La versione inglese di questo testo è stata pubblicata sul libro ideato dall’artista belga Boris Debackere e curato insieme ad Arie Altena “The cinematic experience” per Sonic Acts XII, in cui I testi di nove autori e dieci interviste, riflettono sul cinema, sulla sua essenza e le sue modalità di produzione.
Il cinema non narrativo, non hollywoodiano, non commericalizzato è al centro delle riflessioni di teorici, artisti e critici che cercano di focalizzarsi sul tema centrale dell’esperienza per indagare quail sono le strade che il cinema ha percorso e sta percorrendo, quail sono gli strumenti di cui si dota, attraverso quail meccanismi (fisici, sensoriali, psicologici) coinvolge lo spettatore. Il libro è il risultato di una ricerca condotta nell’ambtio dell’accademia Sint Lukas di Bruxelles (dove Debakcere insegna), di due conferenze (la prima tenutasi al Vooruit di Gent durante il festival “Almost Cinema” e la seconda a Bruxelles durante l’ultima edizione del Festival Cimatics) e di Sonic Acts, che per una coincidenza di interessi quest’anno ha deciso di lavorare sul concetto di cinema ed ha per questo coinvolto nel suo programma la pubblicazione del libro.
Che cosa è cambiato nella fruizione delle immagini in movimento da quando abbiamo a che fare con webcams, telecamere di video sorveglianza, video blogs e web-communities come YouTube, dispositivi portatili che diventano piccoli cinema personali e schermi domestici sempre più sofisticati che portano il cinema dentro casa? Cosa ci aspettiamo quando andiamo al cinema per assistere a un film in cui la narrazione di fatti è funzionale alla proiezione di effetti speciali in cui i sensi stessi del pubblico entrano a far parte del film? E quando invece ci ritroviamo davanti a una proiezione o a un’installazione video in una grande mostra periodica internazionale di arte contemporanea come la Documenta di Kassel o la Biennale di Venezia? Possiamo parlare di cinema quando ci ritroviamo immersi in una performance Audio/Video? Cosa rende la fruizione di una narrazione audiovisiva (oggettiva o non oggettiva) un’esperienza cinematica? In che genere di ambientazione il Cinema si interseca con le arti visive? Queste domande invitano tutte a riflettere sul Cinema e la sua collocazione: spazi di display, screening ed esibizione.
Una chiave di lettura che mettendo al centro della sua analisi la fruzione, porta ad osservare una deriva di due entità diverse: il Cinema da una parte, e con esso l’industria cinematografica che lo sostiene; le Arti Visive dall’altra, e con esse il sistema dell’Arte Contemporanea in cui queste vengono esibite, vendute e messe in mostra. L’ambiente, come involucro che contiene le immagini in movimento ma anche come spazio della percezione dello spettatore/osservatore, è il punto in comune di queste due derive.
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Avanguardie e Neoavanguardia
La ricerca volta a un’approssimazione sempre più radicale al coinvolgimento dello spettatore all’interno dell’opera risale però alle Avanguardie Storiche. Dallo “Spazio Proun” costruttivista di El Lisitskij, presentato nel 1923 all’Esposizione Universale di Berlino, in cui l’opera si fa ambiente interamente progettato dall’artista, al “Merzbau” di Schwitters, l’opera assemblaggio in perenne evoluzione realizzata nella casa stessa dell’artista di Hannover. Negli stessi anni le ricerche ed i progetti di Gropius nel Bauhaus e del regista Erwin Piscator portano all’immaginazione del “Total Theater” (1927), una macchina narrativa che coniugasse il teatro con l’utopia dell’Arte Totale, in cui lo spettatore venisse coinvolto in un ambiente stimolante a 360 gradi. Sempre nel Bauhaus, Laszlo Moholy-Nagy , che aveva collaborato anche come scenografo ai progetti di Erwin Piscator, intraprende le sue ricerche nell’ambito della fotografia e poi del cinema, per poi teorizzare l’unione delle arti in un ambiente totale grazie alle nuove tecnologie sceniche per immagini, suono e movimento. Nei suoi testi teorici, l’artista ungherese studia le relazioni tra gli elementi sonori e quelli grafici soprattutto nell’ambito del cinema astratto: in “Produktion Reproduktion” pubblicato sulla rivista modernista “De Stijl “, parla della possibilità per i registi cinematografici di registrare il proprio suono per i film (usando la tecnologia per i tempi nuova degli LP), eliminando così la dipendenza dagli esecutori dal vivo; nei primi anni Trenta si dedica alla produzione di film astratti come “Lichtspiel schwarz weiss grau” ( 1930 ) e “Tonendes ABC” ( 1932 ), in cui si serve delle sperimentazioni di Pfenninger sul suono sintetico , sulla strada della ricerca di un ” nuovo alfabeto musicale”. A partire dagli anni Venti Moholy-Nagy sperimenta anche nuove tecniche di riproduzione audio/visiva, teorizzando le potenzialità del “Cinema Simultaneo” o del “Policinema” con la progettazione di schermi speciali che consentissero la proiezione simultanea o intrecciata di più narrazioni, o la creazione di uno schermo stereiforme che consenta una maggiore immersione dello spettatore .
Parallele alle ricerche spaziali di Nagy, vanno ricordati i progetti di proiezione del regista francese Abel Gance, che per il suo “Napoleon” (1926) sperimenta la “Polyvision”, la proiezione cioè su tre schermi giustapposti, messa a punto insieme al suo direttore della fotografia Debrie, che allargava la percezione e permetteva una narrazione non lineare ma multisensoriale del film.
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La ricerche e sperimentazioni sul coinvolgimento totale dello spettatore continuano ed evolversi specialmente nel Secondo Dopoguerra, in ambito strettamente legato alle arti visive ma anche nel contesto del Cinema più tradizionale. Nel 1946 l’artista italiano Lucio Fontana firma a Buenos Aires il “Manifiesto Blaco”: “Abandonamos la pratica e las formas de arte conocidas y abordamos el desarrollo de un arte basado en la unidad del tiempo y espacio […] Color, el elemento del espacio, sonido, el elemento del tiempo, y el movimiento que se desarrolla en el tiempo y el espacio, son las formas fundamentales del arte nuevo, que contiene las cuatro dimensione de la existencia”. L’arte dell’uomo contemporaneo è basata sulle dimensioni della sua esistenza dice Fontana – in cui su spazio e tempo hanno un ruolo predominante. Lo “Spazialismo”, di cui l’artista italiano firmerà un manifesto l’anno successivo, implica il coinvolgimento dell’essere umano in una struttura che propone immagini, movimento, suono e tempo. Nel 1949 l’ “Ambiente Spaziale” è la rappresentazione fisica di questa ipotesi. Fontana lascia pittura e scultura per costruire un ambiente: un Black Box in cui la presenza di luci al neon ed elementi dipinti con pittura fosforescente aprono all’osservatore la percezione dello Spazio e di una diversa Dimensione, che oggi potremmo definire virtuale, non fisica cioè ma realizzata nella percezione e nell’esperienza dell’osservatore.
La ricerca di Fontana inaugura alcuni decenni di sperimentazioni radicali in cui gli artisti coinvolgono costantemente la percezione dello spettatore attraverso lo studio scientifico della percezione sensoriale umana, l’uso delle tecnologie e la progettazione di spazi riempiti di movimento, tempo, spazio. Dagli anni Cinquanta l’Arte Cinetica e Programmata attraversa le ricerche avanguardiste europee attraverso la costruzione di ambienti in cui luci, immagini, ilusioni ottiche, suoni, movimenti collaborano in sinestesia per interagire con l’osservatore ed alterarne la percezione: una sorta di narrazione cinematografica astratta tridimensionale, che ha significato solo all’interno dello spazio per la quale è progettata. GRAV a Parigi, i Gruppi T ed Enne, Vasarely e Julio Le Parc fanno parte di questa avanguardia che usa le macchine per la produzione estetica e che avrà il suo culmine e la sua decadenza negli anni Sessanta, quando negli Stati uniti sarà commercializzata e prodotta come Optical Art per poi essere poco a poco offuscata dal successo commerciale della Pop Art (e quindi il ritorno alla produzione del manufatto artistico vendibile: non ambienti ma pittura, scultura, oggetti).
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Parallele alle ricerche Cinetiche e Programmate, il Cinema Sperimentale porta avanti proprio in quegli stessi anni una decostruzione interna del suo significato, che apre poi le porte alle ricerche della videoarte. A Parigi il cinema Lettrista inaugura questo processo immaginando una differente impostazione ambientale in cui il cinema venga fruito. Il poeta, critico, artista e tuttologo Isidore Isou, padre del Lettrismo, nel 1950 firma un film intitolato ” Traité de bave et d’éternité “, in cui decostruisce la narrazione oggettiva, usa il montaggio discrepante e punta sulla centralità del suono e della sua esperienza percettiva. Qualche anno dopo con “Le film est dejà commencé?”, Maurice Lamaitre distrugge lo schermo convenzionale e la bidimensionalità del Cinema proiettando la pellicola sulle pareti laterali, sul soffitto, sul corpo degli spettatori, trasformando il cinema in una performance alla quale partecipano anche attori nascosti tra il pubblico. Ancora una volta è l’ambiente della proiezione ad essere messo in causa, secondo una modalità che porterà negli anni successivi Lemaitre a mettere a punto quello che chiama “Sincinema” (con il film “Un soir ai cinéma” del 1962) in cui lo schermo era riempito di oggetti e la proiezione era accompagnata dall’installazione di uno schermo televisivo nel centro dalla sala e di una serie di proiezioni di diapositive sul soffitto e sulle pareti.
Le esperienze successive del cinema Lettrista puntano alla destrutturazione della sala cinematografica e della costruzione narrativa del cinema commerciale basata sulla supervalutazione delle immagini rispetto al suono: la vera esperienza cinematica passa, secondo Isou, sul coinvolgimento dello spettatore e di tutti i suoi sensi. Negli anni successivi il cinema Situazionista di Gil J. Wolman e Guy-Ernest Debord evidenzia l’aspirazione al superamento dell’arte cinematografica: in ‘”Anti-concept” (presentato al Festival di Cannes nel 1952) una sola immagine – un cerchio bianco realizzato a mano sulla pellicola – e un’alternanza di bianchi e neri sono proiettati su uno schermo sferico mentre scorre una colonna sonora composta di frasi spezzate e poemi lettristi: ogni elemento di rappresentazione è azzerato, e del cinema si esibiscono la durata e lo spazio in cui è proiettato.
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La Videoarte e lo sviluppo delle ricerche in ambito artistico più prettamente focalizzate nella produzione audiovisuale portano artisti e producers a interrogarsi sugli spazi e le modalità di display dei loro lavori. A differenza delle avanguardie degli anni precedenti però, non si punta a decostruire il linguaggio cinematografico (come i Lettristi ed i Situazionisti) o a lavorare alla costruzione di ambienti sensibili in cui lo spettatore non è solo osservatore passivo, ma elemento attivo e centrale del gioco percettivo dell’opera (Arte Cinetica e Programmata), ma piuttosto a ragionare sulla natura del cinema e sulla possibilità di fruirlo al meglio.
Questo il nucleo della ricerca realizzata nella costruzione, nel 1970, dell’ “Invisible Cinema”, una sala cinematografica disegnata a New York a dal film-maker austriaco Peter Kubelka e costruita nella sede dell’ Anthology Film Archives, centro di ricerca e diffusione sul cinema sperimentale e di avanguardia che ha iniziato ad operare a New York a partire dagli anni Sessanta con il coordinamento di Jonas Mekas. Secondo Kubelka, la qualità del film non dipende solo dalla qualità di pellicola, cineprese e proiettori, ma anche dalla sala in cui il Cinema è proiettato, che dovrebbe essere una macchina perfetta disegnata per guardare films. Il “Cinema Invisibile” era quindi la sala cinematografica perfetta, in cui lo spettatore si trovava coinvolto solo nello schermo, senza altri tipi di distrazioni esterne allo svolgimento della pellicola. Uno spazio in cui i sensi umani venivano tutti concentrati nel film ed in cui input esterni erano totalmente cancellati. Costruito con arredi neri, materiali neri insonorizzanti, sedili neri in cui ogni spettatore era diviso con un pannello nero dal suo vicino ed in cui non ci fossero riflessi o altre luci che avrebbero distratto la concentrazione dello spettatore, l’ambiente dell’ Invisible Cinema diventa quindi lo spazio in cui realizzare un’esperienza sensoriale completamente rivolta alle immagini in movimento ed al suono. In altre parole, il Black Box perfetto.
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Cinema e Installazioni
Da grandi contenitori suddivisi in white cubes, gli spazi dedicati all’arte si stanno evolvendo in serie di black boxes pronti all’installazione di progetti video, cinema e new media art. Basta osservare le principali esibizioni internazionali di arte contemporanea che sembrano quasi esclusivamente dedicate all’esibizione di progetti video a discapito di media più tradizionali come pittura o scultura. L’esempio probabilmente più calzante è la penultima Documenta di Kassel curata nel 2002 da Okwui Enwezor, che da un punto di vista prettamente curatoriale ed installativo è anche ricordata come la “600-hour Ducumenta” a causa dell’imponente presenza di progetti audiovisivi e cinematografici. La presenza di videoinstallazioni, film, video, documentari, documentazioni era evidente a tal punto che il dibattito critico internazionale si è focalizzato più che sulla natura dei lavori presentati, sulla scelta di proporre tali progetti all’interno di una rassegna di arte contemporanea e sull’opportunità di definirli “Arte Contemporanea”. In una recensione postata su “Nettime” nel giugno 2002, Lev Manovic commenta ironicamente che aggirandosi per le sale espositive della Documenta XI aveva l’impressione di vagare per un multisala per artisti con la A maiuscola che presentavano “videoinstallazioni”, il cui format standardizzato consisteva in una proiezione in una piccola stanza.
A differenza del cinema commerciale vero, ed a causa dello statuto di “serious art” della Documenta, gli screenings non erano provvisti di Dolby Surround, le sedie erano scomode e non si poteva entrare con una coca cola in mano dice Manovich in maniera grossolanamente provocatoria. Estremizzazione più che pertinente se si pensa al limite oggettivo di presentare progetti di cinema sperimentale negli spazi dedicati all’arte contemporanea sprovvisti di mezzi adeguati a un’installazione ottimale e anche e questo va ricordato a discapito dei curatori sprovvisti anche di una lungimiranza ed attenzione a questioni più puramente concrete (tecnologiche ed installative ma anche di mera comodità nella fruzione da parte degli spettatori).
La crescente partecipazione di film-makers e video-producers all’interno del contesto dell’Arte Contemporanea è un altro elemento da considerare, riflettendo sul fatto che forse il filmmaker che agisce nel mondo dell’arte possiede una libertà espressiva e procedurale estranea al sistema Cinematogafico tradizionale. La lista potrebbe essere infinita. Pensiamo ad esempio all’artista finlandese Eija Liisa Astila, che nella sua installazione “The House”, presentata alla già ricordata Documenta Xi di Kassel, propone tre screenings giustapposti che formano una sala sensibile dove lo spettatore può seguire al contempo le azioni della protagonista del video, la sua e l’ambiente della sua casa lasciato vuoto. Le installazioni – sempre perfette – di Steve Mcqueen, dal video “Caribs Leap / Western Deep” (2002), presentato alla Documenta XI e reinstallato in maniera ineccepibile durante la personale dell’artista presso la Fondazione Prada di Milano (dicembre 2005), in cui la narrazione documentaristica lascia lo spazio a una costruzione in cui lo spettatore si sente fisicamente partecipe del viaggio nelle viscere della terra insieme ai minatori Sud Africani. Che l’artista britannico abbia una tensione verso la costruzione di ambienti lo dimostrano la natura sempre diversa e cinematica delle sue video installazioni, ma in particolare dall’installazione “Pursuit”, del 2005. Una stanza completamente privata di illuminazione che lascia intravedere solo delle luci fioche proiettate da un video installato al centro della sala e riflesso dagli specchi che ricoprono tutte le pareti: lo spettatore accede e perde qualsiasi coscienza spaziale per lasciarsi andare a un’esperienza di spaesamento fisico quasi onirica. L’artista svizzera Pipilotti Rist costruisce a partire dagli anni Novanta installazioni Audio/Video in cui l’ambiente gioca un ruolo centrale. Nel 1995 posiziona uno schermo nell’angolo di una stanza per guidare lo spettatore all’interno della sua video installazione “Sip my Ocean”.
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Nel 2005 partecipa alla Biennale di Venezia con una videinstallazione dentro la chiesa di San Stae: lo spettatore entra nella chiesa buia, deve togliersi le scarpe e sdraiarsi su materassi predisposti sul pavimento per immergersi nel video “Homo Sapiens Sapiens” che ricopre interamente il soffitto della chiesa come se fosse una pittura in movimento ed essere sommerso dal suono che viene amplificato dall’architettura rinascimentale della chiesa. La “LSP – Laser Sound Performance” del media artista olandese Edwin Van der Heide (2005) si basa sulla composizione di segnali che abbiano una struttura sia musicale che visuale; questa combinazione viene realizzata connettendo suono e input visuali creati da raggi laser. Il punto centrale della performance consiste però non (solo) nella sinestesia, ma piuttosto nel cercare di dare una materialità spaziale, e quindi tridimensionale, ai segnali A/V trasmessi. LSP crea un abmiente di inputs audiovisivi che circondino lo spettatore: l’audio è nell’aria, il video non si risolve sullo schermo, ma nell’ambiente stesso grazie all’uso del laser che attraversa e si rifrange in uno spazio appositamente riempito di nebbia o fumo; lo spettatore è al contempo circondato da suoni e immagini.
Sembrerebbe quindi che proprio gli artisti mettono in crisi il modello del cinema narrativo oggettivo dell’industria commerciale cinematografica, proponendo nuove grammatiche di produzione e installazione. Il contesto delle Arti Visive si configurerebbe quindi come contesto in cui gli artisti possono realizzare le loro idee più radicali e ripensare e mettere in discussione il Cinema in stesso?
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Black box come spazio dell’esperienza
Tutte le esperienze qui sopra brevemente accennate sono riconducibili a un fattore comune, che ha a che vedere con lo spazio della fruizione e con l’esperienza dello spettatore, vero e unico protagonista. E dagli studi di Psicologia Comportamentale ne giunge la conferma che sembra dare un senso a questa sinossi che ha tentato di congiungere Arte e Cinema ed esperienza: il termine Black Box si riferisce nel contesto della Neuropsicologia e degli studi del comportamento, a una parte della mente umana in cui gli stimoli esterni (ambientali) vengono veicolati per poi dare luogo alle risposte (comportamentali). Un’area neutra di ricezione degli stimoli esterni insomma, proprio come lo spazio cinematico perfetto, in cui sperimentare sui propri sensi suono, immagini, tempo e movimento.