Con la definizione “hybrid design” viene proposto un approccio progettuale che si propone di mutuare nella cultura del progetto la complessità insita nelle logiche, nei codici e nei principi del mondo biologico. Nell’hybrid design le qualità complesse tratte dal mondo biologico vengono trasferite al design di prodotti e servizi innovativi come una sorta di “nuovo codice genetico”.
Per raggiungere questo obbiettivo si fa riferimento alle più recenti conquiste delle scienze biologiche e alle correlate speculazioni teoriche con la volontà di superare la dimensione consueta dell’approdo a facili metafore estetiche e formali, e affrontando, piuttosto, un percorso rigoroso di matrice scientifica, basato su una specifica metodologia messa a punto e verificata attraverso ricerche teoriche e progettuali.
Le attuali conoscenze biologiche hanno svelato che non necessariamente i sistemi biologici funzionano in maniera “esatta”, piuttosto è la loro complessità che gli consente di sopravvivere al variare delle condizioni esterne e interne. Complessità che l’hybrid design si propone di mutuare attraverso il trasferimento delle strategie biologiche al design, per di-svelare nuovi scenari di sperimentazione concettuali e operativi.
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I cicli della natura
Adottare nel design codici, principi e logiche tratte dalla biologia, significa non solo ispirarsi a come la natura realizza i suoi prodotti, ma soprattutto a come li sviluppa, li cresce e li mantiene in vita. In questo modo si ottiene un’evoluzione del paradigma progettuale bio-ispirato che non si basa più soltanto sull’interrogativo: “come la natura realizza i sistemi biologici?” ma aggiunge: “come la natura li cresce e li mantiene in vita?”.
Dalla risposta a tali domande possono essere tratti i principi mirati alla chiusura dei cicli delle risorse utili per il progetto e la realizzazione di artefatti compatibili con i cicli biologici che regolano la vita degli uomini e l’ambiente naturale in un’ottica zero emission o cradle to cradle. Il concetto di ciclicità è infatti legato a quello di tempo biologico. I processi naturali avvengono in forma ciclica, i rifiuti di alcuni sistemi diventano risorse per altri. La durata dei materiali deve essere proporzionata alla durata della vita dei prodotti nei quali vengono utilizzati. Imparare a progettare dalla natura significa anche imparare ad applicare la ciclicità chiusa propria dei processi biologici.
Esiste una sostanziale differenza tra il modo di produrre degli uomini e della natura. L’uomo, nel realizzare i propri artefatti, prende le materie prime dalla natura e le trasforma ottenendo dei prodotti che, alla fine della loro vita utile, si tramutano in scarti, emissioni prevalentemente non utilizzabili che si accumulano nell’ambiente danneggiandolo. La natura, invece, preleva materie prime, le trasforma e vi realizza i suoi prodotti che crescono, si riproducono e alla fine della loro vita rientrano nei cicli biologici reintegrandoli. In natura tutto viene riusato o riciclato.
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Secondo la metafora biologica utilizzata dal design bio-ispirato, ogni prodotto, o sistema di prodotti, può essere paragonato a un organismo in cui tutte le parti, pur avendo differenti cicli di vita, sono legate tra loro mediante relazioni complesse. Spesso i diversi componenti di un prodotto sono caratterizzati da durabilità diverse e differenti tempi di obsolescenza. La scelta dei materiali da utilizzare e, eventualmente, il progetto ad hoc di alcuni di essi deve, dunque, tener conto della necessità di prevedere per i diversi elementi tecnici differenti cicli di vita.
Nel prefigurare tali cicli è necessario dedicare la massima attenzione al loro impatto ambientale e alla loro durata, che deve essere compatibile con quella prevista, in relazione alle specificità dell’impiego. In particolare, è indispensabile valutare in anticipo le prestazioni ambientali di tutti i materiali e componenti nelle fasi che vengono successivamente alla dismissione, come riuso, riciclo ed eventuali nuovi cicli di vita.
L’attenzione alla ciclicità temporale dei materiali induce all’uso di materiali riciclabili, provenienti da materie prime rinnovabili o materiali biodegradabili e compostabili per prodotti che hanno cicli di vita molto brevi, come i sistemi di packaging o i cosiddetti prodotti “usa e getta”, come per esempio il “moscardino” progettato da Matteo Ragni e Giulio Iacchetti per Pandora Design. In questi casi la capacità del materiale di disperdersi nell’ambiente consente di evitare di aumentare il volume dei rifiuti solidi deposti.
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Autonomia
Nel design il concetto di autonomia può essere interpretato e trasferito come autonomia dalle operazioni di manutenzione, pulizia, riparazione, sostituzione, qualità preziose perché consentono di evitare gli impatti ambientali ad esse legati. Dai sistemi biologici possono essere tratti principi mirati all’autonomia degli artefatti in tutto il loro ciclo di vita in termini energetici, ed alla chiusura dei cicli delle risorse. Il design ecologicamente sostenibile può imparare dalla natura, ad esempio, le strategie più adatte per utilizzare le fonti energetiche rinnovabili, per riciclare le risorse non rinnovabili, per riutilizzare i rifiuti, fino a giungere alle strategie più complesse come quelle basate sulle capacità di auto-monitoraggio e di autoriparazione.
Molti sistemi biologici sono in grado di modificare le proprie caratteristiche in funzione del mutare dei fattori esterni, in modo da sopravvivere a tali cambiamenti. È quello che avviene nei fenomeni di autoriparazione che possiedono diverse piante ed animali. Negli organismi viventi, ad esempio, il nascere di una lesione genera un meccanismo di auto-riparazione. Nel corpo umano, quando viene causata una ferita, immediatamente avviene un afflusso di liquidi in corrispondenza della parte del corpo interessata, che attivano un insieme di reazioni fisiologiche capaci di causare la chiusura della lesione. Utilizzando una strategia analoga, alcuni ricercatori del Beckman Institute for Advanced Science and Technology della University of Illinois , coordinati da Scott White, hanno sviluppato dei “self-healing polymers”, compositi polimerici in grado di auto-ripararsi (1), che potrebbero essere usati nel design di diversi tipi di prodotti al fine di evitare, quando si verifica una piccola lesione, la sostituzione della danneggiata o la dismissione dell’intero. In questi compositi vengono inglobate delle microcapsule che, quando il materiale subisce una lesione, si aprono e rilasciano una resina che polimerizza istantaneamente chiudendo la frattura nella matrice (2).
La ricerca nel campo dei nuovi materiali e l’evoluzione delle nuove tecnologie di produzione offrono sempre nuove opportunità in termini di autonomia energetica come le tecnologie fotovoltaiche in film sottili e flessibili, che offrono l’opportunità di rendere autonomi i dispositivi alimentati elettricamente integrandosi a tutte le forme e dimensioni.
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Auto-organizzazione e adattamento
Il concetto di auto-organizzazione ha attraversato molte discipline dalle quali sono emerse diverse definizioni. Secondo i teorici della complessità, l’auto-organizzazione sembra essere uno dei principi più importanti nella capacità di evoluzione, poiché si traduce in capacità di generare strutture potenzialmente vincenti nella selezione naturale. I sistemi capaci di auto-organizzarsi spontaneamente aumentano le loro possibilità di evolvere ulteriormente. Le caratteristiche auto-organizzate sono anche quelle più facilmente ri-modellabili, dunque più flessibili. Gli organismi per sopravvivere al mutare delle condizioni, interne ed esterne, tendono a modificare se stessi e ad evolversi nel tempo, in modo da utilizzare le proprie risorse nella maniera più efficiente possibile. Il concetto di auto-organizzazione è stato trasferito in diversi ambiti disciplinari.
Nel design trasferire i concetti di auto-organizzazione e adattabilità agli artefatti significa intervenire, complessificandolo, sul rapporto tra essenza della materia e prestazioni. L’adattabilità di un prodotto può essere intesa, infatti, come capacità di modificare le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne, dunque potrebbe tradursi in flessibilità prestazionale o in multi-funzionalità. Il designer francese Mathieu Lehanneur, ha ottenuto la Carte Blanche VIA 2006 progettando la collezione “Elements“, costituita da dispositivi per l’abitare, in grado auto-adattarsi dinamicamente, al variare delle condizioni esterne,per creare condizioni di confort. Oggetti che modificano le proprie prestazioni, in funzione di sollecitazioni provenienti dall’utenza o dall’ambiente.
Il concetto di auto-organizzazione è importante dal punto di vista della sostenibilità ambientale in termini di risparmio delle risorse materiali e energetiche. Un sistema è reso adattabile prevedendo i possibili cambiamenti ai quali si dovrà adeguare, anche se riguardano soltanto una parte di esso. In questo modo è possibile estendere di molto la vita utile di un prodotto. I prodotti del design devono essere, quindi, adattabili e aggiornabili al variare dello scenario tecnologico, dell’ambiente economico e delle condizioni esigenziali dell’utenza. Gli oggetti progettati e realizzati per essere flessibili, modulari e riconfigurabili sia dal punto di vista prestazionale che dimensionale ed estetico, sono destinati sicuramente a durare di più e, dunque, a poter essere usati per tempi più lunghi, ottenendo un considerevole vantaggio ambientale legato al risparmio protratto per un tempo più lungo delle risorse materiali ed energetiche, necessarie alla sua manutenzione o sostituzione.
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Il principio principio ologrammatico
Il principio ologrammatico della complessità, sul quale si basano gli organismi viventi prevede che: non solo la parte è nel tutto, ma è anche il tutto che è incluso nella parte (3). La cellula, ad esempio, è parte dell’organismo, che contiene anche l’informazione genetica del tutto.
In base alla metafora biologica, gli artefatti possono essere interpretati come organismi, nei quali ogni parte, ogni elemento, partecipa ad una strategia progettuale globale estesa agli infiniti livelli che vanno dalla dimensione nanometrica a quella macrometrica.
L’hybrid design adotta una metafora biomimetica, secondo la quale nel progetto degli artefatti questi vengono interpretati come organismi, in cui ogni elemento, secondo il principio ologrammatico, a tutte le scale, da quella dei materiali fino a quella macroscopica, partecipano ad un comune concept globale. Nell’ambito del design per la sostenibilità, questo approccio può offrire una struttura metodologica nella quale le strategie sostenibili bio-ispirate vengono riflesse in tutte le dimensioni e in tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto, come una sorta di “codice genetico” in grado di conferire una coerenza di sistema per il progetto che si rivela particolarmente utile per ottenere il migliore risultato possibile in termini di minimizzazione dell’impatto ambientale.
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Ridondanza e multifunzionalità
I sistemi biologici posseggono una qualità definita “ridondanza”, che consente loro di sopravvivere anche agli eventi più imprevisti e pericolosi, rispondendo ad essi con l’utilizzo di elementi o caratteristiche apparentemente “superflui”, la cui esistenza trova giustificazione solo quando si manifesta la necessità. Spesso le strategie progettuali orientate alla sostenibilità ambientale tendono alla minimizzazione. Il concetto di ridondanza sembra, dunque, in antitesi con questo tipo di approccio. Ma, in alcuni casi, la ridondanza costituisce una soluzione molto efficace per evitare sprechi di risorse. Ad esempio, l’uso di pellicole protettive applicate su superfici ad elevata deperibilità o molto fruite, come le pavimentazioni di luoghi con frequente passaggio, consentono di conservare per periodi molto lunghi componenti o parti di edifici che, altrimenti, richiederebbero continue sostituzioni e conseguenti ricadute ambientali.
La ridondanza può essere anche funzionale. In natura la maggior parte degli elementi sono multifunzionali poiché le condizioni ambientali cambiano di momento in momento e i sistemi biologici devono essere pronti a rispondere con una delle possibili funzioni. Alcuni insetti, ad esempio, hanno diverse coppie di zampe, ognuna delle quali compie una funzione diversa. La multifunzionalità è una tendenza ormai consolidata nel design contemporaneo, i ritmi di vita sempre più frenetici e il loro continuo cambiare impone che i prodotti di uso quotidiano siano trasformisti, mutanti, in grado di adattarsi ai cambiamenti di esigenze e di condizioni esterne.
Oggetti e componenti multifunzionali o ridondanti, dal punto di vista prestazionale, si possono facilmente adattare a diverse applicazioni e, dunque, sono in grado di ‘sopravvivere’ più a lungo.
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Dispositivi che inglobano diverse funzioni come i vetri elettrocromici, che riuniscono in un unico oggetto i vetri e il sistema di schermatura solare, o i materiali elettroluminescenti e fotoluminescenti, che consentono di riunire in un unico sistema materico i diversi elementi necessari per realizzare una lampada come corpo illuminante, cavi elettrici, interruttori, sostegno, diffusori.
Integrare le funzioni in un unico prodotto significa risparmiare, in termini economici ed ambientali, le risorse materiali ed energetiche necessarie a realizzare i diversi prodotti sostituiti.
Note
(1) S.R. White, N.R. Sottos, P.H. Geubelle, J.S. Moore, M.R. Kessler, S.R. Sriram, E.N. Brown, S. Viswanathan: “Autonomic healing of polymer composites”, Nature. 2001 409, 794-797.
(2) Brown, E.N., White, S.R. and Sottos, N.R. “Retardation and repair of fatigue cracks in a microcapsule toughened epoxy composite-Part II: In situ self-healing”. Composite Science and Technology, Special Anniversary Issue. 2005: 65, 2474-2480.
(3) Morin E., Le Moigne J.L. (1999). L’Intelligence de la Complexité . L’Harmattan. Paris.