L’epopea di Gilgamesh è una delle più antiche leggende del mondo e narra di temi fondamentali come l’amicizia, la morte e la ricerca dell’immortalità. Racconta di un viaggio, compiuto da due eroi (un re semidio e un essere saggio ma dalle sembianze ferine), in cui non solo uno dei due dovrà morire, ma anche il secondo andrà incontro al fallimento del suo scopo e a una conseguente, amara, presa di coscienza del suo stato di essere perituro. E’, come le altre leggende, una parabola delle problematiche con cui l’umanità si confronta da secoli e che sono state rielaborate nelle forme narrative più svariate.
Partendo dal mito, il giovane artista olandese Bastiaan Arler ha provato a ripercorrere le orme di Gilgamesh al giorno d’oggi, compiendo una performance di 6 giorni e riassumendola in My Name is Gilgamesh, un video di 16 minuti. L’azione si è svolta in bilico tra il tentativo d’immedesimazione con l’eroe, attraverso la decisione di privarsi quasi completamente del sonno (una delle prove dell’eroe Gilgamesh e, per una singolare coincidenza, una delle precedenti performance dell’artista) per raggiungere alterazioni percettive, e il palese rovesciamento dell’auraticità dell’impresa, con la scelta di farsi riprendere tra e dai passanti, quasi che il mito si ribaltasse in un atto radicato all’interno della società e non destinato a spazi speciali (il tempo sospeso della leggenda da una parte e le gallerie come spazi privilegiati per le performance dall’altra).
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Così, l’immaginario mitico si stempera nel quotidiano e acquista nuove implicazioni nell’attualità: il novello Gilgamesh/Bastiaan attraversa l’oceano in aereo e da Milano arriva a New York con il suo compagno di viaggio e alter ego l’orsacchiotto. Nella città simbolo del nuovo mondo e di una nuova schiera di (super)eroi, tutti i personaggi e le situazioni del mito trovano una loro compiuta corrispondenza: le statue degli dei e del toro che Gilgamesh deve affrontare, la foresta di cedri (a Central Park) e le montagne alte fino al cielo e dalle radici che raggiungono il regno dei morti, che si trasmutano nella presenza memoriale delle Twin Towers a Ground Zero. Come Gilgamesh, Bastiaan dovrà perdere il suo compagno (a cui darà degna sepoltura dopo averlo cosparso di latte e cereali simili a fiorellini) e vagherà alla ricerca di una verità sfuggente, nascosta (o paradossalmente implicata?) dagli slogan vuoti di Times Square.
Il filmato, praticamente privo di effetti speciali e di parlato, con solo commento musicale, utilizza a tratti lo split screen e riporta i passi salienti dell’epopea in baloons e riquadri che ricalcano l’impostazione dei fumetti.
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Dalla strutturazione del medium ai riferimenti visivi, dunque, My Name is Gilgamesh rappresenta il mito attraverso una performance che costruisce paralleli e contrapposizioni rimanendo saldamente radicata nell’immaginario attuale. A partire dalla scelta di sviluppare la “prova” nella megalopoli che, più che mai, corrisponde a quello che era Babilonia nell’antichità, con la sua folla onnipresente (e tipica anche dei fumetti), per passare alla spada di luce (che forse ricorda quella dello Jedi?) e alla sepoltura di un alter-ego/simbolo rassicurante dell’infanzia, per finire con la perdita non dell’illusione dell’immortalità, come per Gilgamesh, ma della stessa possibilità di trovare un senso nella realtà, imprigionata da indecifrabili labirinti semantici…
http://www.arler.net