Recentemente, in occasione della sua prima Triennale, la National Gallery of Victoria di Melbourne ha presentato una nuova collezione di oggetti. Si tratta di due cubicoli, una sedia, una scrivania, un tavolo di alluminio, alcune immagini della superficie di Marte scattate dalla NASA, un cestino per la carta placcato in oro e un armadietto. Oltre ad essere dei deliziosi arredi da ufficio, riuniti a comporre una postazione di lavoro poetica e minimalista, queste opere rappresentano anche un saggio stimolante su come riciclare i materiali di scarto dei nostri elettrodomestici, computer e cellulari, che è esattamente il materiale di cui sono fatti. Tastiere, griglie per microonde, componenti per iPhone e rivestimenti esterni per smartphone, tradiscono la loro presenza incorporati in ogni pezzo come dettagli preziosi.

Il nome della collezione è Ore Streams, e si tratta dell’ultimissimo progetto del duodi designer italiani di stanza ad Amsterdam Studio Formafantasma, alias Andrea Trimarchi e Simone Farresin. Come spesso accade nelle loro opere, ci si avvicina ad ogni pezzo attratti dall’essenzialità e dall’eleganza del linguaggio visivo, dall’appeal dei materiali, per poi scoprire che tutto questo è solo la punta dell’iceberg, e che l’estetica è probabilmente solo l’ultima cosa da apprezzare nel loro lavoro. Nel caso specifico, alcune video interviste a 8 canali e un’animazione rendering 3D incluse nell’installazione raccontano agli osservatori quanto questo lavoro parta da lontano e quante vie possa seguire per svilupparsi ancora di più.

Ore Streams è il risultato di più di due anni di ricerca, partita approcciando il tema dell’estrazione di minerali per poi concentrarsi in particolare sull’above ground mining (l’estrazione di superficie), l’e-waste e lo smaltimento dei dispositivi digitali. Questa parabola ha portato alla luce alcune delle questioni ambientali più trascurate e cruciali della nostra epoca, come ad esempio: la crescita compulsiva dei rifiuti elettronici in seguito alla sovrapproduzione e all’obsolescenza programmata degli apparecchi; l’esportazione illegale di scarti tecnologici nelle discariche dei paesi in via di sviluppo e le sue implicazioni per la salute; l’innovazione a senso unico propugnata dall’industria tecnologica e il ruolo dei designer in questo scenario.

Come di consueto nella pratica investigativa, collaborativa e interdisciplinare di Studio Formafantasma, questo progetto ha coinvolto realtà di vario tipo, come aziende, istituti di ricerca, NGO e centri di riciclo di rifiuti elettronici, per poi finire in un museo in forma di un’opera d’arte, fatta più per sensibilizzare e stimolare la riflessione che per essere venduta. Fin dall’inizio il loro lavoro ha esplorato i collegamenti tra design, cultura, tradizione e sostenibilità, e le molteplici storie che si celano nei materiali.

Inaugurato nel 2009 presso la Design Academy di Eindhoven con la tesi di laurea Moulding Traditions – uno studiosull’immigrazione nordafricana e la mescolanza culturale in Sicilia dal XVII secolo ad oggi, affrontato rivisitando la tradizionale produzione ceramica delle teste di Moro – il loro portfolio ad oggi può vantare, per citare solo un paio di esempi: Botanica,una ricerca sulla bio-plastica e i polimeri naturali estratti da piante e derivati animali incarnata in una serie di vasi, e De Natura Fossilium, una collezione di oggetti realizzati con lava vulcanica, modellata e trattata come fosse vetro.

Dopo aver ricevuto il premio di EDIDA – Elle Deco International Design Awards come designers dell’anno 2018 durante l’ultima Milano Design Week, ho contattato Andrea e Simone per farmi raccontare qualcosa in più su Ore Streams, in particolare sui risultati di questa ricerca e sui suoi sviluppi futuri.

Federica Fontana: La ricerca è fondamentale per voi e l’avete ripetuto in ogni occasione, quindi partirei proprio da questo e vi chiederei di raccontare un po’ come ha funzionato per Ore Streamse quali sono stati i passaggi che vi hanno portato ad affrontare questo tema.

Simone Farresin: Ore Streams è stato commissionato dalla National Gallery of Victoria di Melbourne, che ha organizzato quest’anno la prima Triennale con un centinaio di artisti e designer; la loro richiesta era quella di sviluppare un lavoro che il museo avrebbe poi acquisito, e il curatore Ewan McEoin era interessato al nostro approccio ai materiali. La cosa che ci è sembrata interessante dell’Australia è che si tratta di uno dei pochi paesi sviluppati che ha un’economia ancora molto incentrata sull’estrazione di minerali dal sottosuolo, quindi la nostra ricerca è partita proprio da questo.

Spesso come designer siamo chiamati a disegnare il futuro dei materiali, a trasformarli in oggetti più o meno desiderabili, invece a noi sembrava più interessante cercare di capire le implicazioni della produzione, quello che succede prima che questi materiali arrivino alle fabbriche, ai produttori e ai designer, da cosa e come vengono estratti. Quindi ci siamo imbarcati in un paio d’anni di ricerca su questo tema e dall’estrazione di metalli dal sottosuolo nel corso del tempo ci siamo focalizzati sull’“above ground mining”, l’estrazione che avviene in superficie. Abbiamo letto vari documenti in cui si stimava che entro la fine del secolo la maggior parte dei metalli che useremo nei nostri prodotti e nelle nostre architetture sarà di origine riciclata.

Ci interessava focalizzarci su questo perché, nonostante l’estrazione mineraria abbia un impatto tremendo sull’ambiente, molto spesso anche l’economia e le politiche che circolano attorno al riciclo sono altrettanto complesse e vale la pena osservarle da vicino. Nello specifico, abbiamo deciso di focalizzarci sull’industria elettronica perché dagli scarti di elettronica si possono recuperare dei metalli, in particolare dei metalli preziosi, che vengono utilizzati per i circuiti. Abbiamo fatto questa scelta non tanto perché l’industria elettronica sia quella che produce il maggior scarto ma perché è il flusso di rifiuti che cresce più rapidamente in questo momento, e anche perché la maggior parte del nostro lavoro d’ufficio si basa su questi oggetti e su queste tecnologie. Noi abbiamo voluto partire proprio da lì, dagli strumenti che utilizziamo quotidianamente, e cercare di capire come funziona la relazione tra produzione, riciclo e design.

Federica Fontana: Questo tra l’altro è un aspetto di cui oggi si discute pochissimo, si parla molto di innovazione ma non altrettanto del riciclo di questi dispositivi e delle sue implicazioni…

Simone Farresin: Il concetto di innovazione è molto importante, il modo stesso in cui lo definiamo rientra in questa discussione. Quando si parla di questi prodotti l’innovazione viene letta solamente nel senso dei bisogni e delle esigenze degli utenti, ma se considerassimo il riciclo uno dei parametri per giudicare i livelli di innovazione non credo che i dispositivi elettronici risulterebbero ai primi posti. Tra l’altro per lungo tempo molti di questi prodotti sono stati abbandonati nei paesi in via di sviluppo, che vengono tuttora utilizzati come dei veri e propri centri di riciclaggio a cielo aperto.

Andrea Trimarchi: Nel corso della nostra ricerca abbiamo parlato con produttori e centri di riciclo ed è emerso come la maggior parte di questi prodotti elettronici non siano disegnati per avere una seconda vita. Mentre si poteva accedere facilmente all’interno dei dispositivi di una volta per riciclare i componenti, tutte le nuove generazioni – iPhone, iPad, ma anche elettrodomestici – sono difficili da smontare, proprio perché le varie ditte non vogliono che l’utente abbia accesso all’interno di questi oggetti. Questo è un problema gigantesco soprattutto nei paesi in via di sviluppo perché è lì che si riciclano i componenti, e nella maggior parte dei casi questi oggetti non sono pensati per essere disassemblati.

Ti faccio un esempio: in qualunque cellulare di ultima generazione non è possibile accedere alla batteria, che è una delle parti più pericolose all’interno di un dispositivo: questo significa che nel momento in cui questo oggetto dev’essere riciclato, per poterla rimuovere bisogna rompere lo schermo. Nella maggior parte dei casi questo contiene mercurio e materiali che, se dispersi nell’ambiente, sono dannosi per la salute, in particolare per quella delle persone che li maneggiano. Parlando con tutti i soggetti coinvolti in questo progetto ci siamo proprio resi conto di come manchino dei link tra il designer, che è poi colui che da forma agli oggetti, e i processi di riciclo.

Federica Fontana: Sulla base delle vostre ricerche, queste difficoltà nel processo di riciclaggio degli apparecchi elettronici sono un problema soprattutto di design, oppure derivano anche da una mancanza di legislazione, o da uno scarso interesse da parte delle aziende?

Simone Farresin: Come ha detto Andrea noi abbiamo contattato produttori e aziende che si occupano di riciclo qui in Europa. Fuji Xerox è stata l’unica che ci ha aperto le porte e ci ha invitato a visitare il loro centro di riciclaggio in Thailandia, perché hanno un programma di riciclo incredibile. Infine abbiamo parlato con delle NGO di base in centro Europa, e in particolare tra Belgio e Olanda, che si occupano di organizzare dei workshop responsabili per il riciclo di questi prodotti nei paesi in via di sviluppo. Dal momento che produciamo questi oggetti per un mercato globale, con la nostra ricerca abbiamo tentato di identificare non solo le problematiche che affronta il mondo occidentale nel riciclare questi prodotti, ma anche di capire cosa succede quando questi vanno a finire in paesi con strumenti tecnologici inferiori rispetto a quelli a nostra disposizione.

Tornando alla tua domanda, la questione è complessa: sicuramente è un problema che riguarda i produttori, mentre i designer solo in parte, perché i designer lavorano su commissione, quindi dipende molto dalla domanda che gli viene posta: spesso il problema è che ai designer vengono fatte le domande sbagliate e quindi non hanno la capacità di interpretare il progetto da un punto di vista olistico. Il problema evidente è che per ottimizzare il lavoro queste aziende molto grosse separano i dipartimenti – quello di sostenibilità, quello del finishing, quello del design e via dicendo –  ma smembrando il progetto in tutti questi segmenti si preclude la possibilità di avere una prospettiva onnicomprensiva. In più, quando si realizza un progetto bisogna fissare delle priorità, e in questo momento nel settore della tecnologia queste sono l’innovazione e la fruizione dell’utente.

C’è un brand di telefonia olandese che si chiama Fairphone che invece ha cercato di realizzare un prodotto che garantisce la filiera produttiva dei metalli impiegati, in modo che non siano coinvolti in conflitti che, trattandosi di metalli preziosi, spesso si generano tra i vari paesi, soprattutto africani. Fairphone sta cercando di costruire smartphone modulari, in modo tale che per cambiare la batteria o la camera si possa sostituire solo il componente interessato e non tutto il telefono. Questa azienda quindi ha deciso di darsi delle priorità di innovazione diverse da quelle di Apple o altri marchi concorrenti.

Federica Fontana: Quindi la sensibilità verso queste tematiche varia da azienda ad azienda, i produttori non sono vincolati da qualche legge in particolare…

Simone Farresin: Esatto, a questo proposito noi ci siamo occupati di parlare anche con l’Interpol, che è l’agenzia di polizia internazionale che si occupa di collezionare informazioni su vari crimini, inclusi quelli di tipo ambientale, e quindi spesso anche di electronic waste e della loro affluenza nei paesi in via di sviluppo. In realtà in Europa delle leggi ci sono, per esempio ce n’è una che attribuisce ai produttori la responsabilità del riciclo dei propri prodotti. Leggi di questo tipo spesso sono estese in modo simile anche ad altri paesi: in generale Stati Uniti e Australia sono un po’ meno precisi, mentre nonostante tutto la Comunità Europea è abbastanza attiva in questo senso. Il problema è che anche in questo caso i designer non sono mai coinvolti, e le leggi non includono indicazioni precise su come gli oggetti dovrebbero essere progettati.

Ore Streams include una serie di riflessioni sulle strategie che secondo noi possono essere applicate e che andrebbero implementate a livello legislativo, per far sì almeno che alcuni componenti dei dispositivi elettronici siano più accessibili. Un esempio è l’uso veramente enorme dei fire retardants, che sono applicati anche in punti in cui non ce n’è effettivamente bisogno. Questo accade perché le aziende che producono questi spray creano delle lobby per fare in modo che vengano applicati in maniera sempre più estesa per questioni di sicurezza, ma in questo modo la plastica diventa impossibile da riciclare. La questione coinvolge un sacco di aspetti che hanno a che fare con il design, ma anche con la politica; il nostro lavoro di ricerca li ha presi in esame entrambi. Poi ovviamente abbiamo prodotto anche degli oggetti, insieme ad una serie di video che raccontano in modo più intuitivo ed estetico questo lavoro.

Federica Fontana: Qual è il vostro rapporto con l’industria e in particolare con il design del prodotto?

Andrea Trimarchi: Abbiamo attivato collaborazioni con varie ditte, ad esempio con Flos e Florim; abbiamo realizzato degli allestimenti per Leuxus qualche anno fa ed abbiamo spesso lavorato anche con la moda per creare dei catwalk. Con il design del prodotto ci siamo interfacciati negli ultimi due anni e l’abbiamo fatto più che altro per scelta, perché non abbiamo mai sentito l’esigenza di produrre il più possibile con tutti, ma l’abbiamo voluto fare con le ditte che pensavamo fossero più adatte, in base all’etica della produzione eccetera. Noi siamo stati percepiti fin da subito come designer del prodotto ma non è necessariamente quello che ci interessa fare, per noi è importante soprattutto selezionare e trovare il giusto interlocutore.

Da quando abbiamo aperto lo studio siamo stati contattati dalla maggior parte delle aziende del mobile, però le proposte erano poco interessanti, ci chiedevano sempre di mandargli un disegno, ma questo non è il modo in cui lavoriamo. A noi interessa lavorare con le aziende che possono avere un impatto perché hanno una grande scala di produzione, oppure un impatto relativo, come nel caso delle consultancy. Al momento abbiamo in corso alcuni progetti di consulenza, per esempio adesso stiamo lavorando con un’azienda molto grossa di elettronica.

Federica Fontana: Parlando invece del vostro rapporto con l’arte e i creativi: guardando il vostro profilo Instagram – che è come una piccola enciclopedia di spunti in cui raccogliete e condividete tutto ciò che vi ispira – mi sono chiesta: il prodotto finito è l’unico canale che usate o cercate anche altre vie per condividere i vari passi delle vostre ricerche?

Andrea Trimarchi: Molti designer e artisti usano Instagram per far vedere il il proprio lavoro, cioè il risultato finale, noi invece preferiamo usarlo per mostrare quello che ha portato al risultato finale. Creiamo una forma perché siamo designer, ma per noi la ricerca è importante quanto il prodotto finito. Il modo in cui raggiungiamo l’utente non è tanto l’acquisto dell’oggetto o dei progetti, ma contempla più un altro tipo di fruizione, attraverso altri canali. Per esempio teniamo spessissimo lectures, insegnamo, partecipiamo a moltissime mostre e conferenze, dove parliamo a libro aperto delle scoperte che abbiamo fatto e delle strategie che potrebbero essere implementate per disegnare oggetti elettronici. Su Instagram condividiamo la parte di ricerca e degli spunti che tutti poi possono fare propri e portare avanti nel proprio lavoro, quindi sì, per noi il lato open sourceè davvero molto importante.

Federica Fontana:Anche il racconto per voi è qualcosa di fondamentale: il vostro è un design che racconta storie e la sensazione è che la forma sia solo il modo che usate per permettere al materiale di raccontarla. Se penso a Ore Streamso a De Natura Fossilium ad esempio, i dettagli decorativi, pur avendo sicuramente anche una resa estetica, sono messi lì per dirci molto di più. È  sui dettagli che lavorate per far sì che la materia riesca a trasmettere la sua storia, il suo contesto produttivo?

Andrea TrimarchI: Assolutamente, in realtà anche il nostro nome deriva da quello, Formafantasma significa senza forma, perché per noi la forma è risultante di un processo. Hai citato De Natura Fossilium: quando abbiamo cominciato quel progetto noi non avremmo mai immaginato che la collezione avrebbe avuto quella forma, e lo stesso vale per Ore Streams. È un momento quasi magico quello in cui tutta la ricerca che abbiamo fatto si viene a trasformare e si configura in una forma che alla fine è del tutto inaspettata.

La maggior parte delle volte facciamo parlare il materiale, nel caso di De Natura Fossilium ad esempio all’inizio noi ci immaginavamo un progetto molto organico a livello formale, condizionati anche dalla materialità della lava, che è un materiale molto imprevedibile. Poi durante il processo produttivo, quello in cui realizziamo i vari sample di materiale, abbiamo capito che l’unico modo per controllare la lava era facendo dei casting, infatti il progetto finito risulta molto brutalista, gli oggetti sono molto squadrati, e questo  in realtà deriva dal processo. Quindi hai detto benissimo: la forma non dipende da una pre-concezione ma viene sempre in un momento successivo, di traduzione dalla ricerca alla parte oggettuale.

Federica Fontana: Fedeli alla vostra idea di design come sensibilizzazione – che è un altro filo conduttore del vostro lavoro fin dagli inizi – avete tenuto un talk in marzo alla Domus Design Academy e a quanto pare questo è uno dei primi esiti di una collaborazione con Paola Antonelli per Broken Nature, la Triennale del 2019. Che ruolo avrete in questa occasione e in generale quali sono i progetti futuri a cui state lavorando?

Andrea Trimarchi: In realtà il progetto per la Triennale dell’anno prossimo sarà sempre incentrato su Ore Streams, che vorremmo sviluppare e mostrare in Europa, perché al momento è stato presentato solo in Australia. Questo lavoro verrà portato avanti in due step successivi: prima durante la Triennale stessa, dove amplieremo il progetto con una serie di prototipi e un documentario; poi a Londra, dove si sposterà a inizi del 2020 e verrà mostrato in maniera molto più ampia e contestualizzata in un’altra istituzione, in cui terremo una nostra personale.

Oltre a questo, al momento stiamo lavorando anche su molti altri progetti diversi: abbiamo cominciato un’altra collaborazione con Flos, una serie di mobili per Cassina che molto probabilmente saranno presentati l’anno prossimo, più alcuni interior in fase di realizzazione. In generale c’è molto che bolle in pentola, però i progetti di ricerca a cui teniamo di più sono appunto quello per la Triennale e per l’altra istituzione inglese.


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