Ha aperto i battenti lo scorso 14 Settembre 2008 l’11ima Mostra Internazionale di Architettura dal titolo Out There: Architecture Beyond Building, nelle sedi espositive dei Giardini e dell’Arsenale a Venezia.

La Biennale di Architettura, curata quest’anno da Aaron Betsky, attualmente direttore del Cincinnati Art Museum e in passato direttore, dal 2001 al 2006, del Netherlands Architecture Institute (NAI) di Rotterdam, uno dei più importanti musei e centri di architettura al mondo, è come sempre un momento di riflessione sulle tendenze più attuali e sulle possibili prospettive future di una disciplina artistica e progettuale che ha ovviamente ripercussioni profonde non solo sull’urbanistica ma anche sulla vivibilità delle città del ventunesimo secolo. Una mostra, quella curata dal saggista e giornalista americano, che come suggerisce il titolo stesso sposta, ancora di più che in passato, l’attenzione verso lo spazio all’esterno della struttura architettonica, uno spazio “oltre” che definisce la sua essenza sia nell’ambiente fisico circostante che attraverso il metaverso informazionale e immersivo tipico dei media digitali.

Tra le opere esposte in mostra, una sicuramente che ha colpito la mia attenzione e che indubbiamente tiene fede al concept, è quella messa in scena da Erik Adigard e Chris Salter, il primo fondatore dello studio di design M-A-D posizionato all’intersezione tra communication design e arti multimediali, il secondo artista e coreografo interessato alle tecnologie di interazione all’interno di ambienti reattivi nonchè alle nuove forme di live performances mediate da tecnologie digitali sul suono e sulle immagini. Ho avuto l’occasione di parlare con Erik e Chris del lavoro ultimo lavoro AirXY, installazione multimediale interattiva, presentata alle Corderie dell’Arsenale e in mostra fino al prossimo 23 Novembre 2008, che prosegue un percorso di ricerca sugli ambienti immersivi e sui più recenti sviluppi dell’hyper architecture già iniziato con i precedenti lavori Chronopolis e Dualterm.

AirXY è un’installazione site specific creata appositamente per lo spazio enorme delle Corderie, e con esso gioca e interagisce mediante una soluzione duale estremamente efficace: quella cioè di creare 2 ambienti immersivi, un fronte digitale mediante l’utilizzo di 2 enormi schermi affiancati e un retro più fisico/percettivo mediante l’utilizzo di suoni, luci stroboscopiche e fumo. La risultante, come ampiamente chiarito nel corso della lunga intervista che segue, è un interessante dualismo tra de-materializzazione del corpo fisico dello spettatore e ri-meterialzzazione del suo estratto digitale. AirXY invita frontalmente gli spettatori ad avvicinarsi al duplice schermo, per consentire loro di comprendere come una serie di camere digitali siano in grado di monitorare la loro posizione nello spazio e nel tempo e di riportarla digitalmente tramite una serie di “linguaggi grafici”, rappresentazioni visuali di “icone urbane contemporanee”, per poi suggerire la presenza di un secondo ambiente sul retro degli schermi in cui gli stessi segni grafici vengono rappresentati tramite proiezione sul pavimento e “resi solidi” mediante un’affascinante gioco percettivo ottenuto per mezzo dell’utilizzo coordinato di fumo e flash stroboscopici (e suoni), in una crasi perfetta tra alcuni progetti audiovisivi immersivi che hanno fatto scuola negli ultimi anni, come il Laser Sound Project di Edwin van der Heide o il Feed di Kurt Hentschlager.

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Un lavoro quindi che si colloca con successo, come suggeriscono proprio Erik Adigard e Chris Salter tra architettura, media e comunicazione, dove le ecologie dell’uomo e della tecnologia convergono in una nuova prospettiva…

Marco Mancuso: Vorreste spiegarmi quando e come è nato il progetto Air XY? Come avete lavorato in termini tecnici su di esso e quali softwares open source o meno avete utilizzato?

Erik Adigard/Chris Salter: AirXY è in realtà il proseguimento di un lavoro che abbiamo fatto in alcune precedenti installazioni nel corso degli ultimi cinque anni, nello specifico Chronopolis (2002) e Dualterm (2007). In questi progetti, volevamo esplorare gli spazi tridimensionali, sia fisici che simulati, che potevano essere definiti e controllati attraverso ambienti ricchi di media digitali. Chronopolis, che era stato sviluppato per il Villette Numerique di Parigi nel 2002, esplora per esempio un’urbanità digitale monumentale che è possibile visitare senza aver bisogno di entrarci: essa è infatti solo una topografia iconica, un’architettura di superficie/immagine di cui il passante fa esperienza passeggiando attraverso la sua immensa superficie. Dualterm è invece una struttura in Second Life, concepita per essere osservata dal punto di vista della struttura fisica stessa che abbiamo usato come modello (un terminal reale situato nel Pearson Airport di Toronto). In questo modo, il progetto esplora la tensione che si crea tra i nostri sensi reali (l’essere per esempio in un aeroporto rumoroso) e i sensi artificiali (come degli avatar che si muovono in uno spazio virtuale, uno spazio di fluttuazione in cui è possibile esistere al di fuori della nostra materia fisica). AirXY esamina quindi una strategia opposta: noi invitiamo infatti gli spettatori a fare esperienza di una trasformazione diretta tra la perdita del corpo e la riconquista del corpo e viceversa, una mutazione di soggettiva tra i loro corpi quasi irriconoscibili in quanto bolle digitali e la loro piena immersione fisica in un’atmosfera fatta di luce, suono e nebbia.

In termini di specifiche tecniche, l’applicazione AirXY è stata scritta da due sviluppatori fantastici: Hugues Bruyere e Elie Zananiri in C++ utilizzando le librerie openFrameworks. Il video processing è fatto utilizzando OpenCV e la FreeFrame 1.5 video plugin architecture, con host e plugins auto costruiti. Il rendering è fatto con il tradizionale OpenGL utilizzando i GLSL shaders. Il remote controller è scritto in Java utilizzando un Processing framework, un controlP5 e le librerie oscP5 .

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Marco Mancuso: Chris, io conosco il tuo lavoro legato soprattutto agli ambienti interattivi e alle performance mediante l’utilizzo di tecnologie media. In questo ambiti, il ruolo dello spazio e dell’ambiente è ovviamente molto importante, poiché definisce la relazione del pubblico con la nozione di immersione. Quali sono quindi secondo te le connessioni tra il processo artistico in una performance live e quello forse più complesso a cavallo tra architettura, media e comunicazione?

Erik Adigard/Chris Salter: Queste tematiche di cui parli hanno anche a che fare con le interfacce 2D e 3D, come ambienti abitabili da communities, games, market places ed eventi artistici che esistono in tempo reale. In questo senso, il campo dell’interface design ha effettivamente molto in comune con l’architettura, così come da richiesta originale di Aaron Betsky, direttore della Biennale di Venezia, per il lavoro sulle interfacce multimediali di Erik Adigard. Per la Biennale di Venezia, abbiamo comunque pensato di incorporare la tradizione performativa che unisce i media di comunicazione con la pratica architettonica (dai concetti di costruzione propri delle avanguardie come i Costruittivisti, da Tatlin, a Lissitzky ai fratelli Vesnin Bros agli esperimenti effimeri degli anni Sessanta di gente come Coop Himmelblau, Haus-Ruckert-Co, i Metabolisti o anche Gordon Matta Clark, dove l’architettura incontra il teatro nel senso che i corpi e le macchine trasformano e modellano lo spazio in maniera temporale).

Una delle differenze principali quindi tra il lavoro in una performance dal vivo e quello sugli spazi pubblici risiede proprio nella separazione tra performer e spettatore, nel senso di una forma di “interazione a distanza” o di “esperienza in terza persona” di una forma di interazione attraverso il performer sul palco (interazione quindi con un ambiente di palco reattivo).

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Marco Mancuso: Parlando ancora del concetto di “spazio”, l’installazione AirXY è fisicamente impressionante. Sia dal fronte, tramite l’uso di un sistema audiovisivo bidimensionale, sia dal retro con l’uso di un ambiente fisico immersivo mediante l’uso di flash, luci strobo, suoni che trasformano l’ambiente in una vera e propria struttura architettonica effimera. Quale è quindi il ruolo della scenografia come branchia del theatre design e quanto è importante la presenza fisica di un’installazione nell’ambiente, sia esso chiuso che aperto? E come avete lavorato quindi sullo spazio delle Corderie?

Erik Adigard/Chris Salter: Questa è una domanda eccellente, perché nelle nostre discussioni il concetto di una scenografia temporale è emerso molte volte, anche se ora è influenzato dal modo in cui abbiamo visto gli spettatori interagire e dalle considerazioni che abbiamo raggiunto. Noi speravamo di portare la nostra conoscenza ed esperienza del tempo, relativamente alle istanze architettoniche, attraverso un mix attento di arti temporali, informazione e interaction design, iconografia, scenografia e suono. Questo ha significato affrontare la location (le Corderie) come un gigantesco browser, un centro commerciale, un teatro, uno spazio di esibizione. In special modo, la scala delle Corderie, la forma e le condizioni del suo flusso di traffico a senso unico, erano integrali al concept della nostra opera solo perché sapevamo che saremmo stati circondati sia da uno spazio monumentale che da lavori monumentali. Inoltre, essendo il contesto quello di una mostra di architettura, il nostro intento era quello di trasformare gli schermi in pareti che potessero ri-configurare la spazialità stessa delle Corderie, agendo anche come interfacce digitali che potessero ri-strutturare lo spazio fisico tramite, come direbbe Tarkovsky delle “sculture nel tempo”. In questo senso, lo schermo diventa quindi significante e significato, architettura e paesaggio, spazio 2D e 3D caratterizzato dal materiale dinamico del tempo stesso.

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Marco Mancuso: Uno dei grandi temi attuali è quello della cosiddetta hyper-architecture, il concetto cioè di una forma di architettura sociale in cui strumenti tecnologici e media digitali vengono usati per creare nuovi ambienti, nuove esperienze, nuove relazioni tra esseri umani e ambiente, nuove poetiche e persino nuovi modi di percepire la spazialità. Partendo quindi dal vostro backgrounds anche nella comunicazione, nell’interface design, in economia e in filosofia, ma anche dalla vostra esperienza come designer/artisti, cosa pensate di questa apparente trasformazione della disciplina?

Erik Adigard/Chris Salter: Dobbiamo essere molto precisi con quello che si intende con il termine “digital architecture”. Una forma di architettura digitale è quella attraverso la simulazione su schermo o su mondi virtuali online, nella modellazione 3D e nell’animazione, ecc…In altri parole, nel mondo della rappresentazione. Il Web 2.0 potrebbe però ridefinire tutto, così come fece l’avvento del PC alla metà degli anni Novanta: uno potrebbe riferirsi ad esso con il concetto di hyper-urbanismo, ma al contempo potremmo dire che la customizzazione da parte degli utenti al suo interno stia neutralizzando la definizione tradizionale di architettura. Questa forma di democratizzazione digitale è quindi un enorme fenomeno sociale che riflette e costruisce i trends dello sciame urbano, del consumismo, dei mass media.

Un’altra forma di architettura digitale è quella invece generata dal computer manufacturing o dal computer numerical control (CNC), in cui modelli computazionali sono tagliati o modellati in forme fisiche appartenenti al mondo reale, attraverso processi industriali e macchine a taglio laser, stampi e simili.

Un terzo significato di architettura digitale è infine quello creato dalla convergenza tra gli spazi computazionali e fisici, che sono simultaneamente creati e simulati: una recensione per esempio del progetto AirXY, esamina una società basata sulla sorveglianza nell’era di Google Maps e dei sistemi di tracking satellitari, riflettendo sui “confini in espansione” di nuovi “spazi” prodotti nel mondo dopo l’11 Settembre. AirXY è, in parte, una critica di questa crescita frenetica nella comunicazione digitale e dei sistemi specifici di controllo che sono emersi con la creazione di questi nuovi tipi di spazi.

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Marco Mancuso: In questo senso, sembra però che con AirXY non siate molto interessati a questo tipo di integrazione, reale e profonda, tra ambienti digitali e spazi fisici. Le due anime dell’installazione sembrano voler rimanere, in un certo senso, separate. Come mai?

Erik Adigard/Chris Salter: Ci sono molte risposte possibili a questa domanda. Da un punto di vista pragmatico, volevamo ottenere qualcosa che potesse lavorare per 3 mesi, che fosse robusto per accogliere 100.000 o più visitatori. Mentre infatti le tecnologie mobile e locative sono interessanti, sono al contempo ancora immature, difficili da usare su larga scala e molto costose. Quindi, abbiamo deciso di usare tecnologie più semplici e testate soprattutto per le parti interattive del lavoro, come illuminazione a infrarossi, blob detection, camere analogiche. Da un punto di vista maggiormente concettuale, comunque, AirXY non illustra in senso letterale concetti come fisico/ambientale/ubiquito tipici dei computer mobile attraverso dei devices o dei gadgets concreti.

Il nostro intento, attraverso l’uso della nebbia e dell’aria dietro lo schermo, è di riflettere in senso più metaforico su questa nuova atmosfera macchinica, aumentata sempre di più attraverso l’uso di tecnologie che spaziano dai sensori ai chips integrati agli scanners alle camere di sorveglianza nascoste. La nebbia e l’uso di luci strobo riflettono quindi l’ambiguità di un’espressione che invoca un ambiente pulito e riflette su una società che ha la possibilità di entrare in una fase di controllo e di modulazione totale che non ci lascerà mai più liberi.

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Marco Mancuso: Al contempo però, con AirXY vi focalizzate molto sul concetto di immateriale/materiale come già discusso, giocando molto sui due lati dell’installazione: da una parte una de-materializzazione del corpo, dall’altra una sua ri-materializzazione. Guardando alle reazioni del pubblico, avete percepito una maggiore attrazione verso una digitalizzazione della propria persona o una riconquista di essa da un corpo digitale?

Erik Adigard/Chris Salter: Questa è una grande domanda. Noi siamo, come tutte le generazioni precedenti, attratti dalla nostra de-materializzazione. Dalla tradizione gnostica che negava il corpo in favore dello spirito, alla scomparsa digitale del corpo nelle visioni Nord Californiane del cyberspazio degli anni Novanta, siamo sempre stati ossessionati dall’immortalità. Noi ci relazioniamo con lo schermo come un frammento digitale e spendiamo tutte le nostre energie a costruire e ricostruire la nostra essenza (a volte anche più di una) “digitale-corporea”. Facciamo questo in un ambiente in cui non abbiamo intenzione veramente di stare e dal quale però non scapperemo mai; prova a chiedere a qualcuno che ha preso parte a qualche MMORPG come World of Warcraft o Everquest. In AirXY, c’è un ambiguità tra le nostre posizioni, i nostri modi di abitare differenti tipi di spazi, la nostra presenza all’interno della superficie dello schermo e la nostra presenza in una struttura effimera ed etera. Dove, in altri termini, ci troviamo maggiormente a casa?

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Marco Mancuso: Avete lavorato a AirXY con un network internazionale di architetti, ingegneri, costruttori, e programmatori. Nella mia esperienza di critico e giornalista, ho scoperto che questo approccio multidisciplinare e il lavoro di team in network, è particolarmente presente nel Design e nell’Architettura, più che in altre discipline artistiche. Quale è la vostra esperienza in questo senso? E siete d’accordo cn me che l’era digitale sta effettivamente spingendo alla nascita di una classe professionale, fatta di uno strano ibrido di designer/programmatore/creativo che a volte può anche essere chiamato “artista”?

Erik Adigard/Chris Salter: Tutti questi termini, come artista, designer, creativo, stanno effettivamente mischiandosi sempre più, e forse stanno anche diventando obsoleti, non tanto per le tecnologie quanto per i nuovi processi di creazione che queste tecnologie fanno emergere. Parte di questo approccio multidisciplinare e basato sul lavoro di team ha semplicemente a che fare con la scala e la complessità dei progetti creativi, che non possono essere seguiti da una sola persona che abbia tutta la conoscenza e gli skills necessari. La collaborazione interdisciplinare è una pratica artistica e un concetto utopistico così come le strategie per concepire soluzioni che possano risolvere sfide su scala globale nel campo dell’ecologia, della cultura e dell’economia. Questa collaborazione, questo approccio interdisciplinare basato sul lavoro in team, non è solo desiderabile in termini di creazione , trasferimento e scambio di nuova conoscenza, ma è anche necessario per la sopravvivenza in un mondo sempre più ibrido come quello nel quale stiamo vivendo.


www.airxy.org/

www.labiennale.org/it/architettura/