Da più di dieci anni Scott Arford è uno dei nomi di riferiemento per la scena artistica e musicale legata ai nuovi media della Bay Area di San Francisco, vincitore della della Menzione di Onore per la sezione Digital Music del Prix Ars Electronica 2005.
Architetto di formazione, Scott Arford è docente universitario e autore di installazioni audio e video, rassegne, live media set, registrazioni in studio. Una molteplicità di mezzi, pratiche e risultati legati da una profonda riflessione teorica che si declina in opere e progetti, spesso portati avanti in collaborazione con altri artisti, tra i quali ad esempio Scott Jenerik, Kit Clayton, Francisco Lopez e John Duncan.
Alla sua attività di autore è affiancata, dal 1996, da quella di promotore e catalizzatore culturale, con la fondazione di 7hz spazio polifunzionale aperto al pubblico e agli artisti a San Francisco. Un’attività, quella di Arford, varia ma coerente, una produzione dalla quale traspare un tratto comune, punto focale di una ricerca incentrata sulla natura dello spazio, inteso come campo di interazione tra due forze: l’incontro tra la potenza fisica del suono e della luce, utilizzate per costruire lo spazio dell’esperienza e della percezione umana.
Le regole di costruzione dell’edilizia audiovisiva di Scott Arford sono regole flessibili e fluide, come fluida è la materia di suono e luce. Un’attenzione per lo spazio che Arford ha “imparato” dall’architettura ma che, grazie alla commistione tra suono ed immagine, ridisegna le regole dello spazio architettonico fino ad annullarle, per andare oltre la superficie, oltre il limite ultimo dello spazio architettonico.
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Claudia D’Alonzo: Vorremmo iniziare parlando del tuo progetto 7hz. Com’è nato, come si è sviluppato negli ultimi anni e quali potrebbero essere le sue evoluzioni future e le sue potenzialità?
Scott Arford: 7hz è uno spazio industriale a San Francisco nel quale artisti e musicisti vivono e lavorano. E’ anche lo spazio e il nome dello studio nel quale ho prodotto gran parte dei miei lavori ed è a volte utilizzato come studio di registrazione per progetti esterni. Per molti anni è stato usato per delle performance di musica noise e sperimentale e, in qualche occasione, è stato un cinema per rassegne di video sperimentale. E’ stato anche uno studio per produzioni indipendenti. E’ il nome del mio sito. 7hz ha attivato una specie di brand o facciata pubblica per numerosi progetti sonori, video, produzioni che ho sviluppato con esso, da solo o in collaborazione con altri. Quindi 7hz è ed è stato un mucchio di cose, ma tutte incentrate sui media sperimentali. In senso assoluto, sin dal suo inizio, 7hz è stato un’affermazione del potere del suono.
Claudia D’Alonzo: Ci parli di Still Life (almost), Another Day in Three Acts? in particolare, in che modo si colloca rispetto ai tuoi precedenti lavori video? Come mai ha scelto di realizzare un lavoro con un esplicito legame al cinema come linguaggio audiovisivo condiviso dalle masse?
Scott Arford: Still Life è una mia personale meditazione su come sentivo il mondo intorno a me nel momento in cui l’ho prodotta. Si basa sulla depressione, la paura, il desiderio, la perdita dell’amore, la guerra…Il mondo si muove verso un punto morto (un’atmosfera pesante di sicuro!). Il lavoro prende in prestito tutte le immagini che lo compongono dal miglior film di Zombie – Non si deve profanare il sonno dei morti (Let Sleeping Corpses Lie – 1974). Sono un grande fan dei film di zombie, in particolare di quelli surreali, onirici, bellissimi. Quelli nei quali lo stile, l’atmosfera e le immagini guidano la storia. Questo per me è cinema puro. Quindi, in questo senso, Still Life condivide molto con altri miei lavori non figurativi, per l’idea di visione pura che si muove verso l’astrazione. C’è un inquietante senso di vuoto spaventoso che permea tutti questi lavori.
Dal punto di vista tecnico Still Life è legato ad un programma per la TV via cavo che Michael Nine ed io abbiamo prodotto nel 1998, chiamato Fuck TV. Ciascun episodio aveva un tema che noi volevamo esplorare attraverso una raccolta di quanto più materiale possibile di footage, rivolte o esecuzioni ad esempio, campionate da diversi monitor e schermi. Questo processo avrebbe cambiato drasticamente lo sguardo e la comprensione e noi volevamo rimontarlo in qualcosa di nuovo. In molti casi la colonna sonora rimaneva quella originale. Come con molti miei progetti, la motivazione parte da un desiderio travolgente di farlo. Solitamente non cerco di spiegarlo o razionalizzarlo sul momento.
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Claudia D’Alonzo: Perchè hai scelto di effettuare il found footage delle immagini dal monitor televisivo? Con questo tipo di “campionamento” entra in ballo nell’opera non solo il film originale ma anche un suo possibile medium.
Scott Arford: Still Life è una sorta di film zombie capovolto. Il simbolo dello zombie era appropriato per l’idea che ho provato ad esprimere a livello metaforico – la disperazione, lo smarrimento etc. di cui parlavo prima. Lo zombie è un virus inarrestabile che contagia qualsiasi cosa tocca. E’ una manifestazione dell’idea occidentale dell’apocalisse e infetta/colpisce sia l’individuo che la società.
Il sampling è un elemento importante in questa storia. Lo zombie sopravvive replicandosi e moltiplicandosi all’infinito: è un cancro. Come le cellule cancerose, lo zombie non è un originale, è un facsimile ottenuto con un programma di riproduzione. Anche il procedimento di sampling può essere visto come una sorta di cancro, un processo di ‘zombificazione’. C’è un gradino di distanza rispetto all’originale. Il sample si sta diffondendo nella cultura di massa, sta diventando un meme e sta infettando. Un esempio di questo si può vedere nella storia dei programmi americani televisivi di cartoni animati dal Flintstones ai Griffin e oltre. Qui non è solo il tema del nucleo familiare ad essere costantemente campionato, ri-campionato e ripetuto, anche la gran parte dell’umorismo in questi programmi dipende dal campionamento (sampling) di altri programmi televisivi e icone della cultura pop. E questo è vero per innumerevoli film e programmi televisivi. In effetti, per uno spettatore che non abbia dimistichezza con la cultura pop, difficilmente questi programmi potrebbero essere divertenti e probabilmente non avrebbero alcun senso! Ed ora lo zombie sta addirittura mangiando sé stesso. Gli attuali film di zombie possono tralasciare totalmente la presentazione e la spiegazione di cosa sia uno zombie, di come esso sia diventato ciò che è, di come ucciderlo etc., perchè il virus dei film di zombie si è diffuso. Tutti noi ora sappiamo cos’è accaduto, l’assunzione di potere da parte degli zombie è oramai una condizione data! Questa è ormai una spirale discendente verso l’immobilità alla quale occorre compensare con l’originalità, la creatività e l”ingegno.
In Still Life, non era importante solamente campionare lo zombie, ma anche campionarlo da uno schermo per coinvolgere il medium – come strumento di diffusione del virus. Ho cercato di rendere il processo di putrefazione che la ‘zombificazione’ comporta. Quando uno diventa uno zombie, c’è una rottura – con la carne, con la possibilità di poter pensare autonomamente, e infine con la propria stessa civilizzazione. Attraverso la ripresa dello schermo, l’immagine originale diventa non-morta. Siamo testimoni dello scontro tra il film originale e lo schermo televisivo stesso, una lotta per la dominazione dell’immagine. L’effetto di scaglionamento delle linee di scansione, le zoomate nell’immagine, l’effetto pixel, e la saturazione eccessiva del colore, infettano e deteriorano l’immagine.
Vorrei aggiungere un’ultima cosa riguardo al sampling. Mi piacerebbe fare una precisazione rispetto ad alcune di queste affermazioni, perchè io non credo che il sampling sia intrinsecamente problematico, canceroso, o che esso produca necessariamente zombie come propria manifestazione. E’ chiaro che il sampling può produrre lavori incredibili, originali ed ispirati. E, come hai sottolineato, l’ho usato spesso e forse non sempre in modo così critico!
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Marco Mancuso: Parliamo della tua attività di musicista; la tua ultima produzione Solid State Flesh / Solid State Sex, è stata realizzata in collaborazione con Francisco Lopez, e prima ancora hai collaborato con Randy Yau e Michael Nine. Quanto è stato importante per te lavorare con Francisco Lopez, ad esempio, ben noto per il suo rifiuto della rappresentazione visiva del suono, e come sei stato influenzato dalla tensione visiva nel tuo modo di creare musica? E quali sono, più in generale, le tue principali influenze nel suono, nella musica e nelle arti visive?
Scott Arford: E’ stato un grandissimo piacere lavorare con Francisco Lopez. E’ un amico e ho ammirato il suo lavoro per molto tempo. Ho apprezzato davvero molto il suo concept di musica assoluta, perchè focalizza l’ascoltatore su quello che c’è di veramente importante nella musica – su ciò che realmente compone il suono. Quando faccio un lavoro in studio, questo è anche il mio obiettivo. Penso che la collaborazione per Solid State, più che qualunque altra cosa, sia una collaborazione intellettuale. E’ stata creata con la stessa idea e gli stessi obiettivi – cioè come ascoltare qualcosa, cos’è l’esperienza dell’ascolto.
Le mie principali influenze artistiche sono state quegli artisti e amici ai quali sono stato molto vicino. In particolare, quando ho iniziato facendo noise e musica sperimentale, le tecniche, le tecnologie e i processi oltrepassavano ogni precedente concetto di stile e c’erano meno punti di riferimento. Questo non è per dire che non ce n’erano abbastanza, ma io non ero effettivamente consapevole della storia della musica sperimentale. Quindi, mi piacerebbe passare del tempo con gli amici trastullandomi con vecchi strumenti, cercando nuovi modi per produrre suono, andando ai mercatini delle pulci, mixando tracce, e in generale divertendoci con la musica. Questa è stata, ed è, un’enorme influenza per me.
Ci sono, ovviamente, molte altre cose che mi hanno ispirato: i fenomeni di Fortean, in particolare gli UFO e storie di fantasmi, i collage di Robert Rauschenberf e Kurt Schwitters, i libri di Philip K. Dick, Stanislaw Lem e William S. Burroughs, i film di David Cronenberg, David Lynch, e John Carpenter. Alcune influenze musicali sono stati ELO, il musical di Jeff Wayne tratto da La Guerra dei mondi, David Bowie, Skinny Puppy, e le notevoli registrazioni Anckarstrm. Una enorme influenza per la mia sensibilità estetica sono stati infine i paesaggi del Kansas occidentale dove sono cresciuto (che non è un paesaggio piatto, ma piuttosto un ondeggiare di colline a curve basse con qualche minima punteggiatura data da sporadici alberi), il ronzio che provoca guidare il trattore per ore in piedi e l’odore degli alberi di lillà.
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Marco Mancuso: Come musicista e come visual artist, sei chiaramente influenzato dalla tua formazione di architetto. In alcuni dei tuoi lavori audiovisivi, come 7 Illinois Street, i porti industriali, i paesaggi, gli sfondi notturni industriali, i ritratti panoramici, sono usati come materiale visivo diretto. In altri lavori come Static Room, ti concentri sull’architettura dei tuoi set audiovisivi per rendere più immersivo lo spazio, come anche nella tua esperienza con il Recombinant Media Lab o il Bmw Pavillion. In atri, infine, come Untitled for television, il tuo lavoro riduce il sistema audiovisivo alla sua forma più essenziale e rudimentale, con riferimento al Bauhaus, alle teorie minimaliste e agli studi sull’idea-forma-colore. Affermi che “‘architettura fornisce un ottimo contrappunto alla media art”; quindi vorrei chiederti, nei tre lavori che ho nominato, qual’è il confine tra le due discipline, quali sono i punti di contatto e quali le differenze principali?
Scott Arford: Ad un livello molto elementare il mio approccio ad ogni sforzo creativo è la spazialità nella natura. E’ un processo intuitivo di organizzazione spaziale, che qualche volta arriva in modo naturale. In architettura questa relazione è molto diretta. Teoricamente, l’architettura si occupa di creazioni tangibili, ma il processo mentale è lo stesso. Mi piacerebbe dimostrare che c’è molta più libertà di esplorare lo spazio nei lavori suono o video, di quanta ce ne sia in architettura. Gli architetti sono obbligati a conciliare le faccende spaziali con una realtà davvero difficile fatta di regole edilizie, preventivi, utilità, funzionalità, proprietà, e l’intera istituzione dell’edilizia e della costruzione. Il tipo di geometrie che prendono forma dall’edilizia è spesso più di natura legale, politica, e finanziaria che non spaziale o creativa.
Quindi come artista, puoi lavorare in modo molto più libero. Nel lavoro 7 Illinois Street, il pensiero architettonico e spaziale incomincia con il contenuto del lavoro (edifici e paesaggi industriali), la spazializzazione del suono e la creazione di nuovi spazi funzionali da un’unica realtà. In Static Room c’è anche la creazione di un nuovo, sebbene astratto, spazio visivo. Una delle immagini rappresentative di Static Room è una specie di glitch che appare realmente come fosse un edificio, un castello elettronico. Quindi come composizioni visive, c’è l’uso dello spazio nella classica modalità del visual design e delle teorie cinematografiche. Immagini, astrazioni, oggetti, tutto esiste all’interno del frame, si sovrappone e combacia. Sia reale che immaginario, concreto o astratto, lo spazio è creato dalle interazioni formali di questi pattern di luci pulsanti. Questo è lo spazio all’interno dello schermo.
Forse più interessante è lo spazio che lo schermo può creare fuori da se stesso. 7 Illinois Street è stato originariamente progettato come un’installazione circolare a dieci canali. Lo spazio compreso tra gli schermi improvvisamente diventa un campo quieto circondato da questi paesaggi surreali. La colonna sonora favorisce l’illusione che non ci siano muri, solo paesaggi industriali: ora stiamo veramente parlando di creazione dello spazio!
Static Room e Untitled for Televisions portano quest’idea ancora oltre. In parte perchè le immagini sono non figurative ed in parte per la loro intensa vibrazione visiva. Questi pattern stoboscopici e flickeranti cambiano (caricano!) completamente la stanza e modificano l’idea di visione dello spazio esterno all’immagine contenuta nello schermo. L’immagine diventa uno specchio e riflette lo spazio dietro lo spettatore e l’esperienza fisica. Il segnale audio generato dal video pulsa insieme alla retina dello spettatore che si espande e contrae per i visuals stroboscopici. La stanza stessa cambia forma, come un’ombra si sposta e si muove intorno. Lo schermo diventa un riflettore, cercando, allungandosi dal suo mondo piatto, di toccare e accarezzare una nuova dimensione tutt’intorno. Questa è un’architettura di suono e luce!
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Marco Mancuso: La relazione tra suono, visione e spazio è per te qualcosa di fisico, permanente, spaziale in ogni tuo lavoro audiovisivo. Specialmente lavorando con il suono, esso diventa un segnale fisico in lavori come Infrasound o Tv-Iv, trasfomandolo in un segnale video come nelle sperimentazioni dei Vasulka del secolo scorso. Questo suono provoca una connessione fisico-psichica con il pubblico, si muove verso uno spazio tridimensionale, creando architetture e paesaggi acustici. Anche qui c’è un forte collegamento con una questione importante in architettura: quindi, come lavori con il suono, con la sua spazializzazione, la sua natura fisica, e quali sono le differenze principali con i tuoi lavori sul suono utilizzati per i tuoi album, in studio, come puro musicista?
Scott Arford: Il suono è una forza fisica, anche l’immagine può essere fisica. Ma, allo scopo di stabilire questa relazione per con lo spettatore, e giocarci e manipolarla come un artista, alcuni requisiti tecnici e fisici sono necessari. Quello che intendo è che un sistema PA deve essere potente e posto correttamente nello spazio, le immagini devono essere luminose, e ben posizionate, etc. Ogni club, squat, galleria, negozio, etc ha un PA differente, materiali, dimensione, etc. – ogni spazio è differente e la performance è sempre un’azione site specific. Come live performer, bisogna avere il miglior controllo possibile su questi fattori. Non si può avere controllo, tuttavia, su come un individuo sta per ascoltare o vedere un CD o un DVD. Dunque, un lavoro creato per questo dovrebbe essere differente. Gli effetti a bassa frequenza, ed altre considerazioni site-specific non hanno senso. Composizione, attenzione, direzione, effetti stereo e qualità del suono, ritmo etc. Questi elementi (che spesso possono essere tralasciati nei set live) diventano molto più critici per il successo di un lavoro registrato! Personalmente apprezzo il mixaggio in studio e la creazione di spazi stereo densi e intensi e spero che questo si senta nei miei lavori registrati.
Claudia D’Alonzo: Molta parte della tua ricerca è incentrata sulle modalità di esperienziare il proprio corpo attraverso la stimolazione data da suono-immagine e spazio dell’opera. Che tipo di sviluppo ha avuto negli anni questa ricerca, anche in relazione agli apparati tecnologici che hai utilizzato nei diversi lavori?
Scott Arford: Una volta ho ricevuto un biscotto della fortuna che mi ha cambiato la mia vita. Mi piace ripensarci, è capitato proprio quando avevo iniziato da poco a fare musica: in realtà stavo per smettere, arte, musica, qualsiasi cosa! Non avevo soldi ed ero quasi senza attrezzature – solo una vecchia radio, un registratore a quattro tracce, e un effetto di scarsa qualità. Questo biglietto della fortuna diceva “Usa qualsiasi tecnologia hai a disposizione”. Sono andato a casa, ho collegato la radio, l’effetto e il registratore, e ho iniziato a registrare! E’ stato indimenticabile: l’effetto di riverbero portato in overdrive modulava la ricezione radio nel modo più incredibile, i erano suoni creati insieme dai due dispositivi. La prima cassetta Interference: Pattern viene da questo.
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Quindi ho ampliato il mio studio, ma l’idea è rimasta. Amo usare strumenti primitivi per raggiungere risultati diretti – segnali grezzi, controllo delle tracce, dati etc. Credo sia essenziale provare delle cose senza idee preconcette su come si veda o come si senta. Niente può essere bello se presti attenzione a questo e perdi di vista la vera natura. Mi piace fare cose “sbagliate” e vedere cosa succede. Molti progetti sono nati da questo – collegando il video con l’audio o l’audio col video. Questo cambiamento è andato avanti attraverso numerosi progetti e mi ha permesso di fondere suono e immagine in alcuni lavori audiovisivi intensamente esperienziali.
Chiaramente i computer e le altre tecnologie mi hanno dato un nuovo livello di controllo su questi processi. Abbraccio veramente sia il vecchio che il nuovo. Qualche volta le tecnologie non acquistano valore artistico fino a che non iniziano a diventare obsolete. Continueranno ad essere un ottimo potenziale e fonte di ispirazione per fondere insieme il nuovo e il vecchio, per creare qualcosa di totalmente diverso.