Questo articolo è un estratto dell’intervista fatta da Alessio Galbiati ad Antonio Martino per il numero 10 della rivista digitale di cinema e video arte Rapporto Confidenziale, di cui Alessio e fondatore e direttore. Lo scambio si inserisce in un rapporto di amicizia e collaborazione tra Digicult e una delle realtà editoriali indipendenti più interessanti e professionali sul panorama nazionale.

Classe 1977 Antonio Martino è senz’ombra di dubbio uno dei più interessanti autori di documentari di questi ultimi anni, i moltissimi riconoscimenti ottenuti dai suoi lavori sono lì a dimostrarlo, se proprio la visione non dovesse bastare.

Dotato d’uno stile asciutto ed essenziale Martino ha al suo attivo cinque documentari, cinque documentazioni sugli effetti nefasti dell’agire umano, cinque catastrofi ambientali delle quali cerca i ricordi fra quell’umanità che ha avuto la sciagura di viverle. Ho voluto approfondire e condivedere la conoscenza di questo autore perché anche nelle modalità produttive il suo stile appare fra i più stimolanti della scena italiana, perché quel che insegna la sua esperienza è che viviamo l’epoca in cui la possibilità di fare cinema non è mai stata così alla portata di tutti. Ha collaborato con la POLIVISIONI, un gruppo di filmakers indipendenti con cui, nel 2003, affronta il problema dell’antiproibizionismo in Italia girando il documentario Siamo fatti così, che vede come attore principale Freak Antoni, cantante degli Skiantos. Già dal 2004 la sua costante diventa la ricerca della realtà che lo porta ad avvicinarsi a luoghi e temi difficili. I suoi reportage si trasformano in occhio consapevole le sue immagini diventano inchiesta. Nel 2005 arriva fin sotto il reattore nucleare di Cernobyl e gira “Noi siamo l’aria, non la terra” documentando le attuali condizioni di vita e le conseguenze subìte dalla popolazione che vive nei pressi di della centrale nucleare di Chernobyl a diciotto anni di distanza dalla catastrofe. Il documentario verrà selezionato da diversi festival nazionali e internazionali. Nell’inverno del 2006 gira Blu Panorama nei pressi del CPA/CPT di Isola di Capo Rizzuto, Crotone. Il film ritrae la fuga dei clandestini dal campo in cui sono stati alloggiati provissoriamente.

Subito dopo, curioso di capire le motivazioni di alcuni gravi fatti di cronaca commessi in italia nel 2005 da giovanissimi ragazzi rumeni, decide di analizzare le condizioni dei bambini che vivono in una società che a stento cerca di riprendersi dopo gli orrori post Ceusescu. Gira “Gara de Nord_copii pe strada” con il solo apporto di una piccola telecamera palmare più o meno nascosta ed un budget pari a zero. Vive con i bambini delle fogne di Bucarest per un mese, aprendo così una finestra sulla realtà di questi bambini che vivono nei canali sotterranei della città di inverno e per strada d’estate, vittime della pedofilia di strada (perpetrata spesso da turisti stranieri), della droga, e di abusi da parte di genitori. Il film riceve molti premi, tra i quali il prestigioso Premio produzione Ilaria Alpi 2007. Il film è stato acquistato da Rai 3 e Rai news24. Nel febbraio 2007 gira Pancevo_mrtav grad” un reportage girato nella città più inquinata d’Europa: Pancevo, in Serbia, a pochi km da Belgrado. Il video indaga sulle conseguenze del bombardamento del più grande complesso industriale della ex Yugoslavia da parte della Nato. I feroci bombardamenti che provocarono una delle più gravi catastrofi ecologiche del secolo passato, furono fortemente voluti ed autorizzati dall’oggi neo Premio Nobel per la pace Al Gore, nonchè famoso ambientalista, allora vicepresidente dell’amministrazione Clinton.

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Alessio Galbiati: Credo che questo modo di porti rispetto alle realtà che vuoi raccontare sia una costante dei tuoi lavori. La definizione più calzante del tuo lavoro che mi è venuta in mente è quella dello stalker, della guida tarkovskiana, cioè colui che porta, principalmente sé stesso e di riflesso gli altri e soprattutto un occhio (uno sguardo), su realtà distanti e marginali e cerca sempre di rimanere lontano da giudizi. Quindi il tuo cinema, il tuo modo di raccontare per immagini, risulta sempre molto duro, forte. Mi pare di capire che ciò non accada perché tu vuoi costruire qualcosa di indigesto o scioccante per il pubblico in maniera programmata, ma proprio perché racconti realtà che sono scioccanti e drammatiche in sé. Volevo chiederti di questo tuo metodo di lavoro, se si sta affinando con il tempo e più in concreto come funziona, sia nel momento in cui produci una documentazione, che quando entri in contatto con una realtà, con le persone. Mi ha colpito moltissimo in questa direzione di senso una sequenza del tuo documentario su Chernobyl, Noi siamo l’aria, non la terra (2005), quando entri in una casa dispersa nella campagna ucraina e c’è questa vecchietta che grida al figlio, che ti ha fatto entrare, di non farti riprendere l’abitazione perché troppo in disordine. Ecco mi ha colpito perché è evidente una grande componente di improvvisazione, credo che tu stesso non sappia quel che troverai dall’altra parte, non sai le risposte che troverai… Vorrei capire quali sono le tue sensazioni, soprattutto umane, rispetto al tuo metodo di lavoro.

Antonio Martino: Beh, intanto hai avuto un’intuizione bellissima, perché è proprio quello che voglio fare, cioè lo stalker, la guida. La questione più grande attorno alla quale mi sono trovato a riflettere e studiare è ovviamente quella dello statuto stesso del documentario. Esiste una lunga diatriba su tema, presente da quando è nato il documentario, cioè se il documentario è pura realtà, o mezza finzione, e su come interpretare il documentario o come relazionarlo con la cultura del momento o del posto. Io ho realizzato i miei film più belli utilizzando queste telecamerine…

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Alessio Galbiati: Ti interrompo perché questa cosa ritorna spesso negli articoli a te dedicati e la vorrei chiarire. Telecamerine, ovvero le telecamere DV che si trovano al supermercato e costano circa 500 euro?

Antonio Martino: Diciamo che si tratta di consumer, non prosumer. Un telecamerina – questo è sempre stato il mio riferimento– che abbia almeno tre sensori, 3 CCD, perché è il minimo dal quale si possa partire. La riflessione non sta nemmeno qui, sta nel fatto che cambia la società… la società sta cambiando. È una cosa lampante per tutti. Dieci anni fa per noi riuscire a mandare una fotografia attraverso un cellulare era fantascienza, anche ai tempi in cui io e te eravamo al liceo. In realtà ci pensiamo poco, ma è importante, i nostri genitori ci direbbero: “e noi che per telefonare dovevamo andare in casa dei vicini!”. Il rapporto con la tecnologia deve essere più riflessivo. L’uomo ha bisogno della tecnologia. Ti faccio un esempio. Anni fa, negli anni Settanta e Ottanta, l’essere umano nella società aveva dei riferimenti, che venivano dalle istituzioni: il governo, la scuola, l’informazione, la televisione… se dicevano una cosa alla televisione tutti ci credevano e ci credevano ciecamente, perché la televisione era la verità. Se il presidente del consiglio in piazza diceva: faremo questo, quello e quell’altro, la gente ci credeva, perché quella era la verità. Lo stesso valeva per la scuola, la parola del professore era legge.

Perché la gente si fidava di queste istituzioni. Oggi, nel nuovo millennio, entriamo in una seconda modernità. La prima modernità ha raggiunto i massimi livelli di sviluppo con noi, penso che ci dovremmo fermare un attimo e che dovremmo ripensare quello che la tecnologia è per noi. Questo significa osservare la società in un modo riflessivo. Prendi ad esempio la televisione… Prima tutti avevano un televisore, c’è stato un periodo in cui si incominciò a possederne più d’una, da bambini pretendevamo la televisione nella nostra cameretta. Sembrava una cosa normale, ineccepibile. Oggi invece ci sono persone che volontariamente non hanno un televisore. Questo significa che la tv non è più una certezza, non è più un punto fermo, ma un oggetto tecnologico attorno al quale l’uomo riflette. Avviene la stessa cosa con Internet. È un concetto difficile da esprimere…

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Alessio Galbiati: E’ un concetto che ho trovato in Oltre il senso del luogo, un bellissimo libro di Joshua Meyrowitz…

Antonio Martino: In realtà io mi riferisco ai testi di Ulrich Beck. Che già negli anni Ottanta scrisse La società del rischio. Verso una seconda modernità, pensa che lo pubblicò tre mesi prima che scoppiasse la centrale di Chernobyl. Penso soprattutto a Reflexive Modernization: politics, tradition and aesthetics in the modern social order un saggio di Ulrich Beck, Anthony Giddens, e Scott Lash che personalmente considero il primo testo della nuova filosofia dei giorni nostri: Reflexive Modernization, modernizzazione riflessiva. Pare che questo testo stia condizionando da più punti di vista l’arte di fare il documentario. Quando ho iniziato a farne, anche prima di conoscere le teorie, quasi inconsciamente, capivo che bisognava fare qualcosa di diverso, capivo che il documentario classico con una voce onnisciente – la voce off che sa tutto, la voce della verità – aveva fatto il suo tempo e che soprattutto non era più la forma possibile per la contemporaneità. È vero insomma che il mio modo di fare il documentario è quello di una guida che accompagna all’interno d’una realtà senza prendere posizione. Nell’epoca in cui viviamo è difficile prendere delle posizioni, potrai essere orientato verso una cosa o verso un’altra ma difficilmente si avranno posizioni nette. Delle istituzioni non ci si fida più, della scuola idem, dei media men che meno… L’uomo torna a mettersi al centro dell’universo, cercando di scoprire quali sono le nuove regole per vivere il proprio tempo.

Contrariamente ai documentari classici nei miei lavori manca quasi totalmente la figura dell’esperto, lo scienziato o il professore, questo perché vorrei costruire opere il più possibile riflessive, ho sempre preferito avere informazioni da persone”normali”, comuni, dalle persone che non sono nessuno piuttosto che dal grande scienziato. All’inizio questa cosa mi metteva un po’ a disagio perché partivo dal presupposto che il documentario dovesse essere innanzitutto un film di documenti che documentano (scusa il bisticcio) testualmente un qualcosa, una ricerca delle prove. Ma come trovarle queste prove? Come dimostrare determinate tesi o punti di vista quando non esistono verità intoccabili? Nel documentarmi sulla questione psichiatrica di cui ti dicevo mi sono imbattuto in tutto ed il contrario di tutto. Ci sono multinazionali che diffondono falsa informazione, pazienti che raccontano la propria guarigione grazie ad un determinato farmaco ed altri che documentano il peggioramento della propria condizione a causa di quello stesso psico-farmaco… tutto ed il contrario di tutto! La verità è diventata liquida, non è più come qualche decennio fa dove l’ideologia consentiva di avere punti fermi inamovibili. Per questo mi piace l’idea della guida, io ti prendo e ti porto lì, dentro a quella situazione, immerso in una realtà. Il portare lì lo spettatore ha in sé il concetto di voyerismo, uno dei concetti fondamentali del cinema, uno dei motivi che ci porta a guardare dei film. La mia riflessione si ricollega alle idee di Cesare Zavattini e Alexandre Astruc; Zavattini diceva che un giorno tutti avremmo avuto la possibilità d’utilizzare una macchina da presa e tutti avremmo avuto la possibilità d’esprimerci attraverso questo linguaggio, allo stesso modo d’uno scrittore o di un giornalista con la propria penna stilografica. Subito dopo arrivò Alberto Grifi…

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Alessio Galbiati: Quello che stai dicendo è assolutamente coincidente con quanto ho scritto nell’editoriale del numero8 (ottobre 2008) di RC. Ho scritto che il primo testimone (inconsapevole) delle potenzialità del Super-8 è stato Abraham Zapruder che con la ripresa dell’omicidio Kennedy ha illustrato al mondo le possibilità del mezzo, poi arrivarono una schiera di filmmaker sparsi sul globo che hanno provato a fare il cinema con questo nuovo mezzo, fra questi Alberto Grifi che in Italia fu assolutamente un precursore di tale pratica. Dicevo poi che con il digitale questo potenziale si moltiplica esponenzialmente…

Antonio Martino: Dagli anni sessanta ad oggi sono stati compiuti dei progressi incredibili nella qualità delle immagini non professionali, si è passati dall’immagine quasi inintelleggibile dei film di Grifi dove l’esigenza era quella di raccontare a prescindere dai formalismi qualitativi, a prodotti che realizzati con un budget ridottissimo sono stati in grado non solo di giungere nelle sale ma di diventare veri e propri blockbuster. Penso a The Blair Witch Project (film di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez del 1999, ndr) che, pur essendo un film per certi versi stupido, ha inaugurato a suo modo l’era del cinema digitale (poi ci sono anche i casi dei Dardenne di Bertolucci e mille altri ancora) che a mio parere si caratterizza proprio per il suo carattere voyeurista. I registi architettano un dispositivo della visione che ci proietta all’interno d’una situazione, dispositivo entro il quale non ci è concessa altra realtà se non quella che ci viene somministrata…

Alessio Galbiati: Senza il punto di vista involontario della macchina da presa di Zapruder con tutta probabilità l’ipotesi della triangolazione di tiro avvenuta a Dallas non sarebbe probabilmente mai emersa.

Antonio Martino: Attraverso quel filmato, amatoriale ed assolutamente non professionale, si è restituita al mondo una prospettiva dei fatti. Quel filmato venne per molto tempo messo in discussione, proprio perché non professionale…

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Alessio Galbiati: Oggi siamo invece al proliferare di immagini non professionali…

Antonio Martino: Credo che oggi si è portati ad avere maggiore fiducia nelle immagini non professionali che non a quelle dei media. Oggi non crediamo più a quello che dicono i media, nemmeno troppo alle immagini che producono. Ai tempi di Robert J. Flaherty (Robert J. Flaherty 1884-1951, pionere del documentario, ndr) l’immagine in sé e per sé, al di la del significato che gli attribuisci, era un’immagine vera, non importa sapere quanto fosse naturale la rappresentazione in Nanook l’eschimese (celebre documentario del 1922, Nanook of the North), cioè quanto sia stato diretto dal regista questo povero eschimese, all’epoca l’immagine contava in quanto tale, essendo molto ridotte le possibilità di manipolarle esse avevano un valore in quanto tali. Oggi ogni immagine è potenzialmente manipolabile, oggi un’emittente televisiva può crearsi il suo conflitto nei propri studi di produzione. Tutto può essere manomesso.

Alessio Galbiati: Una cosa che mi sarei aspettato venisse fuori in maniera naturale da questa chiaccherata, ma che con stupore constato non essere così, è la dimensione del rischio – assolutamente evidente nella tua produzione –, il fatto che metti sempre a repentaglio la tua salute, la tua incolumità… Mi hai detto di avere avuto problemi in Uzbekistan con le forze dell’ordine locali… Sei stato in luoghi tutt’altro che tranquilli come Chernobyl, Pančevo, le fogne di Bucarest… per farla breve: perché?

Antonio Martino: Fondamentalmente credo sia una questione di personalità. Sono cresciuto in uno dei posti più pericolosi d’Italia: Isola Capo Rizzuto. Quando avevo dodici anni avevamo l’esercito per le strade, con delle trincee fatte con dei sacchi di sabbia, soldati armati di tutto punto fuori casa, autoblindo che scorrazzavano per il paese, un posto dove le sparatorie erano praticamente all’ordine del giorno. Vivere in quel posto mi ha da una parte fatto abituare alle cose assurde, ma soprattutto mi ha allevato alla rabbia, una voglia di rivendicarmi su delle cose che era chiaro succedessero per interessi personali di alcune persone, per la mala politica, per tutto quello che vuoi… Esplorare o vivere in certi posti armato d’un oggetto di ripresa, che nell’immaginario collettivo può voler dire sputtanamento, denuncia, cambia le cose. In Romania in un certo senso ho bluffato, alla polizia dicevo di essere uno studentello che con la mia telecamerina si faceva il filmino delle vacanze, entravo in un personaggio che faceva leva sulla normalità dell’uso d’una telecamera. In Uzbekistan ho sempre lavorato nella logica del documentario d’inchiesta però con una tecnologia diversa, un poco più evoluta, più professionale e dunque più ingombrante, più visibile. Ogni minimo dettaglio porta a delle conseguenze durante le riprese. Mi sono portato una Panasonic P100, un mezzofucile per l’audio, un cavalletto un po’ più stabile, tutto nell’ottica di voler realizzare un’opera maggiormente professionale rispetto alle precedenti ma, alla fine, tutto è andata a farsi fottere.

Davo troppo nell’occhio! Questa mia voglia di migliorare la qualità è andata a sbattere contro la realtà, contro la reticenza delle istituzioni che governano quel territorio al racconto dei loro problemi. Le dimensioni della telecamera e dell’apparato di ripresa sono andati a condizionare la mia presenza sul posto. Già in passato sono state fatte riflessioni sulla grandezza e sulla visibilità della telecamera… il rapporto fra il regista, la situazione che devi riprendere e la dimensione o la fattezza del mezzo di ripresa è assolutamente importante. Purtroppo è importante. Se io ho una telecamera nascosta negli occhiali o nel cappello avrò una percezione del pericolo differente rispetto da quella generata dall’uso d’una camera più ingombrante e visibile. In Uzbekstan ci volevano tre o quattro minuti per mettere a bolla, poi il fuoco era manuale, lo zoom pure… È stata un’esperienza completamente diversa dalla precedenti. Non avevamo valutato con attenzione il rischio che comportava il voler fare un’inchiesta d’assalto, cioè pericolosa e borderline, con delle dimensioni non proprio contenute dell’apparato di ripresa.

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Alessio Galbiati: Diciamo dunque che ti senti prossimo ad una dimensione di compattezza ed autonomia estrema messi a disposizione del mezzo? Il più piccolo possibile?

Antonio Martino: Sì. Il meno invasivo possibile direi.

Alessio Galbiati: Invisibile forse…

Antonio Martino: Il più invisibile possibile e che mi permetta di non spaventare le persone, di non invaderle, non aggredirle. Soprattutto quando parli di certe cose. Se tu vai da un pescatore sul lago d’Aral, intanto sai già che per loro sei una specie di alieno, non vedono occidentali da almeno venti anni… c’è ogni tanto qualche turista che però si ferma mezza giornata e che fugge immediatamente perché è tutta sabbia… dove deve andare?! Quando arrivi da questo pescatore, con la tua telecamera, con i tuoi abiti così diversi dai suoi, devi entrare in relazione con la sua idea di giornalismo e con il suo modo di rapportarsi con la telecamera, all’idea che ha della televisione e dell’apparire… è molto complesso riuscirci, lo devi un po’ preparare… insomma ci vogliono calma e tempo, che non sempre sono possibili… insomma è tutto davvero complicatissimo. Rischio della vita, qualità delle immagini, contenuto dell’inchiesta: tutto è in relazione

Alessio Galbiati: In quale modo è possibile vedere i tuoi lavori? Puoi dare qualche coordinata ai nostri lettori? Ho visto che qualcosa c’è sul tuo sito: www.antoniomartino.net…

Antonio Martino: Sul mio sito ci sono solo dei trailer. In realtà sul sito avrei voluto metterli tutti, ma per un problema con la webmaster e per alcuni problemi tecnici la cosa non è ancora stata possibile. Poi sono stato contattato da Carta, che edita un settimanale ed un mensile (Carta e Carta Etc), che proprio in questo periodo sta visionando il mio materiale; per la fine di dicembre passeranno su Eco Tv (www.ecotv.it) Pancevo_mrtav grad, mentre per vedere Gara de Nord_copii pe strada…

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Alessio Galbiati: Ho visto che è disponibile su clipscorner.net.

Antonio Martino: Esatto! oppure lo puoi trovare anche sul sito della Rai, credo sia reperibile su RaiClick. Ovviamente poi si possono vedere i miei lavori nei vari festival e rassegne a cui partecipano… e sono davvero molti.

Alessio Galbiati: Dunque non esiste una distribuzione in dvd dei tuoi lavori?

Antonio Martino: Guarda pochi giorni fa ho avuto un contatto con la Ermitage di Bologna, che è interessata alla distribuzione di Gara de Nord… ma non c’è niente di sicuro.

Alessio Galbiati: Gara de Nord è il tuo documentario che ha ottenuto il maggior numero di premi e riconoscimenti, addirittura il Premio Produzione Ilaria Alpi nel 2007…

Antonio Martino: In realtà mi sa che Pancevo lo sta quasi raggiungendo, ad oggi ha vinto dieci premi… Gare de Nord circa quindici… Per quel che riguarda la distribuzione forse la durata dei miei lavori risulta un po’ scomoda, sono forse troppo brevi per uscire in dvd.

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Alessio Galbiati: Diciamo dunque che c’è ancora da aspettare del tempo ma che comunque l’uscita in dvd dei tuoi lavori è un qualcosa al quale stai lavorando…

Antonio Martino: Sì assolutamente, sicuramente però fra un annetto metterò tutto gratis sul mio sito o da qualche altra parte sul web. Comunque io considero ancora questi lavori degli esperimenti, devo essere sincero. Sento che ho delle potenzialità ma non mi sento ancora completamente espresso, quindi questa fase è ancora in un certo qual modo un gioco, una giustapposizione di elementi proprio come fa un vj o un dj, cosa che tu conosci bene. In alcuni miei lavori, ad esempio in Gare de Nord, il processo creativo è stato proprio così, creavo un pezzo alla volta legando fra loro immagini e suono. Adesso invece mi sto cimentando con la scrittura, con il cercare di prevedere un certo numero di fattori e soprattutto cercando di valutare a tavolino la loro gestione. Cerco un maggior controllo sul documentario, non mi baso più sull’emozione del momento (o non solo), ma vorrei sviluppare un metodo di lavoro sempre più professionale, anche se in fondo il tutto rimane una specie di gioco. Proprio in questo periodo c’è un produttore di Roma che stranamente mi sta corteggiando, mi incita, mi telefona, mi stimola a scrivere dei progetti, delle sceneggiature e siccome ho visto che ha prodotto lavori interessanti, che lavora con la televisione e che soprattutto dispone d’una certa concretezza sto pensando di provare ad assecondarlo, professionalizzando questa mia attitudine. Cerco comunque di mantenere una certa spontaneità e libertà creativa che queste dinamiche rischiano sempre di ingessare.

Alessio Galbiati: Mi avevi raccontato di questa tua esperienza con RaiNews24, manifestandomi chiaramente il tuo rifiuto rispetto a certe dinamiche…

Antonio Martino: Alla fine sono un filmmaker precario, ma quale filmmaker non lo è stato. Grifi era un morto di fame poverino, lo dico con il massimo rispetto, eppure faceva cose bellissime. Ho girato Pancevo nel febbraio del 2007, ho studiato una ventina di giorni prima di partire, poi sono stato sul posto circa un mese e poi sono stato venti giorni in montaggio, si può dire che ho fatto il film in due mesi e mezzi lavoro. Mandandolo ai festival ho guadagno qualcosa più di diecimila euro di premi; ho lavorato due mesi e mezzo ed ho guadagnato dodicimila euro, una cifra che mi ha permesso di vivere in quel periodo.

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Alessio Galbiati: Questa è una cosa che mi aveva molto colpito quando ci siamo conosciuti. Ricordo di averti domandato come avevi investito la cifra ottenuta grazie al premio Ilaria Alpi, credendo che quella cifra ti fosse servita per il progetto successivo e invece, con mia enorme sorpresa, tu mi raccontasti che quei soldi ti erano serviti semplicemente per vivere. Credo che questo fatto sia un buon manifesto, un qualcosa che descrive molto meglio di tante parole la dimensione di colui che oggi decide di fare il filmmaker. Fare un film indipendente è già un miracolo di per sé, quindi se arriva un riconoscimento economico tanto vale utilizzarlo per la propria normale esistenza perché la produzione si basa unicamente sulla passione, su quell’istinto a raccontare una storia a prescindere dalle contingenze economiche e dal tornaconto.

Antonio Martino: Il mio è forse un ragionamento troppo ottimistico, non sono sicuro se un giorno potrò ottenere dei soldi per fare un certo tipo di vita, che poi nemmeno mi interessa, però… un minimo! So di avere un talento e so che con questo sistema di vita posso campare e dunque non mi sento completamente perso. Ovviamente è capitata la questione dell’Arpa e mi sono mosso, idem con questo produttore… posso fare l’uno e l’altro. Se però mi dovessi sentire troppo vincolato, se la cosa non mi fa stare bene, non la faccio tanto per lavorare, soprattutto se la cosa è molto personale. Nel frattempo mi muovo fra tante cose, soprattutto ciò che è nuovo e sperimentale, la rete mi affascina davvero molto, la rete e tutte le nuove tecnologie.


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