“Due giorni per accorgersi di problemi irrisolti, proporre soluzioni (tecnologiche?) e stimolare la creazione di nuove start-up disruptive in diversi campi.” Così viene introdotta nel sito web dedicato la conferenza-evento I Realize The Art of Disruption che si è tenuta il 9-10 Giugno nei fantastici teatri di posa del Virtuality Multimedia Park di Torino. Stimolare la nascita di start-ups in due giorni è un obbiettivo decisamente ambizioso. Che però è stato raggiunto, almeno a parole.
In due giorni, tutto ciò di cui ho sentito parlare e ho parlato può essere riassunto in una parola: “Disruption” o, se non altro, in due: “Disruption Wannabe”. Mi spiego: per disruption o meglio per disruptive innovation (innovazioni di rottura), si intende, stando a Clayton M. Christensen, economista che ha introdotto per primo tale definizione, innovazioni tecnologiche che permettono la creazione di un nuovo modello o strategia economica che ha un impatto fortissimo, se non rivoluzionario, sul mercato preesistente. Esempi di innovazioni di rottura sono l’invenzione della carta, della televisione, del telefono cellulare, di Linux.
Il termine fa quindi riferimento a un’innovazione molto rara e mi sembra doveroso usarlo con cautela, quindi preferisco considerarlo in un’accezione “wannabe”, che prenderlo alla lettera. In due giorni a Torino è stata fatta una carrellata su alcune delle innovazioni disruptive che stanno cambiando il nostro modo di vivere, comunicare, viaggiare.. si è analizzato il quadro generale, cercando di definire lo stato dell’arte e immaginando possibili scenari futuri.
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Vari innovatori, basti citare Moshe Bar (tecnologo e fondatore di diverse start-ups nel campo dell’informatica, che hanno poi riscosso un successo straordinario) e Peter Saville (grafico delle copertine più famose dei Joy Division e dei New Order, fondatore dell’etichetta indipendente Factory Record), hanno parlato del loro lavoro e di come hanno rivoluzionato il loro settore. Accanto ai grandi sono state presentate varie start-ups locali: da Vieweb (www.vieweb.it) società che fornisce servizi di webcasting ad alta definizione, a SpyStory un gioco reality basato su una web-community (www.spystory.it). I Realize guarda al mondo, cercando contemporaneamente di dare visibilità a progetti della realtà torinese.
Ma come si può innovare il mercato e la società in modo disruptivo? La chiave, mi assicurano, sta nel capire quali siano i bisogni insoddisfatti , analizzare le risposte esistenti e partendo da tali risposte, scovare soluzioni innovative. Questa è la ricetta proposta da I Realize e questo il path fondamentale seguendo il quale sono stati sviscerati i diversi topic definiti dai curatori: “I Eat”, “I Move & Interact”, “I Grow – Media”, “I Grow – Design”, “I Grow – Wellness”.
La definizione dei topic e la strutturazione dei 2 giorni sulla base degli stessi è stata utile per circoscrivere differenti settori e categorizzare problematiche: si è parlato del cibo in relazione a OGM, fairtrade, eco sostenibilità; di trasporti e nuove tecnologie facendo riferimento all’Internet delle cose, di post-industrial design e fabbing, di media e benessere. Il quadro completo è ampio e variamente approfondito.
I punti di partenza per cominciare a descrivere i diversi scenari sono sempre gli stessi trend. Lo sviluppo delle piattaforme sociali che diventano importanti non solo come servizio di dating o job-founding ma come strumento collaborativo per la risoluzione di problemi: “La saggezza della folla è potente tanto quanto la folla è saggia” spiega l’IFTF (Insitute for the Future) nella mappa “The future of making” realizzata per Make; la sempre maggiore sensibilità verso i problemi legati all’ambiente e alla sostenibilità (eco-motivation); lo sviluppo dell’ Internet delle cose; il diffondersi della cultura DIY (si prendano ad esempio il successo di siti come Instructable, lo stesso Make magazine, i Dorkobot, servizi come Ponoko); il diffondersi dell’ open-source e dei creative commons sia come mezzo per condividere cultura che come aspettativa da parte del consumatore, che sempre di più cerca la customizzazione ed è abituato a fruire gratuitamente di molti contenuti.
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Il primo scenario che voglio riportare è quello tratteggiato da Nicholas Nova , ricercatore e manager editoriale della Lift Conference (http://liftlab.com/nicolas_nova.php) . A lui è stato affidato il workshop “I Move & Interact” ed è lui che riporta le conclusioni del workshop durante la conferenza dedicata. Alla conferenza sono intervenuti anche Bruce Sterling (scrittore, futurologo) e Andrea Branzi (architetto e designer, compasso d’oro alla carriera). Nicholas Nova spiega: “la nostra abilità di comunicare e interagire sia come utenti che come produttori di informazione è sempre di più «anywhere, anytime, anyway» “; reti wireless, dispositivi mobili capaci di connettersi ad internet e la nuova rete di sensori costruiscono “una nuova membrana informativa intorno alle presone, luoghi ed oggetti”.
L’ambiente urbano è radicalmente mutato: le reti e i device scaraventano l’uomo moderno in un milieu dalle potenzialità inesplorate, o esplorate solo in parte, e che riserba futuri imprevisti, allettanti, forse sostenibili. Lo strato informativo prodotto grazie alle ubiquitous technologies può essere sfruttato per sviluppare applicazioni innovative e servizi utili ai cittadini. E’ l’Internet delle cose, popolato da spime e da blogjects, cioè da oggetti in grado di comunicare fra loro e di interagire con gli utenti conservando una loro storia nel tempo e nello spazio.
Lo sfruttamento di questo nuovo strato di informazioni è più diffuso di quello che potremmo pensare e relativamente vecchio: a Torino ad esempio, come in molte altre città, l’azienda dei trasporti locale mette a disposizione un servizio che permette di ricevere informazioni sugli orari dei pullman in real-time tramite un live-tracking dei mezzi via GPS; un servizio del genere è normalmente diffuso ed è grazie al “parlare” tecnologico dei mezzi di trasporto pubblico che questo è possibile.
La pratica di progetto, afferma N. Nova, non dovrebbe essere inventare da zero, ma piuttosto ripensare servizi e strumenti già esistenti (come quello citato sopra) al fine di migliorarli. Un esempio di possibile innovazione semplice e intelligente che Nova ha riportato riguarda Trenitalia: invece che investire sull’Alta velocità sarebbe stato più economico e più remunerativo installare reti wireless sui treni, cosa che avrebbe attirato clienti molto più che il lussuoso design di interni della Frecciarossa.
Nicholas Nova ha concluso con una serie di quesiti: i servizi e le soluzioni tecnologiche sono “gettate” sui consumatori, ma corrispondono davvero ai bisogni delle persone? I designer dovrebbero rivoluzionare le pratiche d’uso dei consumatori o piuttosto progettare rispettando tali pratiche? E’ possibile rendere la membrana informativa, il substrato prodotto dagli spime e dagli utenti stessi, più visibile?
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Un secondo scenario particolarmente interessante è stato tratteggiato durante il workshop e la relativa conferenza “I Grow – Design” durante la quale si è parlato di post-industrial design .
Il workshop è stato affidato a Giorgio Olivero (TODO, Interaction & Media design, www.todo.to.it e a Massimo Meninchelli (designer e ricercatore, www.openp2pdesign.org ), mentre durante la conferenza sono intervenuti anche Massimo Banzi (inventore di Arduino, www.tinker.it ) e Jennifer Higgie (scrittrice e co-editor di Frieze Magazine).
Oggi sono sempre di più i designer che si preoccupano di costruirsi da soli gli strumenti per la progettazione: sono i designer programmatori che si ispirano alla cultura hacker e DIY per produrre contenuti che poi vengono re immessi nella rete a favore della comunità. Questo nuovo tipo di designer spesso non progetta oggetti finiti ma processi dinamici, aperti ai contributi degli utenti finali, che da consumer diventano prosumer (consumer + producer), cioè invece che consumare passivamente si incaricano di definire le variabili che il designer lascia aperte alla manipolazione permettendo la customizzazione dell’oggetto.
Questo può avvenire grazie alla diffusione delle tecnologie di digital fabrication o fabbing (come stampanti 3d, macchine a taglio laser, frese a controllo numerico..) che stanno diventando sempre meno costose e permettono uno spostamento della progettazione e della produzione verso il design generativo , il design partecipato e la customizzazione di massa.
Un esempio famoso è il sito NIKEiD (http://nikeid.nike.com) dove l’utente può customizzare i colori della scarpa che ha scelto per poi acquistarla. Giorgio Olivero precisa però che questo genere di customizzazione di massa è in qualche modo fittizio. L’utente è si partecipe del processo di fabbricazione e design dell’oggetto ma tale esperienza non ha un valore aggiunto reale, non va oltre l’effetto “wow” dato dalla novità tecnologica. Un esempio di mass customization intelligente, spiega Olivero, sono i progetti dello studio Fluid Forms (www.fluidforms.eu): il progettoEarth-Pinstripe Bowl permette per esempio all’utente di scegliere un luogo da Google Map per poi usare la forma del paesaggio (i rilievi delle alture e gli incavi delle valli) per dare forma ad un vassoio di legno. L’esperienza della customizzazione ha così un valore emozionale.
Queste pratiche porteranno all’affermarsi di nuovi modelli economici? In futuro ciascuno si progetterà la sua sedia da solo e se la produrrà a casa grazie ad un stampante 3D da scrivania? Qual è il ruolo dei designer in questo nuovo scenario?
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Stephen Williams di Fluid Forms (che era presente al workshop), ha una risposta a quest’ultima domanda: il ruolo del designer è quello di definire uno “spazio di soluzioni possibili” abbastanza ampio da lasciare spazio alla customizzazione, ma abbastanza circoscritto da evitare di “sovraccaricare i prosumers con una gamma di scelte per la customizzazione perlopiù superflue”.
Massimo Menichelli, invece, pone l’accento sull’importanza di adottare politiche open source: Tinker è un ottimo esempio di post-industrial design studio. Arduino è notoriamente una scheda stampata (quindi hardware) open source: questo vuol dire che Banzi non riscuote royalties ma al contempo ha accesso ad una quantità di “saggezza” enorme generata dalla community internazionale che si è formata attorno ad Arduino. Il forum di Arduino è una miniera d’oro per chiunque voglia usare la scheda per un progetto, moltissimo codice è già stato scritto e moltissimo hardware già sperimentato. Il materiale prodotto dalla comunità fa parte di una saggezza a cui Banzi e soci non sarebbe mai potuti arrivare da soli e che possono sfruttare per i loro progetti commerciali con Tinker.
I Realize, in conclusione, ha portato a Torino una ventata di ottimismo: le idee sono molte e i margini entro i quali è possibile sperimentare sono ampi. Le aziende dovrebbero cercare di aprirsi all’innovazione, perché le nuove possibilità offerte dal mercato (e illustrate in questa due giorni) sono davvero molte. Gli scenari tratteggiati distillano un’unica verità: c’è ancora molto da scoprire e da innovare. E sottointeso rimane un assunto positivo e decisamente prezioso, soprattutto in questo periodo economicamente e politicamente buio: il futuro sta arrivando e c’è la possibilità che sia migliore del presente, basta volerlo.