La serie animata dei Pokémon è incorsa più volte in censure, per i motivi più vari. Il primo caso riguarda il 38° episodio della prima serie, il cui titolo originale è “Electric Soldier Porygon”, che è stato bandito in tutto il mondo. L’episodio in questione andò in onda la prima ed unica volta il 16 dicembre 1997 in Giappone, causando quasi 700 casi di epilessia provocate da alcune sequenze nelle quali vengono mostrate intermittenze luminose troppo veloci. Le intermittenze hanno questa successione: un fotogramma rosso, uno blu e uno azzurro. Poi di nuovo rosso, blu, azzurro e così via. Alcune persone hanno sofferto di attacchi di epilessia anche a causa della successiva trasmissione della sequenza d’immagini incriminate durante la diffusione della notizia tramite telegiornali. [fonte: Wikipedia]
Dal 17 al 26 settembre presso il DOCVA (Documentation Center for Visual Arts) di via Procaccini 4 a Milano, si è svolto Quando l’occhio trema. Il flicker fra cinema, video e digitale, videoscreening a cura di Claudia D’Alonzo (Digicult) e Mario Gorni (Careof DOCVA). Una selezione di 15 opere che mette in scena l’effetto chiamato flicker.
Il cinema, più in generale l’immagine in movimento, si basa su di una successione di immagini statiche alla velocità di ventiquattro fotogrammi al secondo: questa frequenza di aggiornamento rende possibile la percezione del movimento. Alterando il numero di fotogrammi, all’incirca dimezzandoli, abbiamo l’effetto chiamato flickering, o sfarfallìo. Tutto qui. Parafrasando Laura Mulvey (1) si potrebbe dire: Madden 12x a Second!
Le opere basate su questo principio risultano a dir poco disturbanti, disorientanti, maldimaranti (e tutto il cotè di aggettivi e neologismi del caso), tanto che Ken Jacobs (apro e chiudo una parentesi: perché non si è selezionato nemmeno un suo lavoro?!) in testa al suo Razzle Dazzle -The Lost World (2007) colloca una didascalia con le seguenti parole: “This film is not for those suffering from epilepsy” (2).
Dal punto di vista dello spettatore, colui il quale compie l’atto di guardare un film, l’esperienza è decisamente traumatica ed è difficile con questa tecnica mantenere un’attenzione costante. Il nervo oculare, sottoposto a stress, non è in grado di seguire lo sviluppo (anti) narrativo delle immagini che si alternano, questo la sensazione è simile a quella provata da Alex nella celebre sequenza della visione coatta di A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971).
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È dal punto di vista cognitivo che l’effetto in questione rivela le sue sorprendenti potenzialità, stimolando una comprensione delle immagini assai più libera e disarticolata, non lineare, difforme dall’abitudine dei 24 fotogrammi al secondo e per questo sorprendente.
La selezione curata da Claudia D’Alonzo e Mario Gorni ha messo in mostra undici opere provenienti dai ricchi archivi DOCVA e INVIDEO, insieme a quattro opere selezionate fra le produzioni degli artisti (digitali) che gravitano attorno al network internazionale di Digicult.
La selezione ha rappresentato un’ occasione unica d’approfondimento e mostrazione d’un (non)cinema invisibile perché sperimentale ed underground, distante dall’abitudine spettatoriale dei 24 fotogrammi al secondo, dalle convenzioni narrative, ma soprattutto dall’abitudine dell’occhio a seguire il movimento come una fluida successione continua di frame. D’Alonzo e Gorni hanno saputo dare conto di una tecnica non solo nelle sue attuali concretizzazioni (con i lavori di Granular Syntesis, Otolab, Cairaschi, Fleish, Girts Korps, ape5, Graw & Bockler, De Bemels, Chiasera, Arford, Arnò), ma anche delle origini dell’emersione di questa tecnica.
Piece Mandala / End War di Paul Sharits (1966), il primo elemento del videoscreening, pone l’intera selezione entro una visione del “fenomeno” flickering come generato dalle sperimentazioni degli anni sessanta del cinema sperimentale americano, il (non)cinema di Stan Brakhage, Tony Conrad, Michale Snow e tutta quella costellazione di personalità che hanno utilizzato il linguaggio delle immagini in movimento per rinnovarlo ed il cui insegnamento è giunto intatto all’attuale epoca digitale. Paul Sharits, Steina e Woody Vasulka, ma soprattutto Paolo Gioli intervistato dalla stessa Claudia D’Alonzo – http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1486 – per Digimag 45 del Giugno 2009,la cui opera selezionata dàa il titolo alla “mostra”, quasi a voler orgogliosamente affermare la centralità ed originalità dell’esperienza italiana, viva e vivida nei decenni passati quanto oggi (si veda il lavoro di Otolab).
Dar conto di opere sperimentali è sempre una operazione complessa, mancano gli appigli linguistici ai quali aggrapparsi per rendere un senso rizomico e sfuggente che in ambito flickering si amplifica a dismisura. Merge / Se Fondre di Antonin De Bemels è l’opera più facilmente narrabile perché la più prossima al linguaggio cinematografico classico: organizzata come un cortometraggio, sia per durata che per modalità narrativa, è l’unica opera ad utilizzare lo sfarfallio dell’immagine a fini narrativi; qui il flickering viene utilizzato come rappresentazione visiva del disagio esistenziale vissuto dai tre protagonisti della vicenda narrata.
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Questa felice scelta apre la riflessione per immagini (in movimento) di D’Alonzo e Gormi al cinema tout court, accendendo nello spettatore l’illuminazione della propria memoria, producendo in lui il ricordo di esperimenti simili in molto cinema visto e noto. Su tutti David Lynch, che ha da sempre fatto ampio ricorso al flickering per caricare di una ulteriore valenza perturbante il proprio cinema (penso ad esempio ad alcune sequenze di Lost Highway, ma pure Heraserhead fino all’ultimo INLAND EMPIRE).
Una riflessione più generale merita la scelta compiuta di organizzare il materiale selezionato con la formula del videoscreening, cioè della proiezione a ciclo continuo. Pur riuscendo a cogliere la finalità primaria della visione di un gran numero di opere, questa opzione incorre in quel sovraccarico cognitivo che snatura l’unicità delle singole opere. Il rischio è quello di tramortire lo spettatore (ci sono stati momenti in cui ho temuto realmente di precipitare in uno stato epilettico), proiettandolo in una corsa senza sosta fra immagini che prendono a martellate il nervo ottico.
“Quando l’occhio trema. Il flicker fra cinema, video e digitale” è stata, prima ancora che un’ottima occasione per vedere opere particolarissime ed estreme, una efficace concretizzazione di sinergie vitali ed interessanti quali il Documentation Center for Visual Arts di Milano, Digicult ed INVIDEO: tre realtà italiane d’assoluto interesse (internazionale).
Per una più completa documentazione dell’evento rimando il lettore a quanto scritto dai curatori nella presentazione dell’evento che, oltre a definire con chiarezza gli assunti metodologici della selezione, presenta pure i quindici elementi di cui si compone.
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Note:
(1) Laura Mulvey, Death 24x a Second: Stillness and the Moving Image , Reaktion Books, 2006.
(2) Pure una delle opere capostipiti e paradigmatiche di questo “effetto” dell’immagine in movimento, The Flicker (Tony Conrad, USA/1965), si apre con una didascalia che così ammonisce lo spettatore: “WARNING. The producer, distributor, and exhibitors waive all liability for physical or mental injury possibly caused by the motion picture “The Flicker.” Since this film may induce epileptic seizures or produce mild symptoms of shock treatment in certain persons, you are cautioned to remain in the theatre only at your own risk. A physician should be in attendante”.