Parlare di identità digitale in Italia può lasciare presupporre che essa costituisca un caso particolare rispetto a ciò che si è sviluppato nell’ultimo decennio in altri paesi. Ovviamente non è questa la verità, anche se è vero che l’Italia ha sviluppato negli ultimi 10-15 anni un rapporto con la Rete, con i social network e più in generale con le strutture open e p2p un rapporto controverso, e in parte unico rispetto a molti altri paesi Europei.
Se da un lato abbiamo infatti contato almeno due “ondate” di artisti (spesso legati – per formazione – alle controculture e alle sperimentazioni d’avanguardia) che si sono confrontati con la Rete e le sue strutture in maniera critica rispetto al concetto di identità (e non solo), è altrettanto vero che la tendenza del Bel Paese alla chiacchiera populista e alla rappresentazione entusiasta e “funzionale” del sé – il tutto amplificato da un periodo di forte crisi economica e di destrutturazione definitiva del contesto politico, culturale, economico e lavorativo – si è sposata perfettamente con quella deriva dei network a selezionare (in maniera algoritmica e/o personale) le proprie reti sulla base di processi di valore non solo affettivi ma sempre più sociali, economici e professionali.
Potremmo in questa sede celebrare l’Italia come uno dei paesi che ha riflettuto maggiormente in Europa – da punto di vista artistico – sui cambiamenti di Internet, sia da un punto di vista strettamente tecnologico, che politico e sociale. Eva e Franco Mattes (http://0100101110101101.org/, tra i membri dello storico collettivo di artisti, attivisti, scrittori e performer Luther Blisset, da cui è nato poi anche il collettivo di autori Wu Ming) ad esempio, è dal 2000 che lavorano sull’idea di rappresentazione in Rete, di identità, di copia, riflettendo non solo sull’aspetto invasivo di Internet nelle nostre vite ma anche e soprattutto su come l’individuo (a volte lo stesso artista) si relaziona con Internet nella rappresentazione e nel racconto di sé stesso (o di una versione fittizia di sé) verso gli altri. Lavori come Darko Maver (1998-1999), Life Sharing (2000-2003), Portraits (2006-2007), No Fun (2010), My Generation (2010), Emily’s Video (2012) sono tutti ottimi esempi di ciò. Paolo Cirio si spinge addirittura oltre l’uso di un singolo media e si concentra sull’ambiente informativo creato dal flusso dei dati; il suo è un approccio spesso politico, oltre che sociale, mutuato dalla sua esperienza nel collettivo [epidemiC], che agisce contro le macrostrutture economiche e politiche della Rete. Come afferma Tatiana Bazzichelli in una storica intervista su Digicult “Paolo Cirio interviene collocando tatticamente alcuni tasselli di un puzzle che può essere terminato solo coinvolgendo direttamente i suoi referenti, siano le corporation, gli apparati mediatici, o i cosiddetti “utenti” della rete”. In questo senso non possiamo non ricordare lavori come People Quote People (2007), Open Society Structures (2009), Face to Facebook (2011), Street Ghosts (2012) e il più recente Overexposed (2015). Pensiamo ancora ai lavori di Molleindustria, progetto di videogaming radicale online di Paolo Pedercini che si è sempre occupato di temi sociali e politici forti, dal precariato e l’alienazione del lavoro alle deviazioni (spirituali e non) delle religioni, a simulazioni satiriche dei processi che sottendono l’operato di alcune grosse multinazionali. Rivedere oggi il lavoro Mayday NetParade (2004) rimanda istintivamente alla necessità ancora valida di osservare un definitivo “autoritratto del nuovo precariato”, di poter manifestare una qualche possibilità di “autorappresentazione” delle controculture: la dissonanza con ciò che è successo lo scorso 1 Maggio 2015 a Milano, in occasione dell’inaugurazione di Expo, è sotto gli occhi di tutti. E ancora, in epoche più recenti, come non menzionare la ricerca di Mauro Ceolin, dei Les Liens Invisibles, dello stesso Marco Cadioli e di Salvatore Iaconesi che nel 2012 – per la prima volta nella storia – ha hackerato la propria cartella medica condividendo (da un punto di vista medico ma anche visivo, come una rappresentazione di sé ai raggi X) il dramma del suo tumore al cervello con il resto della Rete nel progetto My Open Source Cure, aprendo un dibattito internazionale sull’utilizzo dei nostri dati personali in Rete, sull’individuo come soggetto sociale non solo nella struttura pubblica reale, ma anche e soprattutto in quella virtuale.
Al loro fianco, figure storiche di critici, giornalisti e curatori si sono cimentati nell’opera di “raccontare” questo fenomeno artistico e riflettere sulle tematiche da esso proposto: da Alessandro Ludivico, direttore e fondatore di Neural a Marco Deseriis, ricercatore e autore del testo seminale “Net.Art: L’arte della Connessione” (2008) insieme a Giuseppe Marano, da Tatiana Bazzichelli, critica, curatrice, attivista e recentemente autrice del libro “Networking. La Rete come arte” a Valentina Tanni, storica firma di Random Magazine e Artribune e autrice del progetto “The Great Wall of Memes” (2014-2015), da Franziska Nori curatrice della collettiva I love You (2002, 2004), una delle prime mostre in Italia su queste tematiche, a Domenico Quaranta che in tempi più recenti ha avviato il Link Art Center insieme a Fabio Paris ma che in tempi passati curò due mostre seminali, Connessioni Leggendarie. Net.art 1995-2005 (insieme a Luca Lampo, anch’egli ex-membro di [epidemiC]) a Game Scenes nell’ambito del Piemonte Share Festival del 2005 (da cui poi il libro Gamescenes. Art in the Age of Videogames con Matteo Bittanti, 2006). Non dimenticando di certo, figure più legate a un discorso sociale e politico, da Jaromil con la fondazione Dyne.org, che dal 2000 si occupa di fare ricerca e sviluppo su software e piattaforme free e open source, alla rete di San Precario e a quella di Serpica Naro, dalla OrfeoTv di Franco ‘Bifo’ Berardi ai libri di Ippolita (collettivo che ha prodotto i testi Open non è Free e Nell’acquario di Facebook) senza dimenticare le riflessioni sui corpi virtuali di Antonio Caronia, saggista, accademico e giornalista recentemente scomparso, a cui questa nostra riflessione è dedicata.
Consapevoli di aver dovuto compiere una selezione molto escludente, ci rendiamo anche conto che nonostante la qualità e la quantità di riflessioni sull’argomento, si percepisce un crescente smarrimento nel rapporto identitario degli Italiani in Rete. L’Italiano si comporta seguendo schemi mutuati dalla propria tradizione sociale: egli “gesticola” in Rete, si fa vedere, appare spesso per quello che non è, parla di tutto ed esprime opinioni su tutto. Si confonde, si mescola, si ricicla in nuovi ambiti sociali, funzionali alla propria narrazione, privata o professionale. Gioca acriticamente con linguaggi e codici visivi ormai condivisi su scala globale. È come se molte delle tematiche trattate negli anni dai nostri artisti, critici, curatori siano meno appealing, meno interessanti per la collettività, quasi datate, a discapito di nuovi modelli di narrazione di se in Rete che passano con maggiore facilità attraverso le maglie larghe dell’innovazione culturale, della open culture, della net economy.
Riflettendoci, l’identità è un concetto legato a quello di persona, che, derivando dal greco, rimanda alla maschera, a quell’insieme cioè di strati che coprono, coscientemente o meno, ciò che nella cultura occidentale viene inteso come elemento genuino. La natura prima dell’individuo. Ed effettivamente, l’Italiano oggi in Rete si comporta egli stesso come una “maschera”, nella duplice accezione di “indossare” una maschera (che nasconda la sua vera identità) e di “essere” un “personaggio”, spesso “macchietta” di sé stesso, con le sue peculiarità e le sue narrazioni spesso eccessive. A tal proposito, il momento storico in cui in Italia si è potuto percepire in maniera collettiva l’avvenuta accelerazione verso nuove strutture collettive di Rete, è stato il biennio 2008-2009, quando Facebook si diffuse non solo tra i cosiddetti nativi digitali – termine-ombrello generico quanto efficace nella nostra trattazione – ma anche alle generazioni precedenti. Ciò costituì una delle cause all’origine di due approcci alla Rete distanti tra loro che dialogano nel 2015 in maniera più o meno diretta: il suo utilizzo in ambito professionale, oltre che privato. Nella crescente fusione tra la sfera professionale e quella personale, tra le ore in ufficio e quelle deputate alle attività ricreative, la stessa gestione del tempo cambiò: si iniziò a percepire una dilatazione sempre più accentuata dell’uno sull’altro e viceversa, andando ad estendere il feticcio per la reperibilità-sempre-e-comunque massificata quasi un decennio dopo dall’uso degli smart-phone.
Da una parte quindi l’idea della Rete come “piazza digitale”, luogo “democratico” in cui la logica binaria appiana le differenze tra individui e ne fa utenti con pari dignità, accomunati dalla possibilità di manifestare la propria identità più intima senza la mediazione della “vita reale”. Dall’altra, quella promossa dal sistema, ovvero il branding di sé stessi, della “cura” calcolata, spesso utilizzando strumenti creati ad hoc come Klout o Google Analytics. Una serie di step nello storytelling della propria experience.
Tale fenomeno non esclude gli intellettuali, la cui legittimazione popolare passa quasi sempre, in Italia, dalle loro posizioni nelle discussioni riguardanti i temi più caldi del momento: dalla politica al sociale, dallo sport all’ironia spicciola, essi devono essere capaci di gestire i propri personaggi in modo da non essere interpretato come una figura appartenente ad una zona grigia, non ben definita. Stare dalla parte de “la gente” (e in maniera più raffinata, dalla parte delle “controculture” e delle “avanguardie artistiche” da cui mutuare codici, linguaggi, reti) è, soprattutto negli ultimi anni, un modo veloce e facile per riattivare carriere ormai in fase calante. O per avviarne di completamente nuove e inaspettate. In questo senso quindi, si sono registrate delle criticità narrative dei mondi dell’arte e della cultura. Quelle branchie del sociale che per tradizione e obbiettivi dovrebbero riflettere e partecipare attivamente al contesto reale di un paese, illustrandone lo stato morale, ricoprendo il ruolo di guida e dettando il pensiero critico delle persone che lo abitano, nel corso dell’ultimo lustro, hanno subìto strutture di Rete sempre più liquide e instabili, caratterizzate come sono da strutture sociali complesse, con comportamenti e narrazioni ambigue che spesso risultano rappresentative di una percezione condivisa.
In questo senso è confortante (ma non sorprendente) vedere come alcuni artisti italiani della seconda ondata, hanno la forza di riflettere sulle nuove modalità di rappresentazione del sé in Rete. Forse perché cresciuti in un contesto maggiormente internazionale che permette loro di confrontarsi con linguaggi e studi diversi, forse perché figli della crisi economica e politica in atto, le loro modalità di azione artistica risultano spesso ironiche, fortemente estetizzanti, attente alla complessità del contemporaneo senza però correre il rischio di “ridurre” la narrazione a un’esercizio di tecnica e/o di intepretazione. È una modalità di narrazione specchiata, di osservazione meditativa, che lungi da atteggiamenti acritici, porta con se invece una feroce denuncia, disillusione e rabbia verso lo status quo dell’arte, della società e della cultura Italiana.
Uno degli esempi più noti, in Italia quanto all’estero, è sicuramente rappresentato da IOCOSE, ovvero Matteo Cremonesi, Filippo Cuttica, Davide Prati e Paolo Ruffino. Dislocati in tutta Europa, hanno dato vita al collettivo nel 2006 e da allora hanno realizzato lavori che riflettono la disillusione di una generazione cresciuta nell’ottimismo tecnocentrico degli anni Novanta. Non credono nella legittimità delle grandi narrazioni fornite dal sistema o dalle utopie e il loro linguaggio, spesso stralunato, restituisce questo disincanto: esempi in questo senso sono Yes We Spam! (2008), A Crowded Apocalypse (2012) e In Times of Peace (2014).
Alto collettivo dislocato in tutto il mondo è Alterazioni Video. Formati attualmente da Paololuca Barbieri Marchi, Alberto Caffarelli, Andrea Masu e Giacomo Porfiri, dal 2004 realizzano video, installazioni e opere relazionali focalizzate – molto spesso – su situazioni specifiche della società italiana. Il progetto Incompiuto Siciliano si inserisce in questa tradizione: inizato nel 2006, è un lavoro in cui stanno tenendo traccia delle grandi opere statali incompiute che popolano il paesaggio italiano (i cosiddetti “ecomostri”), dando loro una nuova dignità in ambito estetico ed artistico.
Appartenente alla stessa generazione, ma con l’attenzione rivolta verso problematiche diverse, è Silvio Lorusso. Artista e designer, nelle sue opere coniuga una capacità quasi clinica di osservazione di specifiche tematiche a una formalizzazione mai didascalica, sempre sorprendente. E il caso, ad esempio, di Kickended (2014), in cui archivia un ampio numero di campagne di crowdfunding che non sono riuscite a racimolare nemmeno un dollaro su Kickstarter. Il progetto, presentato con una grafica e una meccanica che richiama immediatamente l’estetica della piattaforma americana, se la ride amaramente della promessa (disattesa) di successo economico alla base della narrazione neoliberista di queste piattaforme.
Di difficile definizione e categorizzazione è infine Salvatore Iaconesi, artista, hacker, designer, attivista che insieme a Oriana Persico ha lanciato la piattaforma/network internazionale Art Is Open Source. Per mezzo di questo progetto inter disciplinare e cross mediale, Salvatore e Oriana esplorano in modo del tutto originale le possibili compenetrazioni, estetiche, sociali, politiche tra il mondo online (con le sue sovrastrutture) e quello offline (con le sue infrastrutture). Il codice, il dato, l’espressione binaria, diventa nel loro caso algebricamente rappresentativo di una narrazione delle nostre esistenze, di una rappresentazione delle nostre identità, che traspare in maniera del tutto spontanea attraverso gli “interstizi codificati delle nostre città, delle nostre vite, degli spazi privati e pubblici in cui ci dedichiamo al lavoro, al consumismo e alla racconto funzionale di noi stessi”.