi di una rete controllata dai media. Qual è il tuo punto di vista in merito e perché non sembri troppo interessato allo sviluppo di opere utilizzando i social network e le tecnologie mobile integrate?

Andy Deck: Se la domanda riguardasse i libri, si potrebbe dire che essi giocano un ruolo importante per diffondere la letteratura. Ma il libro è anti-egemonico? Il libro rende onore alle rivoluzioni del tardo XVIII° secolo? Biasima l’olocausto? Può sembrare che quasi ogni utilizzo del Web a metà degli anni ’90 fosse di carattere progressista per la prevalenza delle società di media broadcasting, ma se arriviamo sino ai giorni nostri esse esercitano il loro potere in tutta la Rete.

Penso che esista ancora la possibilità per i media di intervenire tatticamente, ma l’obiettivo facile da raggiungere è oggi di difficile reperibilità. Per quanto riguarda la tecnologia mobile e i social network ho certamente considerato di intervenire in quei contesti. Ultimamente sto avendo a che fare con una versione di Glyphiti per telefoni cellulari, ad esempio.

Una cosa che mi ha sempre trattenuto è però la complessità nell’indirizzare un pubblico ampio. Oggi si è obbligati a scegliere i prodotti di una compagnia o di un’altra, ed è una vera impresa evitare di diventare di parte, di divenire un’ “operatore” di una particolare piattaforma. Il WWW è nato improvvisamente dall’ingegno di Tim Berners-Lee e non fu tarato, inizialmente, per adattarsi agli obiettivi di marketing dielle varie multinazionali dei media.

I telefonini si sono evoluti con modalità differenti. Allo stesso modo il grado di controllo e di coercizione esistente all’interno dei social network è opprimente. Sono troppo attaccato all’autonomia di sentirmi a mio agio utilizzando sistemi privati come base per il mio lavoro. Sono più un sostenitore dell’open source.

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Marco Mancuso: Al contempo, spostandosi un po’ in un ambito attivista, penso che Internet sarà sempre più importante per sviluppare nuove economie e strutture professionali, diventando così veramente alternativo e potenzialmente pericoloso per le multinazionali e le società. Parlo di alcuni fenomeni come le piattaforme per lo sviluppo di software open source per la collaborazione internazionale o le economie peer to peer e quelle basate sul crowdfunding o ancora i nuovi modelli d’ informazione libera basati sul giornalismo cittadino e il crowdsourcing, ecc…

Internet non è mai stato così attivo, funzionale e maturo e i net artist sembrano ignorarlo o a volte non capirlo. Qualcosa di simile a questo succede quando mia madre si trova di fronte al videoregistratore analogico e mi chiede: “Quale è il tasto giusto per l’avanzamento veloce?”.

Andy Deck: Stanley Aronowitz è stato poco fa in radio a parlare del divario generazionale esistente fra lui e la figlia, convinta che l’attivismo basato su Internet sia più efficace rispetto ai metodi tradizionali. Io stesso ho assistito al fallimento delle proteste di strada contro la guerra in Iraq degli ultimi cinque anni negli Stati Uniti. Marce e proteste non sono state trasmesse dai media, così la gente ha perso l’interesse nel manifestare.

L’ultima protesta a cui ho partecipato nel 2007 è stata squallida e patetica. Successivamente, ho creato un lavoro chiamato AntiWar404 che comprende centinaia di estratti raccolti da siti web pacifisti e contro la guerra, letteralmente scomparsi nel corso degli ultimi cinque anni.

Quello che ho imparato seguendo gli aspetti online del movimento contro la guerra è che ci sono momenti in cui le persone abbandonano le aree di comfort ideologico per seguire la resistenza, e quando il momento passa, è molto più difficile costruire un movimento. Sfortunatamente, al momento sembra che questo arco di entusiasmo sia prevaricato in larga misura dalla copertura dei mass media riguardo gli eventi attuali. Ma se l’estensione dei social media, dei media indipendenti e di altre iniziative in collaborazione può essere usata per catalizzare azioni sociali, allora c’è qualche possibilità di andare oltre la futilità dell’idiozia spettacolare che oggi prevale.

Marco Mancuso: L’attivismo è uno dei punti chiave della tua ricerca artistica. Possibilmente integrato con le potenzialità connesse ad internet. Altport, per l’appunto, è un modello perfetto di come ci si può servire di internet in un modo tutt’altro che passivo. Ritengo che anche gli archivi,, come il portale FixNews, siano importanti in chiave attivista. La domanda è: primo, dove trovi il tempo per fare tutto quanto (come direttore di Digicult sono molto sensibile al tema)?

E secondo, quanto ritieni che sia importante essere attivi su Internet al di fuori dei social network? In altri termini, ti consideri un po’ una mosca bianca o consideri te stesso e tutte le altre persone come te come una razza di utopisti a rischio di estinzione?

Andy Deck: Ci sono aspetti del mio lavoro con l’arte e l’interattività che sento essere “anti-egemonici”, come l’impegno a sviluppare modalità meno passive per utilizzare i media elettronici, ad esempio. In ogni caso, la guerra e il collasso ambientale hanno dato modo di far pensare ai limiti dell’estetica. Come dici tu, ho esplorato vari usi di Internet come media indipendente. In risposta alla crisi ecologica e alla “guerra del terrore” ho voluto espandere le mie attività per indirizzarmi ad una ampio raggio di timori che ho per il presente ed il futuro. È difficile quindi mantenere la velocità andando allo stesso tempo in varie direzioni…

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Gli anni di Bush si sono rivelati uno spreco di tempo. Come molte persone ho lavorato per impedire la sua elezione alla presidenza e ho speso molta energia in questo, senza però ottenere grandi risultati. Alcuni progetti di quel periodo come FixNews e Anti-War Web Directory hanno resistito di più. Dal 2001 faccio parte del progetto chiamato Transnational Temps che tenta continuamente di collegare arte e attivismo.

Oggi ad esempio, sento che c’è meno resistenza ai temi ecologici nell’ambito dell’arte contemporanea. Può essere considerata una piccola vittoria per noi e per migliaia di altri artisti e attivisti che hanno percorso la medesima strada. È facile essere avviliti per la guerra infinita e i fallimenti politici di Copenhagen. Si è tentati di ritornare all’ambito limitato del formalismo, che si può facilmente controllare: ma quello non è il viaggio per cui mi sono imbarcato. Continuerò ad adattare e ad espandere la mia estetica e i progetti politici nel contesto dei sistemi mediatici in trasformazione.

Marco Mancuso:Parliamo un po’ di Fix News: come detto una delle battaglie della attivismo internazionale è proprio quella ecologica contro il riscaldamento globale, la deforestazione, l’inquinamento, le condizioni meteorologiche estreme e così via. Anche Digimag ha prestato attenzione a queste tematiche e sono ancora alla ricerca di attivisti che trattino questi argomenti per la rivista. Ho deciso di focalizzare l’attenzione sull’ultimo COP15 di Copenhagen che è anche un argomento all’interno di FixNews.

Quindi la mia domanda è: quanto è sottile il margine tra la falsa comunicazione dei media ufficiali su alcuni concetti chiave (come il riscaldamento globale per fare un esempio) e le battaglie condotte dagli attivisti internazionali? In altri termini, quanto può l’hattivismo essere a volte vittima della sua stessa retorica, trovandosi esso stesso a combattere per una falsa battaglia sovacostruita dai media? Parlo ad esempio dello scandalo ClimateGate, scoperto da alcuni hacker Russi e di cui è possibile sapere di più su questo sito.

Andy Deck: Uno dei miei progetti paralleli, sviluppato in parte con una classe in cui insegnavo, è Greenwash.biz. Mi ha portato a leggere molto sui modi in cui le pubbliche relazioni delle società usano oggi forme di simbolismo verde e ambientale. C’è l’ambientalismo di facciata, l’astro-turfing (falsa generazione di consenso spontaneo), gruppi industriali di copertura, ecc… Questa guerra all’informazione asimmetrica genera confusione e mistifica il nostro rapporto con l’ambiente. Penso che lo scandalo ClimateGate possa essere considerato in questo contesto.

Lo scandalo ha coinvolto scienziati che si sono allontanati dall’obiettività scientifica per impiegare le tattiche della guerra d’informazione. In assenza del potere, per comunicare in modo efficace, impegnarsi in una propaganda trova un certo senso. Parte della nostra missione come Transnational Temps è proprio quello di colmare il divario tra consenso scientifico e conoscenza pubblica riguardo l’estinzione, il riscaldamento globale e altri temi ecologici.

Gli scienziati sono raramente preparati o inclini a promuovere i loro risultati, ma ci sono un sacco di dati ambientali stipati nei server che possono essere usati da artisti e attivisti mediatici per inquadrare il bisogno urgente di cambiamento di atteggiamento verso l’ambiente.

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Marco Mancuso: Tornando infine al tuo ultimo lavoro, uno degli aspetti che mi ha affascinato del progretto Artistic License è la sua componente ironica. Tu stesso affermi: “Invece di sistemi identificativi a radio frequenza e biometrici, Artistic License sceglie la libertà, la collaborazione, la condivisione e l’immaginazione come fattori chiave per una modernità più allettante. La vostra Artistic License non vi richiede di assomigliare a voi stessi e non impone reali restrizioni”.

Penso che tu abbia centrato uno dei punti nevralgici della società iper-moderna, hi-tech e connessa in Rete: ognuno oggi pretende di essere diverso, di non sembrare se stesso, l’imbroglio non ha limiti ed è molto più potente della realtà virtuale, nonchè molto meno stressante. Non si ha bisogno di ri-creare una maschera estetica, ma piuttosto di creare una maschera sociale, per cercare di essere diversi (più belli, sexy, coo, sportivi, intelligenti, a proprio agio, di successo) dalla persona semplice e normale che si è…

Andy Deck: Sono d’accordo. Non direi di più. Al contempo però, in un lavoro come Artistic License, l’ultima cosa che vorrei è di farla sembrare sovra-determinata. Qui c’è in gioco l’elemento dell’inganno e penso che sia palesemente chiaro. Da bravi consumatori, siamo abili nel riconoscere gli imbrogli. Ma questo progetto che ho sviluppato non si adatta alle solite categorie di prodotti e servizi, quindi la retorica del marketing scatena più domande che risposte.

Marco Mancuso: Alcuni possono leggere, dietro il progetto Artistic Licese, una sottile critica al sistema artistico contemporaneo. A tal proposito affermi: “Con Artistic License ognuno può essere un artista oggi, non c’è bisogno di sforzarsi troppo o di avere conoscenze approfondite, di conoscere gli strumento e i mezzi, le teorie o le premesse”. C’è qualche velato riferimento alla disponibilità oggi di strumenti ipertecnologici per creare arte priva di espressività?

Andy Deck: Beh, personalmente non è tanto “l’espressività” che mi motiva. Quel termine, per me, ha un non so chè di identità artistica stereotipata e romantica che non mi piace tanto sostenere. Quello a cui alludo è qualcosa che penso sia più essenziale e ampiamente applicabile a come comunichiamo e inventiamo. È la questione della responsabilità di quando si attua il “linguaggio” interattivo dei software che mi preoccupa. Ecco una metafora che può parlare agli italiani: cyber in cibernetica deriva da guida (in greco kubernētēs = timonieri).

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Forse è troppo chiedere di navigare in mare aperto, ma se ciò attraverso cui ci stiamo muovendo è qualcosa di più che un semplice canale, c’è una buona ragione per chiedersi chi li costruisce e perché, e soprattutto dove portino. Attraverso i software quello che la gente pensa come “creatività” ha la possibilità di degenerare in una specie di pre-addestramento allo shopping: scegliete il vostro armadio e l’arredamento della casa, ragazzi! La creatività che mi piacerebbe sostenere non dipende dal commercio o dal marketing. Perfino la creatività mediata dai software non ha bisogno di portare invenzioni finte e sempre più prevedibili.

Con Artistic License cerco quindi di esaminare alcune delle complessità della creatività e il duplice ruolo dell’artista in quanto collegato a sistemi software online collaborativi. Non sto dicendo che, nonostante le apparenze, l’interattività sia l’unica strada. Ci sono aspetti della partecipazione che sono imprevedibili e questo è importante e affascinante. Ma al contempo, ho sistematizzato e predisposto quasi tutte le forme di feedback possibili, così il mio lavoro con l’interattività riguardi anche le forme di controllo e di libertà all’interno delle più dinamiche cibernetiche di collaborazione più varie e inusuali.


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