Gianluca Monaco è Visual Interaction Designer a Lava Lab (Amsterdam) e cofondatore di Studio Super Santos (Italia). Partendo dal suo background in design grafico e comunicazione visiva, il suo lavoro si è sviluppato sempre più nella sfera del digitale, tra interaction design e front-end development. Nel 2016 ha fondato insieme ad altri designer e sviluppatori Developers Developers Developers, una comunità aperta a tutti e dedicata alla promozione del dialogo e della collaborazione tra questi due mondi.
Da dicembre 2017 a febbraio 2018 la sua installazione Sole, Cuore, Amore – da RITMO a Catania ha dato la possibilità al pubblico di interagire con un monolite in grado di rilevare le parole pronunciate nelle immediate vicinanze e trasferirle ad una applicazione online, attraverso la quale sia i visitatori dello spazio che gli utenti online potevano comporre frasi e poesie, con l’aiuto di un sistema di scrittura sviluppato da Gianluca Monaco; un sistema che sovvertiva le dinamiche delle tastiere digitali predittive. I componimenti inviati dai visitatori venivano quindi stampati sotto forma di lungo scontrino sul retro del monolite. Una raccolta delle parole acquisite dal monolite e delle frasi elaborate dagli utenti è consultabile sul sito dell’artista.
Nella primavera del 2018 Gianluca Monaco ha partecipato alla mostra New Imaginaries for Crypto Design, metaphors and new images of the Deep Web al NeMe Arts Center di Limassol (Cipro). L’intervista con Gianluca Monaco è nata come dialogo e scambio d’idee e considerazioni, in un flusso di e-mail durante il mese di luglio 2018.
Mario Margani: Dopo aver visitato Sole, Cuore, Amore – da RITMO lo scorso febbraio mi sono ritrovato a “giocare” da casa con la pagina web del progetto, producendo frasi a partire dalle parole pronunciate dai visitatori nel corso della mostra e registrate dall’installazione monolitica. Il suggerimento o la predizione di termini in uso nei sistemi di messaggistica istantanea, ma anche nei motori di ricerca, influenza e semplifica il nostro vocabolario. Dal monolite di Kubrick, fonte di conoscenza e motore dell’evoluzione (e delle sopraffazioni) si passa così al tuo monolite, che esteticamente rimanda al primo, ma che riflette sul meccanismo opposto, quello della rimozione, dell’appiattimento verbale e intellettuale.
Con il tuo approccio speculativo obblighi il visitatore dell’installazione e del sito web a confrontarsi con questo appiattimento. Si tratta di una versione semplificata e giocosa di un meccanismo che su ampia scala influenza utenti, scrittori, giornalisti e utilizzatori del web a tutti i livelli. Nella marea dei social network la gara a livello commerciale e politico si gioca tra chi, utilizzando il massimo grado di semplificazione, raggiunge il maggior numero di utenti. Nonostante l’invasione quotidiana di immagini e la nostra abitudine a fotografare e rielaborare porzioni della realtà, nel momento in cui si entra nella sfera pubblica, la potenza della parola diventa ineluttabile. L’incipit del Vangelo Secondo Giovanni recita: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.” L’uso delle parole è cambiato, ma il Verbo è ancora il miglior strumento per appropriarsi e indirizzare il volere delle persone e, oggi, degli utenti?
Gianluca Monaco: La tua riflessione iniziale tocca già alcuni punti chiave. Anzi, direi che li centra in pieno. Sono felice che ci sia molta carne al fuoco: Sole, Cuore, Amore (o, ad essere precisi ) dopotutto è una scusa per intavolare una serie di discussioni. La tecnologia che semplifica il processo di scrittura su smartphone si chiama “predictive keyboard”. Per farla breve, i nostri telefoni sono programmati per imparare i nostri pattern di scrittura; si allenano cioè a prevedere quale sarà la prossima parola che useremo. In questo modo, lo sforzo creativo è delegato alla macchina, mentre noi compiamo uno sforzo sempre minore ed evitiamo pure di commettere errori.
Come hai giustamente osservato, la conseguenza di questo strumento è un appiattimento verbale e intellettuale. Noi diventiamo sempre più schiavi delle nostre stesse parole, servite belle e pronte da una macchina. Seguendo una rotta completamente opposta, per l’installazione ho sviluppato un sistema di scrittura che ho battezzato come “unpredictive keyboard”. Al posto delle solite previsioni e calcoli statistici, ho deciso di affidare la scelta delle parole al caso. A questo punto tutto è – di nuovo – possibile, anche due articoli determinativi di seguito. E poiché nulla è stato previsto, la scelta e la responsabilità tornano nelle mani – o tra le dita – dell’utente.
Chiunque ne abbia fatto esperienza ha percepito quest’operazione come una “versione semplificata e giocosa” della tastiera predittiva. Se ci pensi bene, l’installazione offre invece uno spettro ampio possibilità, dando persino all’errore una possibilità espressiva.
Ci tengo a precisare che l’idea degli accostamenti casuali non deriva soltanto da una riflessione sulla tecnologia. Sarà capitato a chiunque di trovarsi davanti ad un manifesto pubblicitario strappato in modo tale da vedere il vecchio manifesto sottostante. La giustapposizione fortuita di testi e immagini in certi casi aggiunge nuovi significati a quelli originali e intenzionali. Essendo affascinato dall’opera del caso, ho sempre prestato attenzione a questo genere di cose, sviluppando una sorta di sensibilità per gli accostamenti casuali.
Tornando all’installazione, ho provato a riprodurre uno strumento capace di generare meccanismi simili, in maniera ricorrente e molto più evidente. Trovarsi una volta davanti ad una combinazione inaspettata può essere divertente, ma il gioco finisce lì. Sono convinto che l’osservazione attiva del caso e la ricerca di senso nel nonsense siano invece un potentissimo allenamento mentale, a prescindere dall’utilizzo o meno della tecnologia.
Durante la mia formazione come progettista grafico, ho imparato che la parola scritta è immagine, e che l’immagine è linguaggio.
La parola e l’immagine, a prescindere dal supporto e dalle tecnologie, hanno sempre avuto il potere di influenzare le persone. Ciò che cambia drasticamente col passare del tempo e grazie al progresso tecnologico è il loro utilizzo. Sole, Cuore, Amore è un tentativo di rendere visibili quei meccanismi tecnologici da cui siamo dipendenti, attraverso la loro esagerazione. Solo quando saremo consapevoli dell’uso attuale della parola avremo gli strumenti per difenderci da essa.
Mario Margani: La possibilità espressiva di un nonsense o persino di un errore grammaticale, e più in generale di tutti quegli elementi che rallentano la comprensione immediata di un messaggio, si trasforma quindi in una strategia di resistenza linguistica alla meccanizzazione della comunicazione interpersonale, grazie a situazioni speculative come quella di Sole, Cuore, Amore che, oltre a diventare allenamento mentale, sono capaci di aumentare il grado di consapevolezza del ruolo di strumenti quali il “predictive keyboard” nel quotidiano. In maniera complementare, lo sviluppo di software per il riconoscimento vocale e la nascita degli Smart Speaker pur nella loro raffinatezza, plasmano il linguaggio orale dei loro utenti, sia il suono della propria voce che la scelta di determinati termini che evitano l’incomprensione uomo-macchina.
Un carattere che mi colpisce molto nella promozione degli Smart Speaker è la loro presupposta onniscienza, motivata dalla possibilità di poter attingere al database di informazioni presente online. Il rimando al carattere onnisciente si ritrova nell’estetica del monolite come oracolo, estetica ampiamente in uso nel design di prodotti IT e nell’auto-rappresentazione di molte aziende del settore. Il tuo monolite proietta la parola appena riconosciuta sul soffitto, e su un lato emette uno “scontrino” sul quale sono stampate in tempo reale le frasi composte dagli utenti online. Allo stupore iniziale fa seguito la scoperta, nella stanza adiacente, del vero “cervello”, cioè il sito online di Sole, Cuore, Amore per la composizione delle frasi e la loro trasmissione al monolite.
In un certo senso anche qui viene messo a nudo un meccanismo che, pur nella sua semplicità e unito all’atmosfera dell’installazione, bastava a generare la sensazione che qualcosa di profetico stesse accadendo. Quest’approccio profetico alla tecnologia non è figlio di sviluppi piú recenti? In fin dei conti alla IBM quando presentarono il primo prototipo di riconoscitore vocale, nel 1961, lo chiamarono “Shoebox”, riferendosi alla dimensione ridotta per i tempi per un calcolatore con quelle qualità. Ma ad essere esaltata era la praticità del mezzo e non veniva lasciato molto spazio per metafore azzardate.
Gianluca Monaco: C’era un tempo in cui i computer erano uno strumento riservato a tecnici e scienziati. L’esperto sapeva come far funzionare la macchina: lui dava le istruzioni ed essa eseguiva i calcoli. In un contesto così specifico non esisteva la necessità di ricorrere a delle metafore. Non c’è voluto molto tempo per capire che quell’enorme potenziale poteva essere sfruttato non solo in campo scientifico, ma anche in molti altri settori. Tra gli anni ’80 e i ’90 il computer ha iniziato a diffondersi nelle case e negli uffici; in poco più di vent’anni, sotto forma di smartphone, la sua presenza si è estesa alle nostre tasche.
Proprio a causa di questa rapidità di diffusione, una larga parte di chi possiede un dispositivo tecnologico non sa cosa ci sia dietro, e questo personalmente mi preoccupa. Non parlo della conoscenza tecnica approfondita che potrebbe avere un esperto informatico – quella non ce l’ho nemmeno io – ma dell’assenza di curiosità su cose che usiamo quotidianamente, come Internet o i touch screen. Un po’ come chiedersi da dove proviene il cibo che mangiamo.
Come ho già detto, l’installazione prova a rendere visibile alcuni meccanismi invisibili ma molto presenti nella vita di tutti i giorni. Quando i visitatori interagivano per la prima volta con il monolite, la prima reazione che notavo era sempre lo stupore di trovare le proprie parole proiettate sul soffitto. Sono sicuro che molti dei partecipanti fossero abituati a invocare Siri o Google sul proprio telefono. Eppure il monolite non ha portato nulla di nuovo sul fronte tecnologico. La gente è ormai abituata a conversare con il proprio assistente virtuale. Perché mai dovrebbe stupirsi di qualcosa con cui ha familiarità? La risposta che mi sono dato è la spettacolarizzazione.
Mentre lo smartphone diventa monolite e il soffitto si trasforma in schermo, le nostre dimensioni da esseri umani non cambiano. Ci ritroviamo immersi in uno spazio virtuale dove, essendo tutto ingigantito e amplificato, non possiamo fare a meno di notare quello che ci sta succedendo intorno. Parlando di oracoli e profezie, non possiamo trascurare il modo in cui è stata pensata e diretta l’interazione fisica all’interno della stanza con il monolite. Il fascio di luce emesso dal monolite costringeva il visitatore a rivolgere lo sguardo verso l’alto. Chiunque si trovasse ai suoi piedi, intenzionato a parlare o ad osservare la proiezione, appariva intenzionato a venerare il monolite. Lo spazio ridotto e la scarsa illuminazione tendente al blu hanno contribuito a creare un’atmosfera mistica ed intima.
Non possiamo negare che la tecnologia oggi abbia un impatto tale da influenzare le nostre sorti. La comunicazione fa sempre più leva sull’emotività, i nuovi prodotti sono sempre più umani. Ma attenzione a fidarci troppo: secondo un’intelligenza artificiale, i mondiali di calcio di quest’anno in Russia avrebbero visto il trionfo della Germania sul Brasile…
Mario Margani:: Make data small again è il titolo della tua campagna per aumentare la consapevolezza sul fatto che buona parte dei dati sulla nostra presenza e sulle nostre operazioni online in realtà non interessano a nessuno. Si trova sul tuo nuovo sito internet, che con un tempismo da pesce d’aprile hai trasformato in versione brutalista in una lista di lavori web caricati quasi giornalmente, appunto da aprile fino a circa metà giugno. L’estrapolazione ed analisi di dati per scoprire legami tra i fenomeni e prevederli in futuro è, semplificando, l’obiettivo principale di Big Data, e si collega ad un vasto campo di applicazioni come la cybersecurity, il machine learning e il predictive modelling. Nell’ambito del visual interaction design come si possono sviluppare strategie sovversive in grado di scardinare o almeno minare le certezze alla base di questa struttura teleologica e causalistica?
Gianluca Monaco: L’ingrediente fondamentale è la curiosità. Con un approccio simile a quello degli hacker, mi trovo spesso a scomporre e analizzare il mondo che mi sta intorno – digitale e non – solo per il gusto di farlo e di comprenderlo meglio. Non ho risposte né metodi definitivi e nessuno mi ha mai insegnato come o chiesto di farlo. Da molto tempo prendo appunti su ciò che osservo o di cui la gente parla. Prendendo spunto da queste note, a volte trasformo il pensiero in nuovi artefatti digitali. Nel caso del mio sito si tratta di mini-esercizi di stile, che chiamo “mini” perché mi sono posto il limite di non impiegare più di un giorno per realizzarli, anche se le idee possono essere vecchie di qualche anno.
Per citarne uno, la pagina numero 8 del sito intitolata “Slow web: vol.1” si ispira al comportamento molto diffuso di scrollare compulsivamente qualsiasi social network. L’interfaccia è un fac-simile di Facebook in cui l’utente scopre che la pagina diventa sfocata per qualche secondo ogni volta che effettuerà uno scroll, impedendo di fatto il comportamento incontrollato. In altre occasioni invece il tentativo di sovversione avviene usando gli stessi strumenti e piattaforme di cui voglio parlare.
Il caso più evidente è quello delle storie su Instagram, che ormai porto avanti da quasi sei mesi. Ogni volta che vado in bagno per motivi fisiologici, posto una nuova storia in cui inquadro la mia faccia mentre recito sempre la stessa formula: “Sono andato in bagno alle…” seguito dall’orario effettivo. Non c’è una persona che, avendo visto almeno una storia, non mi abbia chiesto “Mi devi spiegare il perché delle tue storie su Instagram” quando mi incontra di persona.
Mario Margani: Quella storia su Instagram l’ho interpretata come un tentativo ironico di spostare l’attenzione sui contenuti che vengono creati e trasmessi attraversi i social media, in un epoca in cui una parte crescente della popolazione si informa soprattutto attraverso di essi, e allo stesso tempo su come il loro funzionamento plasmi il modo di presentarsi degli utenti, in cui gioca un ruolo importante anche la relazione dell’individuo con il mezzo di riproduzione fotografico. L’indessicalità del gesto fotografico da una parte, che si riflette nell’approccio classificatorio, e se vogliamo impersonale e conformista; e, dall’altra parte, in maniera quasi schizofrenica, l’autorappresentazione, che risponde alla necessità di descriversi e raccontare in maniera esaltante ed attraente qualsiasi tratto e frammento della propria quotidianità.
Trovare questi due piani sovrapposti nelle tue storie mi ha fatto sicuramente sorridere, e poi pensare. Lo scorso marzo hai partecipato alla mostra New Imaginaries for Crypto Design. The Deep Web Needs New Metaphors al NeMe Arts Center di Limassol. Cosa hai presentato in quell’occasione?
Gianluca Monaco: Tutto è nato da un workshop ad Amsterdam, il cui sottotitolo è abbastanza esplicativo: il Deep Web ha bisogno di nuove metafore. Abbiamo già parlato del fatto che le metafore siano un potente mezzo di comprensione della tecnologia. Il Web è una di quelle entità difficili da comprendere nella sua totalità, e per questo spesso associato all’immagine di un iceberg. La punta dell’iceberg rappresenta il Surface Web, tutto ciò che è indicizzabile dai motori di ricerca, ma una parte molto più vasta dell’iceberg è sommersa, inaccessibile ai motori di ricerca, ovvero il Deep Web. Molti credono che il Deep Web sia terra di hacker e criminali. In verità, chiunque abbia fatto l’esperienza di mandare un’email o effettuare un pagamento online sta di fatto utilizzando il Deep Web.
L’obiettivo del workshop era quello di sfatare i miti e le certezze infondate sull’argomento. Io e il mio team di lavoro non ci siamo concentrati su un’immagine specifica come richiesto, ponendo piuttosto l’accento sul processo di apprendimento ed esplorazione del Web. Prendendo in prestito la meccanica e l’estetica del gioco per PC Minesweeper (in italiano Campo Minato), abbiamo realizzato una piccola esperienza interattiva online. Ci sono due finestre con cui si può giocare: quella sinistra intitolata “Surface Net”, mentre quella a destra “Dark Net”.
Entrambe possiedono informazioni sull’utente, indirizzo IP e livello di privacy, oltre alla classica griglia del campo minato. Facendo click nei quadrati del campo l’utente esegue un’azione nel Web di riferimento, scoprendone man mano il contenuto. Da un lato puoi trovare “Food pics” o “Buy new shirt”, dall’altra “Anonymous forums” ma anche “Terrorist attacks”. Non è un vero e proprio gioco, nel senso che non c’è alcun modo per vincere o perdere. L’aspetto interattivo però rende la narrazione non-lineare, dando all’utente la libertà di esplorare e il tempo di comprendere l’argomento un pezzo alla volta.
Mario Margani: In questo progetto, come in molti degli “esercizi di stile” sul tuo sito internet, la sfera ludica è spesso presente come strumento per facilitare l’interazione, pur non trattandosi mai di giochi nel vero senso della parola. Il tema della critica agli sviluppi tecnologici alle abitudini che esse sviluppano negli individui viene così dislocata in un ambito più rilassato ed apparentemente da cultura bassa, senza moralismi. Mi sono ritrovato a giocare con elementi, grafiche e interfacce che fanno parte della mia esperienza tecnologica quotidiana, sperimentando così per un attimo una confusione tra realtà e finzione, ed una frustrazione figlia del fatto che quella determinata faccia della realtà, sia essa la pagina di un social, lo scrolling, un gioco già esistente, o l’icona del caricamento, non funzioni come dovrebbe.
Queste interferenze e disturbi dell’esperienza abituale diventano delle speculazioni che tendono a mettere in discussione le proprie abitudini. Dove si trovano i limiti nell’ambito del design interattivo applicato ad ambiti educativi, di cui ti occupi anche tu con il tuo lavoro presso il Lava Lab (Amsterdam/Beijing), studio specializzato in interactive design, digital art e story-telling?
Gianluca Monaco: Se penso ai tempi in cui andavo a scuola, ricordo una certa competizione tra le scuole della città. Quelli che ne parlavano di più, alimentando una rivalità quasi calcistica, erano ovviamente i genitori. Sono sicuro che molte scuole adoperassero gli stessi libri di testo, o, in caso contrario, condividessero comunque lo stesso programma. Ciò che rendeva una scuola migliore di altre risiedeva in altri fattori, come i docenti, l’organizzazione, le strutture, eccetera. Tralasciando la questione della competizione tra scuole, questo esempio mi serve solo per creare un parallelismo tra libri di testo e applicazioni per smartphone.
Sono entrambi dei validi strumenti ma non credo possano fare la differenza. È vero che la tecnologia offre un ventaglio di possibilità molto più ampio, ma non è detto che i risultati siano migliori dal punto di vista formativo. Negli ultimi anni ho avuto l’opportunità di lavorare a dei progetti di stampo educativo. Ho fatto esperienza di team composti da figure diverse: curatori, educatori, sviluppatori, designers, oltre ai vari ricercatori ed esperti in materia. Un gruppo eterogeneo è necessario per realizzare un prodotto valido, ma pone al tempo stesso alcuni ostacoli da superare. Il primo è legato al contenuto e al linguaggio. Da una parte ci sono i docenti di formazione accademica, abituati ad un approccio più slow e a fornire informazioni complete ed esaustive. Dall’altra il mondo del web, i cui designer e sviluppatori sanno che un linguaggio snello e funzionale è spesso la scelta più efficace.
Quando questi due mondi si intersecano il rischio più comune è che il risultato sia piatto, non incisivo né dettagliato abbastanza. A sancire il verdetto finale saranno gli studenti, cresciuti a pane ed emoji, abituati a postare di tutto e non prestare attenzione a niente. Un’altra cosa che ho imparato è distinguere l’engagement dal risultato educativo. Un prodotto digitale noioso non piacerà mai a nessuno, ma creando assuefazione o alimentando la competizione si possono ottenere effetti ancora più negativi. La tecnologia non deve mai essere il fine, specialmente quando si delega ad essa un ruolo importante come quello dell’educazione.
Mario Margani: Nel 2016 hai fondato insieme ad altri designer a sviluppatori Developers Developers Developers, per stimolare l’incontro, la comunicazione e lo sviluppo di un linguaggio condiviso tra internet designer e sviluppatori. È una piattaforma prettamente digitale che funziona attraverso un gruppo su Slack o ha prodotto anche dei nuovi progetti, oltre allo scambio di informazioni e opinioni? Da quale necessità è scaturita la decisione di fondare il gruppo?
Gianluca Monaco: Mi trovavo a Barcellona in occasione dell’Internet Age Media weekend, un evento in cui si affronta il tema di Internet nelle sue varie forme. Ispirati da due giorni di conferenze e nuove conoscenze, io e i miei compagni di viaggio ci siamo ritrovati tra le vie del quartiere Gracia a parlare delle nostre esperienze più assurde nell’ambito della progettazione web. Ci siamo resi conto di quanto le nostre disavventure fossero simili e del fatto che i malintesi derivassero sempre dalla mancanza di comunicazione.
Designers e developers non sono in grado di intendersi, hanno background, approcci e – soprattutto – interessi diversi. Perché non provare ad avvicinare i due mondi, non soltanto professionalmente, ma creando uno spazio comune dove quello che fai non è poi così rilevante? Perché non provare a creare sintonie cucinando insieme una lasagna invece di fare i soliti workshop al profumo di start-up? Ciò che ci ha spinto ad iniziare era la voglia di affrontare una tematica seria prendendoci poco sul serio. Volevamo una comunità aperta, senza limiti di alcun tipo, come dichiariamo nel nostro manifesto: “3. Developers Developers Developers non fa distinzione tra un #FF00FF e un Magenta; 4. Developers Developers Developers ti accetta anche se non hai capito il punto precedente”.
Dal 2016 ad oggi abbiamo organizzato tre incontri tra Palermo e Catania. L’evento più grosso si è svolto a Catania; in quell’occasione abbiamo discusso argomenti proposti dagli stessi partecipanti, i quali hanno poi sviluppato dei mini progetti sul tema della comunicazione tra designers e developers. Vivere in città diverse non ci permette di organizzare incontri con frequenza, ma ci piacerebbe continuare a portare avanti l’iniziativa, dato il successo riscontrato durante gli eventi precedenti.
www.gianlucamonaco.com
http://developersdevelopersdevelopersdevelopers.com/