La tecnologia ci “invade”, ma dobbiamo “guidarla” per ottenere esiti positivi dal suo utilizzo. Come reagire però quando “si innesta nella nostra carne”, quando con “tessuti artificiali” entra a far parte del nostro organismo, oppure quando avremo a che fare con un'”intelligenza artificiale”, con “bioputer”, ovvero cpu spalmate su tessuti cerebrali sintetici che ne sfruttano l’enorme potenziale connettivo? Nel saggio apparso nel novembre 2004 “Future S&T management policy issues-2025 global scenarios”, sulla rivista Technological Forecasting and Social Change, Jerome Glenn e Theodore J. Gordon riprendono alcuni dati dal rapporto del 2003 “State of the Future”, pubblicato da The American Council for the United Nations University. Gli autori sintetizzano in quattro orizzonti i futuri sviluppi del rapporto tra società, tecnologia e scienza.
Il primo scenario è quello di una realtà tecnologica che riuscirà ad autoprodursi, il secondo considera la tecnologia come un fattore che contribuirà alla potenza distruttiva di singole persone o gruppi marginali nei confronti di grandi fette di popolazione (Single Individual Massively Destructive nella sigla SIMAD), il terzo prevede uno scontro istituzionale tra corporate con attività e prodotti prodotti a tecnologia avanzata e gli organi di governo per la gestione di alcuni incidenti, ad esempio alcuni provocati da organismi geneticamente modificati, da armi di distruzione di massa, da finanziamenti verso paesi poveri erogati a settori che non solo vanno contro l’utilità pubblica, ma nuocciono alla popolazione stessa, la quarta ed ultima tendenza evidenzia come la scienza, passata la sua età dell’oro in cui veniva accettata quasi incondizionatamente, andrà sempre più incontro a reazioni opposte (backlash) di rifiuto, a volte aprioristico, che intaccheranno sempre più la sua legittimità nei discorsi sociali.
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L’aumentata pervasività e l’incremento di potere della tecnologia e della scienza dovranno essere mediate da un numero sempre maggiore di organizzazioni, dalle assemblee consultive, dalle agenzie governative nazionali e da organizzazioni scientifiche internazionali, passando da un numero sempre maggiore di codici deontologici e di autoregolamentazione, ricorrendo sempre più allo strumento dell’educazione scientifica fin dalle scuole dell’obbligo; una pedagogia che si proporrà come scopo l’accrescimento del grado di consapevolezza dei futuri scienziati e dell’opinione pubblica. Esistono inoltre due principali scuole di pensiero di geopolitica scientifica: la prima sostiene che i rischi della scienza verranno regolamentati a catena grazie all’intervento responsabile di alcuni paesi potenti che fungeranno da esempio, la seconda invece rivendica l’istituzione di commissioni internazionali di vigilanza con elevati poteri d’intervento.
La linfa vitale che servirà alla riduzione del rischio sarà innanzitutto l’etica dell’informazione, un campo di studi che va dalla filosofia fino alla bioetica e che in certe nazioni come gli Stati Uniti e la Germania sono già discipline universitarie. Dalla divulgazione al “farsi della scienza” attraverso le riviste specializzate (“il farsi della scienza” riprende il sottotitolo di un’opera di Bruno Latour, di uno dei più importanti sociologi della scienza) la circolazione dell’informazione dovrà seguire codici etici che tengano conto di diversi strati sociali e soprattutto, come fa notare recentemente il filosofo uruguaiano Rafael Capurro, di tradizioni non più da una prospettiva diacronica eurocentrata, ma anche sincronica, coinvolgendo diverse tradizioni di pensiero come il buddismo, l’etica confuciana e l’Islam. Le tecnologie dell’informazione, come sosteneva Foucault, sono una parte del sé, di ogni sé.