Barbican Art Gallery – Londra
20 / 02 / 2020 - 17 / 05 / 2020

Masculinities: Liberation through Photography è un’importante mostra collettiva che esplora il modo in cui la mascolinità è vissuta, rappresentata, codificata e costruita socialmente, come è espressa e documentata attraverso la fotografia e il cinema dagli anni Sessanta a oggi.

La mostra riunisce più di 300 lavori di oltre 50 artisti, fotografi e registi internazionali pionieristici come Richard Avedon, Peter Hujar, Isaac Julien, Rotimi Fani-Kayode, Robert Mapplethorpe, Annette Messager e Catherine Opie, per mostrare come la fotografia e il cinema abbiano avuto un ruolo centrale nel modo in cui le mascolinità sono immaginate e comprese nella cultura contemporanea.

L’esposizione mette in evidenza anche artisti meno conosciuti e più giovani, alcuni dei quali non hanno mai esposto le proprie opere nel Regno Unito, tra cui Cassils, Sam Contis, George Dureau, Elle Pérez, Paul Mpagi Sepuya, Hank Willis Thomas, Karlheinz Weinberger, Marianne Wex e molti altri. Masculinities: Liberation through Photography fa parte della stagione 2020 della Barbican, Inside Out, che esplora il rapporto tra la nostra vita interiore e la creatività.

Come ha detto Jane Alison, Direttrice delle Arti Visive alla Barbican: “Masculinities: Liberation through Photography porta avanti il nostro impegno nel presentare figure di spicco del Novecento nel campo della fotografia e nel sostenere allo stesso tempo artisti contemporanei più giovani che lavorano attualmente nel campo. Sulla scia del movimento #MeToo e della rinascita dell’attivismo femminista e per i diritti degli uomini, le nozioni tradizionali di mascolinità sono diventate oggetto di un feroce dibattito. Questa mostra non potrebbe essere più rilevante e di certo farà nascere conversazioni riguardo alla nostra comprensione della mascolinità.”

Mentre le idee sulla mascolinità subiscono una crisi globale e termini come mascolinità “tossica” e “fragile” riempiono innumerevoli pagine, la mostra esamina la rappresentazione della mascolinità nelle sue molteplici forme, ricche di contraddizioni e complessità. Presentata attraverso sei sezioni da più di 50 artisti internazionali per esplorare la natura complessa del soggetto, la mostra tocca temi come l’identità queer, il corpo, il potere e il patriarcato nero, la percezione femminile degli uomini, gli stereotipi etero-normativi iper-mascolini, la paternità e la famiglia.

Le opere presenti nell’esposizione presentano la mascolinità come un’identità performativa non fissa plasmata da forze culturali e sociali. Cercando di ostacolare e destabilizzare i miti che circondano la mascolinità moderna, la mostra include opere di artisti che hanno costantemente messo alla prova le rappresentazioni stereotipiche della mascolinità egemonica, tra cui Collier Schorr, Adi Nes, Akram Zaatari e Sam Contis, la cui serie Deep Spring, 2018 prende spunto dalla mitologia del West Americano e del cowboy vigoroso.

Contis ha trascorso quattro anni immersa in un college maschile di arti liberali a nord della Death Valley, meditando sull’intimità e sulla violenza che coesistono negli spazi riservati agli uomini. Complicando l’immagine convenzionale del combattente, l’acclamata serie Taliban di Thomas Dworzak è composta da ritratti trovati in studi fotografici a Kandahar in seguito all’invasione americana dell’Afghanistan nel 2001.

Questi ritratti vivaci ritraggono dei combattenti talebani che posano mano nella mano di fronte a sfondi dipinti, usando pistole e fiori come attrezzature sceniche con del kajal applicato con cura intorno agli occhi. La serie Time Laps, 2011 dell’artista trans maschile Cassils documenta la radicale trasformazione dei loro corpi causata dall’uso di steroidi e da un duro programma di allenamento, riflettendo sulle idee di mascolinità senza gli uomini. Da un’altra parte, gli artisti Jeremy Deller, Robert Mapplethorpe e Rineke Dijkstra smantellano i preconcetti su soggetti come il wrestler, il bodybuilder e l’atleta e offrono una visione alternativa di questi stereotipi iper-mascolinizzati.

L’esibizione analizza il patriarcato e le relazioni di potere disuguali tra sessi, classe e razza. La serie Gentlemen, 1981-83, di Karen Knorr, costituita da 26 fotografie in bianco e nero scattate all’interno di un club privato per soli uomini nel centro di Londra e accompagnata da testi tratti da conversazioni origliate, registrazioni parlamentari e notiziari d’attualità, invita i visitatori a riflettere sulle nozioni di classe, razza e sull’esclusione delle donne da ruoli di potere durante il mandato di Margaret Thatcher a Downing Street.

La mascolinità tossica è un tema ampiamente trattato in The American Fraternity: An Illustrated Ritual Manual, libro fotografico di Andrew Moisey del 2018, che unisce fotografie d’archivio degli ex presidenti degli Stati Uniti e dei giudici della Corte Suprema, tutti appartenenti alla fratellanza, a immagini raffiguranti le cerimonie di iniziazione e le feste tipiche di queste organizzazioni riservate agli uomini.

Con l’ascesa del Gay Liberation Movement negli anni Sessanta, seguiti dall’epidemia di AIDS negli anni Ottanta, l’esibizione presenta artisti del calibro di Peter Hujar e David Wojnarowitz, pionieri di una nuova rappresentazione della sessualità e dei generi. La serie foto-testuale critica di Hal Fischer, Gay Semiotics, 1977, classifica stili e tipi di uomini omosessuali a San Francisco e le fotografie di strada di Sunil Gupta catturano le performance del pubblico omosessuale lungo Christopher Street di New York, luogo delle rivolte di Stonewall, nel 1969.

Altri artisti hanno esplorato l’identità queer nei suoi aspetti performativi, come Catherine Opie e le sue serie Being and Having, 1993, in cui mostra i suoi migliori amici appartenenti alla comunità LGBTQ+ della West Coast indossare baffi finti, tatuaggi e altri accessori tipici dell’immaginario maschile. Le fotografie di Elle Pérez, luminose e tenere, approfondiscono la rappresentazione della non-conformità e vulnerabilità di genere, mentre nei ritratti frammentati di Mpagi Sepuva si esplora l’atelier come luogo di desiderio omoerotico. Negli anni Settanta, le artiste appartenenti alla seconda ondata del movimento femminista hanno reso la sessualità maschile un oggetto dei loro lavori, nel tentativo di sovvertire e denunciare la natura invasiva e scomoda dello sguardo maschile.

Nella mostra, l’opera principale di Laurie Anderson, Fully Automated Nikon (Object/Objection/Objectivity), 1973, documenta gli uomini che le hanno fischiato mentre camminava per il Lower East Side di New York, mentre Annette Messager nella serie The Approaches, 1972, utilizzando una macchina fotografica a lungo obbiettivo, cattura di nascosto il cavallo dei pantaloni maschili. Il progetto enciclopedico di Marianne Wex, artista tedesca, Let’s Take Back Our Space: “Female” and “Male” Body Language as a Result of Patriarchal Structure, 1977, mostra un’analisi dettagliata del linguaggio corporeo maschile e femminile e Heaven, 1997, film goffamente umoristico di Tracey Moffatt, artista indigena australiana, ritrae surfisti indossare e sfilare le proprie mute.

Ulteriori punti salienti includono l’artista Hank Willis Thomas, artista newyorkese, le cui fotografie mostrano la complessità dell’esperienze degli uomini di colore; The Family, 1971-1989, del celebre fotografo giapponese Masahisa Fukase, che racconta la vita e la morte della sua famiglia focalizzandosi sul padre; Kustom Kar Kommandos, 1965, film technicolour underground sperimentale a colori a opera di Kenneth Anger, in cui è protagonista il ruolo feticista svolto dalle hot rod car, vetture storiche spesso modificare, tra i giovani americani.


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