Se si pensa al Quantified Self, quasi chiunque in Occidente sa cos’è o ha almeno un’idea di cosa possa essere: auto-ottimizzazione e self-tracking sono concetti diffusi da parecchio tempo, che procedono sempre più al limite tra il “diventare più produttivi” e la totale esposizione dei dati privati. Il discorso scientifico attorno a questo argomento mostra un quadro generale di eccitazione e panico – da un lato gli studiosi sostengono che il self-tracking, come ad esempio il conteggio dei passi, spinga gli utenti ad adottare un comportamento più sano.
I social media inoltre ci permettono di comunicare con amici in giro per il mondo. Ma dall’altro lato, la condivisione, il tracking e l’auto-rappresentazione online sono diventati quasi un’ossessione per la maggior parte dei giovani, portando ad una profusione di documenti scientifici incentrati sul comportamento online. Tutti si pongono la stessa domanda: perché vogliamo convertirci in numeri? Perché le statistiche dei social media contano così tanto per noi? E ancora, chi trae beneficio dai dati che carichiamo giornalmente?
Poiché il “Quantified Self Movement”, come viene chiamato, non è né uno status generale della società né un movimento che interessa il singolo individuo in ogni paese, è più appropriato definirlo una “cultura”, come suggerisce Deborah Lupton, autrice del libro “The Quantified Self “(2016). L’autrice, inoltre, in questo libro dichiara che il Quantified Self non è solo una pratica di auto-miglioramento, ma anche un’estensione della memoria in forma computerizzata.
Il concetto di estensione della memoria mi riporta in mente un’immagine stranamente appropriata della serie di Netflix Black Mirror: nella seconda stagione, un uomo muore in un incidente d’auto e la fidanzata addolorata viene indotta a comprare una replica robotica del suo compagno. Grazie ai dati e al comportamento del ragazzo registrati online in passato, il robot è capace di agire e di parlare come lui. Nonostante la possibilità di replicare un individuo nella sua totalità solo utilizzando i dati come fonte sia piuttosto improbabile, l’episodio appena menzionato mi suggerisce un’idea brillante.
La storia del cinema è densa di film che profetizzano la presa di potere dei computer o di persone che hanno il controllo dei nostri dati privati – a partire da 2001 – Odissea nello spazio, proseguendo con Matrix, fino alla recente serie Altered Carbon. Utilizziamo la tecnologia per migliorarci, per perfezionare le nostre abilità, pagando il prezzo di rendere pubblico tutto ciò che ci riguarda. Inoltre, ci fidiamo dei computer al punto da non riuscire più a vivere senza, lasciando che abbiano il controllo di ciò che facciamo e di come lo facciamo.
Giochi, film, moda, arte e letteratura sono sempre stati fonte di ispirazione per l’innovazione tecnologica, e dal mio punto di vista, sono convinta che l’arte, in tutte le sue forme sopra citate, sia stata più di una volta una musa per l’innovazione tecnologica. Gli artisti si trovano spesso in uno stato mentale in cui i confini del mondo non contano e che gli concede la libertà di immaginare scenari che anticipano il loro tempo. Un esempio è HAL nel film 2001 già citato, un altro è quello della fashion designer austro-belga Flora Miranda.
Come tutti sappiamo, nel film degli anni sessanta 2001- Odissea nello spazio è un supercomputer di bordo a prendere il controllo di una navicella spaziale – ma perché citare anche Flora Miranda? Questa artista traduce i dati e l’intera idea di corpo immateriale in moda: nella sua prima collezione, con la quale si è laureata alla Royal Academy of Fine Arts, ha immaginato il corpo proiettato in uno stato di smaterializzazione.
L’aspetto complessivo di questa collezione ricorda molto il film Matrix. Flora Miranda guarda al mondo in maniera diversa e lo proietta nel futuro, attitudine che l’ha guidata nella creazione della sua ultima collezione, presentata alla Paris Haute Couture Fashion Week di luglio 2018. In questa occasione l’artista ha presentato abiti storici scannerizzati in 3D, ha lasciato che un algoritmo interpretasse i dati e li traducesse nel mondo reale – in nuovi capi futuristici. Ma come funziona la scansione 3D? Durante il processo, un oggetto viene fotografato da ogni angolazione possibile e, creando le cosiddette “nuvole di punti”, il computer è capace di ricreare l’oggetto tridimensionale in digitale.
Ciò che appare sullo schermo è la rappresentazione digitale della superficie dell’oggetto fatta di dati. Flora Miranda utilizza questi dati per costruire un modello 3D di un nuovo abito. Il risultato dell’intero processo è al tempo stesso ipnotizzante e disorientante: il nome della collezione è Ready to Die; l’artista riporta in vita i vestiti “morti” del museo ricreandoli con fili di silicone, catapultando il pubblico in un inquietante mondo futuristico. Miranda non solo affronta il lato affascinante della rete e l’idea di poter diventare eterni online, ma permette anche ai suoi clienti di fare un passo verso il futuro attraverso la moda.
Oltre a collezioni di alta moda, l’anno scorso ha anche lanciato una linea di abbigliamento prêt-à-porter composta da t-shirt con versi di canzoni ricamati in lana merino e filo iridescente. Il colpo di scena in questo caso è che i testi sono personalizzati, e vengono scelti appositamente da un algoritmo che analizza l’attività del cliente su Facebook. Al momento sono disponibili le liriche del musicista finlandese Jaako Eino Kalevi; l’intero processo di realizzazione dei capi è automatizzato e digitale.
Flora Miranda dimostra che i dati non sono entità morte e possono essere molto più che numeri nel cyberspazio. Il processo di produzione di queste magliette è anche sostenibile, dal momento che ogni abito viene realizzato solo su ordinazione. Ogni pezzo non è un prodotto di lusso solo per via del design unico e della lana pregiata, ma anche perché vi è dietro un intero processo di produzione digitale personalizzata. Flora Miranda è un ottimo esempio di cosa significa lavorare con i dati e con il nostro futuro.
I dati sono ovunque; ogni cosa vive di dati e può essere tradotta in dati. Potrebbero esserci opinioni scientifiche divergenti sul perché dovremmo o non dovremmo convertirci in numeri, ma io penso che i dati siano molto di più. Internet è composto dai nostri dati e dopo averlo implementato in quasi ogni aspetto della nostra vita, essere convertiti in numeri è diventato inevitabile. È un fenomeno che non possiamo vedere e non possiamo sentire, ma è lì, e gli abbiamo costruito attorno una cultura, quella del Quantified Self.
È importante parlare dei pericoli dell’auto-quantificazione, ma, come ci insegna la storia, quando qualcosa perdura per così tanto tempo e viene incorporata nelle nostre vite in maniera così radicata, dovremmo iniziare ad immaginare il futuro che la tecnologia porta con sé, proprio come fa l’arte da oltre 50 anni. Non dovremmo farci intimidire dall’infinità e dalla mancanza di controllo di internet; la rete ci offre così tante possibilità e nuovi modi di vivere che vederli solo come un semplice strumento non renderebbe giustizia a ciò che sono i dati digitali.
Nonostante internet e il dibattito sui dati esistano ormai da molto tempo, per me è come se fossimo ancora dei pionieri in fase di esplorazione. Ciò che penso dei dati è che ci potenziano; che li usiamo per il nostro bene, per creare, immaginare, innovare, per essere lungimiranti. Non dobbiamo averne paura: noi abbiamo creato internet e, in un certo senso, internet sta ricreando noi.