Dalle 12 alle 20 per tutti e tre i giorni di durata del Festival, come sempre presso l’Auditorium del Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, ha preso forma per l’undicesima volta (la prima edizione è del 1998) la sezione dedicata alla settima arte del Sonar di Barcellona, il Sonarcinema
Quest’anno, e per la prima volta, gli organizzatori della chermesse hanno voluto utilizzare un tema comune per la totalità degli extra d’un festival che ha da sempre come tratto distintivo quello dell’interdisciplinarietà, un’attitudine ben sintetizzata dalla collocazione della sua parte diurna negli edifici del sopraccitato CCCB e del Museum d’Art Contemporani de Barcelona (MACBA). Questo tratto comune è stato il cinema. Cinema beyond Cinema il concetto teorico attorno al quale annodare le differenti aree, ovvero SonarMàtica, Sonarama, Digital Art À La Carte ed ovviamente la rassegna SonarCinema.
Una scelta che ha voluto sancire una riappacificazione che in questi ultimi tempi si sta affermando come un’avvenuta metabolizzazione dei profondi legami che uniscono l’arte digitale ed il cinema delle origini, o più in generale con la preistoria delle immagini in movimento. Una scelta che mira ad interrogare il presente per comprendere il futuro attraverso la consapevolezza del fatto che ciò è rimesso in discussione dalla rivoluzione dei media digitali possiede il medesimo statuto ontologico del susseguirsi di stimolazioni visive sulla retina, lo stesso limite incontrato dalla lanterna magica e dagli “spettatori” dei nickelodeon d’inizio secolo, magari proprio quelli del bellissimo pezzo esposto per i corridoi di SonarMàtica.
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SonarCinema è forse prima d’ogni altra cosa un’oasi di fresco e tranquillità dove ristorare il corpo dal serrato ed estenuante programma del maga-festival catalano. Dopo qualche anno di frequentazione sento l’esigenza di spendere attorno a questa banale constatazione due parole per descrivere, a coloro i quali non vi sono ancora passati, questa originale modalità di fruizione dell’immagine in movimento che ha il notevole merito di porre la visione della riproduzione d’immagini ai margini d’un contesto assai più ricco.
Bastano pochi minuti seduti nella freschissima sala per ricordarsi che all’esterno di essa tutto un mondo di suoni ed altre immagini scorre veloce, si ha la netta sensazione d’essere circondati da musica che infatti filtra dalle pareti restituendo la propria eco. È in questa marginalità eccezionale d’oasi cinematica che Andrew Davies, curatore della sezione, gioca con il Sonar proponendo una rassegna polimorfica di materiale eterogeneo composta da 14 distinte selezioni per un totale di 58 opere mostrate e di 48 registi coinvolti. Durata complessiva: 585 minuti, qualcosa meno di dieci ore!.
Durante le tre giornate il calendario delle proiezioni ha offerto ad ogni opera la possibilità d’essere vista due volte entro una logica assai democratica di visibilità d’ogni singolarità. Una rassegna polimorfica di materiale eterogeneo legato da un tema comune che quest’anno porta il nome di CineMaterial, ovvero la manipolazione di materiale pre-esistente attraverso la pratica del montaggio. Davies, che sentiremo per il prossimo numero di DigiMag, si ritaglia fra l’eterogeneità della propria curatela una micro-rassegna-manifesto (omonima) composta da tre lavori che possono essere considerate come veri e propri paradigmi dei motivi che hanno dato corpo a questa undicesima edizione di SonarCinema. Il resto è caos organizzato sottoforma di menu che da una parte risponde alle esigenze degli organizzatori del festival di dare visibilità a contributi d’un buon numero degli artisti presenti e dall’altra mette in scene la moltitudine d’audiovideo che si sviluppa attorno alla scena elettronica ad ogni latitudine.
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Quel che è certo è che pure quest’anno la rassegna cinema curata da Andrew Davies è stata assolutamente ricca di materiali diversi fra loro, forse sbilanciata però un po’ troppo nella mostrazione di opere poco conosciute e dunque esponendosi alla critica dell’opinabilità della curatela. Ma in dieci ore di programmazione qualcosa di interessante, anche per i palati più fini, dovrà pur essere stato proiettato.
CineMaterial
Come accennato nell’introduzione Andrew Davies ha curato con particolare attenzione il menù principale di questa edizione del SonarCinema. Cinematerial è una riflessione sul tema della manipolazione e dell’appropriazione di materiale pre-esistente, tema ampiamente rappresentato nelle altre parti di cui si compone questa selezione ma qui portato ad un livello d’esplicita evidenza.
Il lavoro di Norbert Pfaffenbichler, Mosaik Mécanique (9’30”, 2007), è una manipolazione-scomposizione d’un classico della Keystone del 1914 ( A Film Johnnie , diretto da George Nichols) interpretato da Charlie Chaplin e Fatty Arbuckle all’interno d’un reticolo simmetrico composto da 98 immagini ognuna delle quali è una singola sequenza delimitata da tagli di montaggio. La durata complessiva dell’opera è la stessa dell’originale, ciò che viene dilatato è il concetto di sequenza: sono tutte infatti presenti simultaneamente.
Work, Rest & Play di Vicki Bennett (People Like Us, 2007) “gioca” invece con la tripartizione dell’immagine, mettendo in scena con una modalità assolutamente originale quelli che potrebbero essere i sogni del bambino che punteggia l’opera all’apertura ed alla chiusura. Bennet articola un messaggio stratificato ed aperto ad una moltitudine di interpretazioni accostando fra loro un gran numero di immagini provenienti da archivi industriali del periodo 40-75 archiviati su due delle più grandi cineteche web quali il Prelinger Archives e l’AV Geeks.
Infine l’opera che più d’ogni altra m’ha colpito: Kristall, per la regia di Christoph Girardet e Matthias Müller (Germania/2006, 15′). Questo pluripremiato cortometraggio è la quintessenza della cinèfilia perché raccoglie un numero davvero sorprendente di sequenze estratte da una serie di film assolutamente celebri del periodo quaranta-sessanta. I soggetti di queste sequenze sono gli attori colti di fronte allo specchio in un gioco di riflessi davvero sorprendente che al di là della bellezza intrinseca e dell’emozionalità sprigionata mette a nudo il ripetersi di tutta una serie di convenzioni tipico del cinema classico. La donna allo specchio che pensierosa si pettina, l’uomo che rabbioso infrange lo specchio e ancora, la donna che legge una lettera di fronte allo specchio e l’uomo che di soppiatto emerge alle spalle della donna seduta di fronte ad uno specchio; Girardet e Müller montano una sequenza mozzafiato, che rimarrà, una volta afferrata dagli occhi, un ricordo indelebile, pura poesia per immagini. “Kristall creates a melodrama inside seemingly claustrophobic mirrored cabinets. Like an anonymous viewer, the mirror observes scenes of intimacy. It creates an image within an image, providing a frame for the characters. At the same time it makes them appear disjointed and fragmented. This instrument for self-assurance and narcissistic presentation becomes a powerful opponent that increases the sense of fragility, doubt, and loss twofold.” (Christoph Girardet & Matthias Müller)
www.thewire.co.uk/files.php?file=614&action=stream
www.pfaffenbichlerschreiber.org/en/FilmVideo/MOSAIKM%c9CANIQUE
www.german-films.de/app/filmarchive/film_view.php?film_id=1490
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What The Future Sounded Like
Regia: Matthew Bate; produttore: Claire Harris; suono: Richard Pilcher (Stereo 5.1 Surround Sound ); animazioni: Greg Holfeld; sequenze super-8: Ian Helliwell; sound design: Pete Best; sound edit: Liam Price; mixer: Peter Smith; post-produzione: Facility The Lab; post-produzione: Meredith Hosking; ricerche d’archivio: Archive Research Claire Harris; immagini d’archivio: Crown Copyright, Film Images, Film Australia ITN Source, Reuters, British Pathe, BBC Motion Gallery, Getty Images, Terry Nation Estate, EMS Archive, Tristram Cary Archive, Peter Zinovieff Archive, Film World, Canberra Times, Yancey e Hawkwind Archives; prodotto in collaborazione con: Australia Film Commision, South Australian Film Corporation, Adelaide Film Festival Investment Fund, Australian Broadcasting Corporation (ABC); formato: HDV e Digital Betacam – 16:9 Widescreen Anamorfico; paese: Australia, anno di produzione: 2007; durata: 27′
Questo interessante documentario, molto British dal punto di vista della realizzazione (interviste ed immagini di repertorio sono la struttura portante) racconta le memorie d’uno di quegli istituti di ricerca musicali votati all’elettronica assai meno celebre del GRMC (Groupe de recherches de musique concrète) di Parigi guidato da Pierre Shaeffer, dello studio radiofonico della WDR (Westdeustcher Rundfunk) di Colonia diretto dal trio Beyer, Eimert e Mayer-Eppler (ma è il nome di Stockhausen ad essere il più celebre di questo laboratorio di ricerca), come pure dell’italiano studio di fonologia RAI con sede in corso Sempione a Milano, diretto dai geniali Bruno Maderna e Luciano Berio. Una storia minore che trova in questo breve documentario australiano uno strumento che saprà dimostrarsi negli anni a venire fondamentale alla trasmissione della propria esperienza alle generazioni future. Nato negli anni sessanta dall’esigenza di un gruppo di musicisti d’avanguardia di sperimentare nuove sonorità futuristiche, l’ Electronic Music Studios (EMS) è legato ai nomi di due grandi pionieri dell’elettronica quali Tristram Cary (celebre in tutto il mondo per la colonna sonora della mitica serie Doctor Who) e Peter Zinovieff. E’ da questi laboratori che nacque uno dei sintetizzatori più fortunati d’ogni tempo, l’esoterico VCS3 (il vero antagonista del Moog), che venne utilizzato dai più importanti gruppi musicali per più di quarant’anni: da Brian Eno ai Pink Floyd di “The Dark Side of the Moon”, fino ad arrivare ad Aphex Twin ed ai Chicken Lips (ma l’elenco potrebbe davvero non finire mai: David Bowie, . What The Future Sounded rimette al proprio posto un tassello fondamentale della ricerca musicale del secolo passato, è un ponte fra due epoche, è la storia dei suoni che ci circondano.
www.myspace.com/whatthefuturesoundedlike
www.whatthefuturesoundedlike.com
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Pilgrimage from Scattered Points
Regia, sceneggiatura, montaggio e fotografia: Luke Fowler; produzione: Toby Webster (The Modern Institute); musiche: Carnelius Cardew, The Scratch Orchestra, Thurston Moore; paese: UK; anno di produzione: 2006; durata: 45′.
“Pellegrinaggio da punti dispersi” potrebbe essere la bislacca traduzione del titolo del documentario diretto da Luke Fowler presentato al SonarCinema 2008. Nei 45 minuti di durata si ripercorre la storia del musicista avant-gard Cornelius Cardew (1936-1981) e dalla sua Scratch Orchestra (fondata nel 1968), un ensamble di musica sperimentale composto da musicisti non professionisti con il fine, tutto politico, di creare una vera e propria liberazione musicale della popolazione. Un progetto utopico di liberazione delle masse, musica per tutti prodotta da chiunque secondo il motto marxista “Silence is therefore the only possible means of communication”.
La regia del trentenne di origini scozzesi Luke Fowler è frenetica, caratterizzata da un montaggio davvero incessante che pare perseguire l’idea del dare una forma a-temporale al materiale utilizzato. Una scelta davvero interessante che comporta un monumentale lavoro di editing e trattamento delle fonti assolutamente originale e ben realizzato. Fowler mixa fra loro immagini d’archivio, contenenti dichiarazioni sempre assai politiche di Cardew (marxismo e maoismo tout court) ad una centellinata campionatura di interviste a suoi collaboratori che ricordano il passato, fra cui Howard Skempton e Michael Parsone, ma lo fa evitando gli stilemi classici del documentario, filtrando tutti i contributi con una vasta gamma di effetti visivi e, come già detto, un montaggio frenetico. Ovviamente buona parte del lavoro è dedicata all’illustrazione di alcune delle performance della Scratch Orchestra , ricavate da un documentario della tv pubblica inglese del 1971 Journey To The North Pole (regia di Hanne Boenish) che con la sua gran super-8 si sposa a meraviglie con il gusto per l’immagine “sporca” di Fowler.
Anche se suddiviso in parti/capitoli il documentario in questione non riesce ad essere completamente chiaro allo spettatore. E’ come se l’enorme lavoro di documentazione e di ricerca del materiale abbia fatto perdere al regista la lucidità necessaria per restituire allo spettatore con sufficiente chiarezza i fatti documentati. Lo stile stesso, frenetico e incessante, porta l’intera operazione sul versante d’una assoluta incomprensibilità (volendo essere indulgenti si potrebbe parlare di ‘complessità’), i fatti raccontati non vengono spiegati con dovizia di particolari tanto da far sembrare il tutto una specie di mockumentary, un finto documentario su d’un qualcosa di plausibile ma completamente inventato. Ma se tutto questo è vero, allora Fowler ha fatto senz’altro un ottimo documentario; alla peggio un superbo mock!
D’assoluto interesse l’invettiva contenuta nell’opera “Stockhausen Serves Imperialism” che, fatto più unico che raro, contesta al compositore tedesco, ma all’avanguardia più in generale tutta una serie di modalità compositive e d’esecuzione che sarebbe forse il caso d’andarsi a riguardare, per togliere dal piedistallo molta della sperimentazione che per la sua complessità intrinseca si è ormai supinamente portati a “consumare” a-criticamente.
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Dub Echoes
Regia e sceneggiatura: Bruno Natal; animazioni: Adriano D’Aguiar e Juarez Escosteguy; operatore: Bruno Natal; suono: Lontra Music; montaggio: Daniel Ferro, Julio Adler, Rafael Mellin; musiche: Digitaldubs Sound System; produttore: Bruno Natal; paese: Brasile; anno: 2007; durata: 71′.
Dub Echoes per qualche strano motivo che ignoro mi è particolarmente piaciuto. Saranno i suoni, che poi non immaginavo potessero risultarmi così gradevoli, saranno le belle location, sarà che il voler considerare il dub come l’ombelico del mondo musicale elettronica, perfetto mix (nonché il più duraturo sulla scena della musica campionata) fra vecchio e nuovo, passato e presente. Il Dub diviene una specie di religione, verbo fatto suono, o magari aria da respirare. Il Dub alla fine è tutto, una filosofia vera e propria con la quale appropriarsi di tutto ciò che ci circonda nel modo più libero, democratico e pacifico. Un vento di creatività che dalla Jamaica s’è diffuso in tutto il mondo.
La cosa che più impressiona del lavoro di Nadal è il numero di musicisti, studiosi e altro ancora intervistati in giro per il mondo: 2manydjs, Aba Shanti-I, Adam Freeland, Audio Bullys, Basement Jaxx, Beat Junkies, Bill Laswell, Black Alien, Bullwackie, Bunny Lee, Congo Natty, David Katz, Dennis Bovell, Dj Spooky, Don Letts, Dr. Das, Dreadzone, Dub Pistols, G-Corp, Glyn Bush, Gussie Clarke, Howie B, Kode 9, Lee “Scratch” Perry, Ltj Bukem, Mad Professor, Marcelo Yuka, Mario Caldato Jr., Mutabaruka, Nação Zumbi, Peter Kruder, Roots Manuva, Scientist, Sly & Robbie, Steve Barrow, Switch, Thievery Corporation, U-Roy, Victor “Ticklah” Axelrod, Zion Train.
Questa scelta, messa a disposizione da una produzione decisamente accomodante e danarosa, calza a pennello con uno dei messaggi forti contenuti in questo lavoro, l’idea per cui il dub sia diffuso in tutto il mondo diviene dato di fatto, perché è proprio nei quattro angoli del globo che queste persone parlano. Ed il ping-pong è incredibile, si hanno campi e controcampi fra dialoghi di differenti intervistati da una parte all’altra del pianeta. Un tizio afferma che il Dub è libertà a Rio De Janeiro e da Londra un altro chiosa che questa libertà sta nella natura stessa della tecnica utilizzata. Forse il documentario migliore visto in questa edizione del Sonar perché ad una tecnica di ripresa e montaggio piuttosto neutra e ben fatto si somma la scelta d’una tematica decisamente interessante ed assai poco indagata con tanta dovizia di dettagli. Bruno Natal ha realizzato un video didattico sul Dub e la sua eco probabilmente incomincerà a propagarsi nei tempi a venire.
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Part of the Weekend Never Dies
Regia: Saam Farahmand e Soulwax; montaggio: Kurt Augustyns; fotografia: Saam Farahmand; produttori: Sasha Nixon e Grace Bodie; paese: UK, Belgio; data di uscita: 25 agosto 2008; durata: 60′.
Lo scorso anno il SonarCinema ospitò lo strepitoso DVD dei Beastie Boys (Awesome; I Fuckin’ Shot That!) in cui 50 telecamere guidate da 50 persone differenti, da 50 punti di vista differenti, hanno registrato l’intera esibizione del trio newyorkese al Madison Square Garden. Quest’anno 1 sola telecamera riprende 120 show dei Soulwax in giro per il pianeta terra. “Part Of The Weekend Never Dies” è in fondo uno di quegli oggetti audiovisivi agiografici che restituiscono tutta l’aura mitica che circonda band musicali di successo. I viaggi, i concerti, i dietro le quinte, gli amici famosi e quelli meno, gli hotel, gli aeroporti, i fans, le groupie…
Veniamo trasportarti per circa un’ora all’interno del Radio Soulwax World Tour, a stretto contatto con i quattro componenti d’una delle band di maggiore successo degli ultimi anni. L’operazione è prodotta dalla Factory Partizan (vero e proprio marchio di qualità) e diretta da Saam Farahmand (con gli stessi Soulwax), autore di videoclip di successo per Klaxons, Hercules & Love Affair e Janet Jackson. Personalmente non amo molto questo tipo di lavori, forse perché non ho un gruppo musicale, né tanto meno mi capita di fare frequentemente tour mondiali, quel che mi lascia maggiormente perplesso è il senso stesso di queste operazioni che non riuscendo nemmeno a raccontare fino in fondo la sostanza della musica suonata mi lasciano l’impressione del prodotto patinato un po’ troppo fine a se stesso. Ho citato non a caso il lavoro dei Beastie Boys perché ritengo che in certo qual modo questi due progetti rappresentino due estremi opposti di raccontare l’esibizione live, da una parte la performance è vissuta come evento collettivo in cui lo stesso pubblico è parte attiva, dall’altra il pubblico è solo sfondo intercambiabile (Londra, Parigi, Rio e Tokyo sembrano un’unica grande metropoli ai piedi delle star) ed oltretutto assai omogeneo per modi di reazione agli stimoli sonori e per look. Oltretutto praticamente tutti i luoghi sono, nell’accezione di Marc Auge, non luoghi desolantemente svuotati d’una propria identità. Le presenze di altri musicisti/dj’s famosi (James Murphy, Nancy Whang, Erol Alkan, Tiga, Justice, Busy P, So-Me, Peaches, Kitsuné e Klaxons) sembrano voler aggiungere pepe laddove il piatto risulta insipido. Pur se ottimamente confezionato e di sicuro riscontro fra il pubblico, questo documentario non convince fino in fondo, affascina ma non è mai sincero. Dopo avere seguito i Soulwax in giro per il mondo, alla fine del tour, non capiamo in fondo chi si nasconde dietro questo nome, ogni agiografia presuppone fede altrimenti il trucco si svela da se rischiando il ridicolo.
Presentato in anteprima per il mercato spagnolo, il DVD sarà disponibile a parte dal 25 agosto, per la gioia dei fan che non aspettano altro di poter esporre un nuovo santino merceologico nella propria videoteca.
http://www.partoftheweekendneverdies.com
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Author’s Clips: Choreographies
Come da tradizione anche quest’anno non si è potuto fare a meno d’una selezione di videoclip musicali dell’ultimo anno e mezzo legati fra loro dalla messa in scena di coreografie (concetto applicato a dire il vero in modo assai estensivo). Si passa da vere e proprie coreografie in stile Broadway del video diretto da Douglas Wilson, che con impertinenza gioca con la base ritmica del brano dei Goldfrapp, al meno convenzionale e notevole per tecnica di regia (piano sequenza unico) e per tecnica del ballerino Bill Shannon (affetto dalla nascita da un problema psicomotorio) “Work It Out” diretto da uno dei videomaker più talentuosi in circolazione: Joey Garfield.
Di Douglas Wilson è stato anche presentato il tenebroso video di “What’s a Girl to Do?” dei Bat for Lashes, una strana coreografia realizzata sulle due ruote da un gruppo di ragazzi in bmx, aggindati come lupi attorno ad una proto-Cappuccetto Rosso. Il video dei Buraka porta sullo schermo le incredibili evoluzioni di ballerini angolani alle prese con il Kuduro (ma significa “culo duro”?!), mentre “Eddy Fresh” mette in scena una pariodia della cultura hip-hop. Poi il concetto di coerografia si dilata veicolando videoclip come la delizosa piccola orchesta sintetica dei Perish Factory per i Bomb the Bass, oppure l’insolità congèrie antropomorfica dei Subway Lung. Infine è stato inserito anche il video, stravisto e rivisto in ogni dove, della pop(olarissima) “D.A.N.C.E.” dei Justice, diretto dal coollissimo duo Jonas & François. Anche quest’anno il Sonar ha voluto omaggiare alcuni degli artisti presenti (Goldfrapp, Justice, Buraka e Kid Acne) con una piccola dose del loro universo audiovideo.
Bat for Lashes – What’s a Girl to Do? . Regia di Dougal Wilson . 3′
RJD2 – Work It Out . Regia di Joey Garfield. 3′ 30″
Kid Acne – Eddy Fresh . 3′
Buraka Som Sistema – Sound of Kuduro . 4′
Goldfrapp – Happiness . Regia di Dougal Wilson . 3’30”
Justice – D.A.N.C.E . Regia di Jonas & François. 3′
Trans Am – Tesco vs. Sainsburys . Regia di Subway Lung. 4′
Bomb the Bass – Butterfingers . Regia di Perish Factory. 4′
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Author Clips: Osaka
Dopo aver visto la selezione di videoclip in questione mi sono fatto l’idea che ad Osaka c’è qualcosa nell’aria che non va’. Uno potrebbe aspettarsi un’incredibile uso delle tecnologie digitali e invece ti ritrovi di fronte ad immagini, certo digitali certo ultra-manipolate, ma l’estetica non è quella dell’ipertecnologicità. Insomma sembra di assistere a variazioni sul tema dell’estetica del primo Shinya Tsukamoto: post-post-punk ?! La colonna audio, assai omogenea per sempre piuttosto simile, proviene da alcune delle band e dei personaggi più off della scena musicale della metropoli giapponese.
La parte musicale del Sonar diurno ha ospitato alcuni fra i rappresentanti della scena della città nipponica, il sabato pomeriggio presso il SonarComplex si è prestato alle “dolenti note” di Ove Naxx, Bogulta, al DJ Scotch Egg ed ai Morusa. Destabilizzante!
Zuinosin – Scool Oi . Regia di Catchpulse
Baiyon – Under the Bridge . Regia di Catchpulse
Nanycal – Drumsmemen Father’s Song . Regia di Catchpulse
DJ Scotch Egg – Scotch Bach . Regia di Steve Glaisher
Ove Naxx – Donga’s Monsta Circus .
Maruosa – Muscle Spark .
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Author Clips: Audio Dregs
Audio Dreges Recording è il nome dell’etichetta di Portland fondata da Eric Mast, ovvero E*Rock: poliedrico artista multidisciplinare che spazia dalla produzione musicale a quella audiovisiva con assoluta disinvoltura. E*Rock realizza videoclip in flash, un software dannatamente popolare sul web ma che in parte fatica ad affermasi al di fuori della rete. Egli produce piccole e deliziose animazioni in sincronia ai suoni accompagnati, un mondo leggero e fantasioso si sprigiona dalla giustapposizione di microsequenze d’immagini in movimento che negli esiti più modesti ricorda molto materiale dilettantesco, ma che nelle opere più fortunate è capace di costruire bellissime iterazioni fra immagini in flash ed attori in carne e ossa. Scelta strana quella di inserire una monografia del genere, che senz’altro non eccelle per qualità ed originalità.
– Cherry (musica: Ratatat).
– Dead Weird Keks (musica: Global Goon)
– Dome TV pt.2 (musica: White Rainbow)
– Geomagnetic Mind Feed (excerpt) (musica: E*Rock)
– I Love Your Music (musica: Tobiah)
– Mind as Master (musica: Sack & E*Rock)
– Native 78 (musica: White Rainbow)
– New Alium (musica: Lucky Dragons)
– SHTML (musica: Yacht)
– Streets (musica: Valet)
– The Physical DJ (musica: E*Rock)
– Uncle David (musica: Neon Hunk)
Clip di artisti della Audio Dreg Rec.
– O.Lamm – Aerialist . Regia di Mumbleboy
– O.Lamm – Bu-ri-n-gu za-no-i-zu! . Regia di Ian Lynam
– O.Lamm – Genius Boy . Regia di Kumi Kamoto
– WZT Hearts – Discuss Winter . Regia di Mark Brown
– Melodium – Felt Melt . Regia di Torisu Koshiro
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Mort Aux Vaches Ekstra DIEM
Kristian Vester, più comunemente noto come Goodiepal (ma ultimamente ha deciso di farsi chiamare Van Den Gæoudjiparl Dobbelsteen), è considerato uno fra i più influenti ed interessanti artisti emersi della scena elettronica degli ultimi anni. La sua sensibilità, il suo modo di lavorare, ed il suo personalissimo approccio alla composizione sono le principali caratteristiche d’un piccolo-grande genio eccentrico d’origine danese.
Opera strana per genesi (nasce come un ciclo di lezioni tenuto da Goodiepal al Dansk Institut for Elektronisk Musik, poi diviene un libro e per ultimo una registrazione realizzata dalla tv danese d’una di queste lezioni) e per contenuto, un territorio teorico e concettuale assai sdrucciolevole per un critico cinematografico che si inoltra in ambiti solo sporadicamente battuti. Cinquanta minuti di voli pindarici, d’improvvisazione musicale, fatti nella forma della lezione, o se si preferisce, del monologo straripante d’un genio (che forse in un’altra epoca si avrebbe avuto il coraggio di chiamare rivoluzionario).
http://ascoltare.webeden.co.uk/#/gaeouija/4524167296
http://www.smallfish.co.uk/shop/release/?cat=GOODIEBOOK
http://www.myspace.com/goodiepal
http://www.musik-kons.dk/diem/goodiepal08.php
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In The Name of Kernel: Song of the Iron Bird
Joan Leandre è un artista catalano attivo dell’inizio degli anni novanta che utilizza la manipolazione della virtualità dei videogames, e della loro estetica, per proporre una visione straniante dei mondi digitali generati dai calcolatori d’ultima generazione. Leandre, conosciuto anche con il nome di Retroyou, pare avere una fissazione speciale per i simulatori di volo. Simulatore di simulatori che sembrano ormai correre spediti verso la duplicazione della realtà.
Animal Charm
Estetica anni ottanta rubata alle tv commerciali, televendite per denti bianchi e roba del genere. E ancora: annientamento d’ogni umanità e conformismo di plastica. Animali selvatici sparsi qua e la (potrebbe piacere a Charlemagne Palestine?!?!): uomini e bestie. Il montaggio è estremamente basilare, taglia e cuci elementare composto da giustapposizioni di senso stralunate. L’audio scorre sopra le immagini senza raccordi di sorta. Animal Charm è lo pseudonimo dietro al quale si celano Jim Fetterley e Rich Bott un duo californiano attivo nella sperimentazione visiva da poco più d’una decade che si caratterizza per un’attitudine dissacrante dell’immaginario pop, lo stile è quello dell’artigianato digitale casalingo, estetica youtube ante litteram. Il bersaglio principale è la cultura di massa propagandata dalle tv commerciali, un bersaglio da parodiare attraverso un montaggio destrutturate che mette in circolo percorsi di senso sapientemente definiti “danteschi” dal curatore.
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Queste le opere proposte per una durata complessiva di 40 minuti: Animal Charm Live. Lightfoot Fever. Street Shapes. Computer Smarts. Brite Tip. Il Mouille. Sunshine Kitty. Hot Mirror.
– Lightfoot Fever (1’30”, 1996). Prendi Jim Bailey che canta il superclassico “Fever”, montalo con immagini di animali selvatici, shekera l’audio campionando le varie parti della melodia, alterna un duetto sensuale dell’interprete con una compagna sinuosa ad immagini di quegli stessi animali con qualche compagno della propria specie ed otterrai la stramba miscela allestita per questo breve e fulminante esperimento.
Il video è inserito nella compilation Animal Charm Videoworks: Volume 1 e nell’antologia American Psycho(drama): Sigmund Freud vs. Henry Ford .
– Computer Smarts (1’30”, 2002). Se fosse possibile tradurre per immagini il trasferimento d’una memoria enciclopedia d’un calcolatore nel microscopico cervello d’un pappagallo ci si troverebbe di fronte al cortissimo in questione. Il video è inserito nella compilation Animal Charm Videoworks Volume 3: Computer Smarts.
– Brite Tip (3’00”). Con tutta una serie di effetti di montaggio che variano dalla tendine alle dissolvenze incrociate in questo video troviamo kuleovianamente giustapposte fra loro immagini che descrivono l’educazione forzata alla quale sono sottoposti, allo stesso modo (?) bambini e cani poliziotto. Come a dire che l’educazione è sempre un poco coatta. Il video è inserito nella compilation Animal Charm Videoworks Volume 3: Computer Smarts.
Questi tre titoli, così, tanto per delineare in linea di massima uno stile davvero complesso da raccontare con le parole.
http://youtube.com/user/therealanimalcharm
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Soundtrack: Martin Siewert
Bella questa monografia dedicata alle sonorizzazioni del viennese Martin Siewert, una selezione che ha dato modo di vedere alcune opere davvero interessanti di autori provenienti dall’area della mittle europa. Gustav Deutsch, Jan Machacek e, con ben tre opere, Michaella Grill. Cinque lavori che compendiano in maniera chiara le differenti forme delle collaborazioni e le diverse attitudini dei registi proposti, tutti e tre d’assoluto valore sia artistico che tecnico.
– Film Ist # 9 . Regia: Gustav Deutsch (AUT/2002).
Film Ist è un progetto giunto nel 2002 alla sua seconda parte (capitoli dal 7 a 12), è una serie suddivisa in dodici capitoli composta al suo interno da una serie variabile di piccoli frammenti di cinema delle origini, recuperati e restaurati dai cinque archivi di pellicole che hanno collaborato alla realizzazione di questo complicato progetto diretto da Gustav Deutsch (uno dei più importanti filmmaker europei viventi). Recuperati e restaurati ma inevitabilmente muti i film vengono accompagnati dalle melodie lunari ed elettriche di Martin Siewert. Il SonarCinema estrae i quattro elementi che compongono il capitolo numero 9, denominato conquest , Deutsh vira il colore alla maniera di molto cinema dei primi trent’anni della sua storie e monta fra loro delle micro-narrazioni autonome. La conquista è quella della locomotiva a vapore (9.1), quella del cielo da parte dell’uomo con il dirigibile (9.2), quella della carne sullo spirito, del bianco sul nero, dell’uomo sulla bestia (9.3), e poi la conquista del campo nemico da parte di eserciti che dapprima si affrontano alla baionetta e poi via via in un crescendo bellico giungono a fronteggiarsi con meccanici strumenti da guerra (9.4).
– Erase Remake . Regia: Jan Machacek.
– Hello Again . Regia: Michaella Grill.
– Trans . Regia: Michaella Grill.
– Cityscapes . Regia: Michaella Grill.
Scorci urbani d’inizio 900 quasi impercettibili, sporcati da una patina digitale che li rende appena visibili. L’effetto ricercato da Grill sembra puntare alla materializzazione della distanza temporale che ci separa dalla cattura d’una imprecisata città d’inizio secolo.
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Kuvaputki
Regia: Edward Quist. Musiche: Pan Sonic. Montaggio Wargula. Durata 35′ . 2008.
Il primo lavoro in DVD mai pubblicato dai Pan Sonic, già questo dato fa del lavoro in questione un evento, è il risultato della collaborazione intercorsa fra il duo finlandese e l’artista digitale Edward Quist che ha prodotto per loro una complessa immagine d’un raggio catodico come accompagnamento ai suoni astratti da loro generati in una performance live della quale emergono vaghe immagini dei due. Ilpo Väisänen and Mika Vainio sono i soli protagonisti di questo interessante esperimento audio che a dispetto di quanto ci si potrebbe immaginare evita il ricorso alla sincronizzazione di suono ed immagine, le due colonne (audio e video) corrono autonome per sviluppo e struttura. Un prodotto assolutamente in linea con lo stile Pan Sonic, essenziale, minimale e molto noise.
Hazmazak
Regia: Edward Quist. Musiche: Del Marquis & Edward Quist. Durata 5′ . 2008.
La passione, fissazione, di Edward Quist per la ripresa degli elettroni osservati in un tubo vacuo (il fenomeno fisico che permette la generazione dei raggi catodici) torna anche in questo breve lavoro che illustra una variazione sul tema di quanto espresso nel precedente lavoro.
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In Transit
In transito e di passaggio, ed estensivamente il viaggio e la trasformazione, questo il tema scelto come filo rosso di congiunzione per tre cortometraggi che in modi differenti si misurano con il movimento e la prospettiva.
Please Stand Back di Stadtmusik (2007) si rapporta allo spazio architettonico della città considerandolo quale forza motrice dei processi che lo compongono. Lo spazio è letto come una sovrapposizione di immagini fotografiche entro cui muovere il proprio punto di vista e dove la dinamica fra movimento dell’occhio che guarda e la prospettiva che lo contiene assume tratti differenti dal dato reale.
fourtythousand3hundred20 memories diretto da AGF e Sue Costabile (2006) ci depista illudendoci d’essere ad un passo dalla sue comprensione facendoci seguire un viaggio del quale però ben presto ci sfuggono i confini.
Kaamos Trilogy di Mia Makela (aka Solu) è una riflessione sulla luce, o la sua assenza. Un viaggio attraverso le tenebre nel freddo del nord della Finlandia. ‘Kaamos’ è un termine finlandese che descrive i mesi senza sole dell’emisfero nord, quando la luce è una rarità.
http://www.sixpackfilm.com/catalogue.php?oid=1613&lang=en