Nel 2018 lo STARTS Prize di Ars Electronica per la sezione Artistic Exploration – riservato ad opere con il potenziale di influenzare o modificare l’uso, lo sviluppo e la percezione della tecnologia – è andato alla giovane designer italiana Giulia Tomasello per la sua capacità di incontrare l’esigenza di un ritorno alla natura e alla biologia e il rinnovato bisogno di empowerment femminile che si stanno manifestando nell’odierna società digitale. Il progetto vincitore è Future Flora, un kit che permette di curare le infezioni vaginali coltivando batteri in casa in maniera semplice come indossare un assorbente esterno.
Unendo le ultime scoperte scientifiche sul ruolo del microbioma sulla salute dell’uomo e metodi curativi tradizionali come i tamponi allo yogurt o la pratica del vaginal seeding, il kit è tanto discreto come ingombro quanto esplosivo in termini di impatto sociale e culturale. Future Flora mira a trarre beneficio dalla relazione simbiotica tra i batteri e il corpo umano – indagato quest’ultimo sempre come un costrutto sociale, e mai come un dato a priori – dando alle donne l’occasione per diventare partecipanti attive del proprio benessere.
Orientata per indole a rompere i tabù femminili e attratta dalle possibilità offerte da arte e scienza di annullare i confini tra la tecnologia e il corpo umano, negli anni Giulia si è trasferita da Pesaro a Milano, Eindhoven e Londra, e ora – dopo aver sperimentato delle scarpe termoregolanti, una seconda pelle conduttiva, smart textiles, cellulosa vegetale, e colture di batteri con un vero approccio da biohacker – presenta la sua ricerca in giro per il mondo per promuovere una maggiore comprensione e confidenza delle donne con il proprio corpo.
Da un terrazzino di Cambridge – dove si trova al momento per sviluppare Alma, il suo ultimissimo progetto – Giulia mi ha raccontato di come il premio l’abbia aiutata a prendere consapevolezza del proprio lavoro e a credere sempre più nel suo potenziale.
Federica Fontana: Per prima cosa ti chiederei di raccontarci un po’ di Future Flora, di com’è nata l’idea e in particolare di come si è strutturata la ricerca.
Giulia Tomasello: Future Flora è nato nel 2016, durante il master alla Central Saint Martins School di Londra, ed è stato il mio progetto di tesi. Negli anni precedenti avevo studiato design del prodotto alla NABA di Milano laureandomi con un progetto sulla wearable technology, nello specifico un corsetto interattivo. Poi mi sono trasferita a Eindhoven, dove ho seguito un anno di social design, che si riflette nei risvolti sociali di Future Flora. Da lì mi sono spostata a Londra per seguire il master Material Futures; qui in realtà più che verso il tessuto interattivo sono orientati verso i materiali e gli organismi viventi, e quindi ho cominciato a interessarmi a questo aspetto e a cercare di creare un connubio tra il tessuto, la tecnologia e i microorganismi, e poi tra i microorganismi che vivono nel nostro corpo e noi stessi. Ho iniziato a sperimentare un tipo di interazione che non avvenisse più attraverso un tessuto, ma attraverso il contatto diretto tra la persona e gli organismi viventi.
Il master dura due anni, il primo è di ricerca e il secondo è dedicato alla tesi, e io all’inizio stavo occupandomi di un altro progetto, avevo iniziato a interessarmi alle biotecnologie e avevo già imparato a coltivare in casa organismi e cellulosa come la kombucha, ma poi ho riflettuto su questo rapporto di simbiosi tra i batteri e il corpo umano e l’ho messo in relazione alla mia passione per la tematica dei tabù femminili, decidendo di cambiare soggetto. A tre mesi dalla presentazione della tesi ho iniziato a documentarmi sulla coltura dei batteri: lavoravo nel biohacker space di Londra seguita da esperti e pian piano il progetto ha preso forma.
Future Flora è un kit che aiuta la donna a prevenire le infezioni vaginali tramite una cultura batterica fatta crescere su un assorbente in gelatina, lo stesso materiale usato dai biologi. Nel kit sono incluse delle istruzioni che la donna può seguire per capire come coltivare da sola il proprio trattamento; quando l’assorbente è pronto lo si inserisce nelle mutande e lo si indossa. In questo modo la coltura batterica entra in a contatto con la flora vaginale stimolando la crescita dei batteri mancanti.
Federica Fontana: Stimolare le conversazioni sui tabù legati alla salute femminile è una parte importante del progetto, in questo senso oltre al kit hai prodotto anche un documentario intitolato Girl Biophilia. In relazione a quest’opera, pensi che le donne siano pronte a questo cambiamento, ovvero a riconoscere e sradicare una mentalità imposta dall’infanzia?
Giulia Tomasello: Girl Biophilia è stato realizzato quattro mesi dopo la tesi, in collaborazione con l’art director Maja Zupano. Insieme abbiamo lavorato a questo video provando a immaginare cosa potrebbe pensare una donna di questo nuovo trattamento e di questa nuova opportunità. Grazie a questa ricerca ho capito che se all’inizio le donne potrebbero essere spaventate o intimidite dall’idea, non appena realizzano quanto sia fondamentale conoscere il proprio corpo e quanto possa essere innovativo concepirlo da un punto di vista batterico, e non per forza attraverso delle medicine, l’approccio cambia e si sentono perfino a proprio agio nel seguire questo nuovo rituale.
Quando ho presentato il progetto ho avuto dei riscontri molto negativi dalle donne, perché secondo me c’è ancora una barriera dal punto di vista sociale; Future Flora serve proprio a questo, a cercare di creare una conversazione dal punto di vista educativo, sia per far sentire la donna a proprio agio, sia per far capire alla società che questi problemi in realtà sono molto comuni: la candida colpisce il 75% delle donne ogni anno, il 10% di loro in maniera cronica. Nel 2016 secondo me le donne non erano ancora pronte, ma nei due anni successivi, mentre presentavo il progetto in diverse parti d’Europa e in Asia tramite conferenze e mostre, mi sono resa conto di come la società stessa stesse cambiando.
Anche il fatto che Future Flora abbia avuto un riconoscimento così importante come lo STARTS Prize – un premio dato dall’Unione Europea a favore dell’innovazione, della tecnologia e della scienza nelle arti – testimonia che qualcosa è cambiato, ed è sotto gli occhi di tutti: H&M dall’anno scorso vende magliette con scritto “empowering women” o “female power” e il movimento del #metoo sembra aver riportato un’onda di consapevolezza da parte della donna e la voglia di riscattarsi e di prendere posizione. Adesso molte più donne sembrano pronte ad accettare un prodotto come questo e ad utilizzarlo, se un giorno venisse messo in commercio. Dopo l’uscita di Girl Biophiliamolte persone hanno iniziato a scrivermi per chiedermi dove fosse possibile acquistare il kit, perché il documentario lo fa sembrare talmente vero che sembra già sul mercato.
Federica Fontana: A questo proposito mi chiedo quali siano state le reazioni che hai ricevuto quando hai presentato questo progetto: ho letto che quando è stato pubblicato su Dezeen nel 2016 ha ricevuto molte critiche sia da parte femminile che maschile…
Giulia Tomasello: Su Dezeen ho avuto un sacco di commenti negativi da entrambe le parti, anche se penso che questo sia dovuto più che altro alla natura web. In ogni caso tutto ciò mi ha fatto capire che c’è ancora una parte della società che non è pronta a parlare di tabù femminili e a trovare una soluzione. Nonostante negli anni ’60 e ’70 le donne abbiano lottato per questo, oggi ci sono ancora dei problemi nella società; il solo fatto di essere nel 2019 non significa che qualcosa è cambiato. Spesso la gente mi chiede se sono femminista: il punto non è essere femministi, il punto è essere consapevoli del proprio corpo come donna e magari avere una propria opinione e manifestarla. Non per questo poi è necessario che io sia femminista o che questo debba essere etichettato come negativo, eppure ho ricevuto anche questo tipo di critiche.
Quando mi sono laureata, questo progetto è stato accolto molto negativamente, alla Central Saint Martins sono stata quasi bocciata, e anche la prima volta che l’ho presentato in Italia nel 2016il fatto che io potessi parlare di cose così intime in pubblico destava un po’ di dubbi;il pubblico non capiva ancora quanto in realtà fosse forte sul piano educativo e quanto potesse cambiare davvero un po’ di cose dal punto di vista sociale e di prevenzione.Però al tempo stesso alle mostre o durante le mie conferenze incontravo molti uomini che avevano anche un atteggiamento favorevole a questo prodotto, e addirittura mi dicevano “sarebbe perfetto per la mia partner”, mostrando un lato più comprensivo riguardo al tema, che rimane delicato.
Federica Fontana: Hai accennato allo STARTS Prize: cosa ha significato per te vincere questo premio e che progetti hai adesso per il futuro?
Giulia Tomasello: Per me lo STARTS Prize è stato un riconoscimento, grazie a questo premio ho capito che finalmente qualcuno aveva visto il lato giusto di Future Flora, cioè che non si tratta solo di un modo per provocare la società, cosa che comunque fa, ma anche di un modo per capire se stimolare un dibattito può portare a cambiare la realtà. È possibile che un giorno la donna si prenda cura da sola del proprio corpo e ne prenda consapevolezza in funzione della prevenzione?
Da studente avevo portato avanti il progetto più sul piano educativo, cercando di stimolare la confidenza delle donne con il loro corpo e di creare delle discussioni, cosa che è ugualmente importante, perché è inutile creare un oggetto super innovativo e cool se poi la donna stessa non è pronta ad usarlo o non ne capisce il valore. Dopo il premio invece sto considerando l’idea di fare degli investimenti e portare avanti Future Flora anchein futuro, perché penso sia arrivato il momento giusto, sia per me che per la società.Ad Ars Electronica mi hanno chiesto di presentare anche altri progetti che avevo sviluppato in questi anni: in quel momento mi sono resa conto che tutti ruotano intorno allo scenario di Future Flora, e ho capito che la tecnologia e la scienza del self care femminile è proprio il miosettore. È anche grazie a questo che ora sono più determinata a portare avanti la mia ricerca.
Durante Ars Electronica ho presentato anche il mio ultimo progetto: un biosensore indossabile che monitora le variazioni di pH nei fluidi vaginali. Noi donne perdiamo fluidi costantemente e purtroppo non sappiamo mai esattamente per quale motivo, se sia legato alle normali fasi del ciclo oppure a un principio di infezione, finché non abbiamo dei sintomi. Quindi mi premeva creare qualcosa che potesse avvisare la donna quando il suo pH ha un valore eccessivo, e quindi sta andando incontro ad un’infezione batterica, oppure basso, e quindi siamo di fronte ad un principio di candida. L’idea è di agire sempre dal punto di vista preventivo con qualcosa che si possa indossare anche tutti i giorni nella propria biancheria intima.
Il sensore sarà collegato ad una app simile a quelle che permettono di monitorare la regolarità del ciclo mestruale, e molto probabilmente si chiamerà Alma. Il progetto è già a metà strada, lo sto sviluppando in laboratorio a Cambridge in collaborazione con tre scienziati che si stanno occupando del biosensore, mentre io sto sviluppando il prototipo che avrà integrata la tecnologia e la parte educativa e comunicativa del prodotto. Questo lavoro va un po’ in coppia con Future Flora, però mentre quest’ultimo potrà avere una diffusione tra un po’ di anni, Almapotrebbe trovare un’applicazione anche a breve, essendo concepita proprio come un accessorio.
Federica Fontana: Tra i progetti che ruotano intorno all’universo di Future Flora ce n’è anche uno che indaga la semantica della parola “cunt”. Puoi spiegarci in cosa consiste questo lavoro?
Giulia Tomasello: Anche in questo caso mi sono occupata di come rompere i tabù dal punto di vista delle donne in senso educativo. Sono stata invitata con altre 7 artiste a partecipare ad una mostra intitolata Reclaiming the word cunt e ognuna di noi ha prodotto delle opere per cercare di discutere e rivisitare l’uso di questa parola. Io ho lavorato con Ahaad Almoudi, una ragazza dell’Arabia Saudita: lei ha realizzato un video, io invece ho creato una zine che approccia il termine da un punto di vista etimologico e teorico, cercando di capire perché oggi la parola venga recepita con un’accezione spregiativa. Entrambe abbiamo adottato come simbolo l’immagine di un melograno, sia per ragioni storiche – nel Seicento spesso questo frutto veniva rappresentato accanto ad una donna incinta come simbolo di ricchezza e prosperità – sia per la sua conformazione, che in diversi aspetti ricorda l’anatomia femminile. Il colore del succo di melograno è richiamato sia nel video che nella pubblicazione.
Federica Fontana: Come ci hai anticipato, quando eri studente hai fatto alcuni esperimenti con la kombucha. Potresti dirci qualcosa sul progetto Bio Conductive Skin?
Giulia Tomasello: Quegli esperimenti erano stati i primi sviluppi del mio progetto di tesi, che poi ho cambiato con Future Flora; l’idea era quella di coltivare della cellulosa come la kombucha e poi hackerare il processo di crescita inserendo al suo interno delle particelle conduttive come la grafite o il rame e quindi ottenere una cellulosa conduttiva. Quando i tessuti elettronici non sono più resistenti o conduttivi si tende a buttarli via e considerarli come rifiuti elettronici, ma se si avesse a disposizione un tessuto biologico con queste caratteristiche, si potrebbe biodegradare la parte biologica e riciclare quella elettronica per creare un nuovo tessuto. Bio Conductive Skin era un modo per cercare una soluzione sostenibile per i tessuti elettronici. In seguito ho provato a creare anche una seconda pelle conduttiva indossabile, ma tutto questo è rimasto un work in progress.
Federica Fontana: Torniamo a Future Flora: offrendo la possibilità di coltivare organismi viventi in casa a scopo terapeutico, questo lavoro si configura anche come un modo per riconnettere le donne alla scienza. Questa apertura dei cittadini alla scienza è tipica della scena dei biohacker, ma nel tuo caso non viene perseguita in funzione di un potenziamento, né con l’obiettivo di riprogettare la natura, ma per ricollegarsi ad essa ad un livello diverso. Questo aspetto può essere sintomatico di una differenza tra l’approccio maschile e femminile al biohacking?
Giulia Tomasello: Sì, il progetto sfrutta questo connubio tra scienza e tecnologia per permettere alla donna di creare da sola il proprio trattamento, e questo perché ultimamente il biohacking si sta sviluppando talmente tanto che, chissà, forse un giorno tutti noi a casa avremmo un incubatore per far crescere dei batteri. Future Flora però – pur venendo da un movimento molto estremo come quello dei biohacker, che si innestano chip sottopelle per potenziarsi e diventare in qualche modo come una macchina – si muove a un livello più speculativo.
Inoltre il mio approccio è cercare di valorizzare la donna tramite la scienza e la tecnologia, di darle gli strumenti giusti per conoscere meglio l’aspetto della prevenzione intima e capire come diventare più consapevole del proprio corpo e del proprio essere tramite queste conoscenze. Il mio punto è: se un biohacker può imparare a coltivare i batteri, perché un giorno non potremmo farlo tutti, e magari dal punto di vista della medicina? Quello che cerco sempre di fare, anche quando lavoro con la wearable tech, sono progetti vicini al mondo dell’healthcare e del well-being, perché lì è dove credo ce ne sia bisogno.
Esistono già anche dei gruppi di biohacker femminili come le GynePunk in Spagna: in confronto al mio il loro approccio è molto più forte e diretto; trattandosi però di temi che sono già così delicati, io ho voluto creare un ambiente più sicuro, per far sentire la donna a proprio agio. Per questo il kit è in vetro, proprio come se fosse una cosa preziosa che si può tenere naturalmente nel comodino senza vergognarsi di mostrarlo. Dal mio punto di vista, l’aspetto educativo e della diffusione di conoscenze, è quello che manca.
Federica Fontana: A proposito di GynePunk, stavo pensando al tuo lavoro anche in relazione ad altre donne artiste che si occupano di temi analoghi, mi riferisco ad esempio a Juno Calypso che si concentra sulla costruzione artefatta della femminilità e gli stereotipi, le pratiche e i riti ad essa imposti e associati. Tu come ti poni rispetto ad opere di questo tipo?
Giulia Tomasello: Juno Calypso è sempre stata una dei miei riferimenti dal punto di vista visivo, la stessa estetica di Girl Biophilia ricalca quella Juno Calypso, quindi uno stile molto pulito, elegante, femminile, che fa sentire la donna a suo agio e protetta, sicura di sé. Il fatto che queste artiste si occupino di denunciare più che di trovare una soluzione secondo me dipende più dal contesto: io vengo da un percorso di product e interaction design e quindi mi preme necessariamente fare qualcosa che sia la soluzione a qualche bisogno. L’anno di social design che ho fatto alla Design Academy mi ha proprio aiutato a capire l’importanza della user-experience, perché si può anche progettare il prodotto più bello del mondo ma se poi nessuno lo riesce a usare non serve a niente. Quindi diciamo che a me preme soprattutto fare qualcosa che può aiutare le persone e che, anche se oggi è solo speculativo, forse un giorno potrebbe essere realtà.
Federica Fontana: Tra le tue ispirazioni citi sempre anche il libro “Our Bodies Our Bodies Ourselves”: in che modo ti ha influenzato?
Giulia Tomasello:“Our Bodies Ourselves” è un volume degli anni Settanta che hanno deciso di scrivere delle donne che si facevano chiamare Women’s Doctor e si incontravano una o due volte a settimana per parlare di temi come mestruazioni, contraccettivi, parto o gravidanza. In quel periodo questi argomenti erano considerati dei tabù e le donne non avevano modo di confrontarsi, se non con dottori che spesso erano uomini. Sentendo la mancanza di un approccio femminile, queste donne hanno iniziato riunirsi a Boston per creare delle conversazioni.
Durante gli incontri ognuna condivideva le proprie esperienze, e si cercava insieme di capire quali potessero essere le soluzioni o i rimedi ai loro problemi. Da queste discussioni è nato un libro, distribuito ad un prezzo veramente basso, per dare la possibilità a qualsiasi donna di poterlo comprare. Il volume ha avuto diverse riedizioni durante gli anni e io lo considero quasi una bibbia, perché mostra come le donne possano prendere consapevolezza del proprio corpo e riescano a diffondere questa conoscenza alle altre attraverso un modello educativo, mostrando a tutte che non c’è niente di strano nel parlare di questi argomenti e che ci sono altre donne pronte a farlo con loro.
Recentemente sto scrivendo il capitolo di un libro che verrà presto pubblicato, con titolo “Empowerment and Selfcare: Designing for the Female Body”. Questo capitolo è scritto in collaborazione con la designer Teresa Almeida, che come me, lavora su progetti riguardo la salute femminile affrontandoli da un punto di vista tecnologico e scientifico. Questa pubblicazione si focalizza sul rapporto che lega il design, la tecnologia e la scienza al mondo femminile.
Federica Fontana: I designer di biocouture stanno sperimentando come organismi come batteri, muffe, funghi ed alghe possano produrre materiali, e come questi ultimi possano essere impiegati per produrre capi d’abbigliamento biodegradabili e compostabili.
Nello specifico Suzanne Lee ha affermato che “i microbi sono la fabbrica del futuro” e che avranno un ruolo sempre più importante nella nostra vita e nel nostro benessere. Tu sei d’accordo con lei?
Giulia Tomasello: Credo sia la strada giusta. Con tutta questa attenzione che abbiamo per la plastica, ad esempio, o per i componenti elettronici, una progettazione che impieghi gli organismi viventi o anche alghe e funghi è sicuramente il futuro. Se pensi che perfino la Fondazione di H&M ha istituito il premio Global Awareness Award per finanziare cinque studi che producono materiali biologici da un punto di vista industriale, è chiaro che l’aspetto della sostenibilità nei materiali sta davvero prendendo piede. Quindi se si comincia a sviluppare un materiale biologico che può essere integrato nella vita quotidiana anche da un punto di vista artistico, questa per me è la strada giusta. Il progetto della kombucha conduttiva che stavo sviluppando in università nasce proprio dal progetto Biocouture di Suzanne Lee.
Credo nel futuro della wearable technology, dove un giorno la tecnologia sarà davvero indossabile, anche se per ora siamo molto lontani per problemi di lavaggio e di alimentazione. Gli investimenti necessari non sono ancora stati fatti e la direzione giusta da prendere è e sarà quella del benessere e salute a livello medico.