Many people will already know Giacomo Verde’s name and activity: a video maker, performer and, as he likes to define himself, techno artist. For those who do not know Giacomo’s work, perhaps it’s sufficient to say that he represents one of the ideal bridges between the first pioneer season of video and multimedia experimentation in Italy and the current experimental phase.

He has been working in the theatre and visual arts since the 70’s. From the 80’s he has developed works connected to the creative use of “poor” technology: video art, techno-performances, plays, exhibitions, workshops. He was the inventor of “video-storytelling” – theatrical performances that involve narration, micro-theatre and macro live filming – a technique also used for video-backgrounds in live concerts, recitals of poetry and plays. He was one of the first Italians to create an interactive work of art and net-art. His constant theme is dealing with playful experimentation in techno-anthropological mutations taking place and creating connections between different artistic genres.

Although he has worked with many means of expression – theatre, video, computer, and web – what makes his artistic production unique is the constant and coherent political use from the bottom of electronic and digital technologies searching for “actions beyond representations”.

From the pretext of the publication of his book “Artivismo Tecnologico – texts and interviews about art, politics, theatre and technologies”, we tried to focus on his point of view on possible relations between art, activism and technology, from presumed errors and aes-thetical failures of video art to the current static phase of utopias and movements on the net.

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Clemente Pestelli: In una tua recente intervista hai parlato di “fallimento della video-arte”. Mi piacerebbe tu contestualizzassi questa affermazione in  contesto più generale di arte contemporanea in cui l’utilizzo del video, ma più genericamente dei dispositivi mediali, è divenuto una prassi comune. Parli della videoarte in quanto linguaggio o in quanto circuito alternativo di distribuzione culturale? In che cosa ha fallito di preciso secondo te la videoarte? 

Giacomo Verde: Ha fallito perché si proponeva di contribuire al miglioramento del linguaggio dei media e di modificare le regole del sistema dell’arte. Ed è evidente che non è riuscita in nessuno dei due propositi. I media hanno saccheggiato dalla videoarte solo gli effetti speciali, ignorando tutte le problematiche linguistiche. Il sistema dell’arte, e la grande maggioranza degli artisti che utilizzano il video e le tecnologie, hanno applicato le solite regole di creazione, mercato e distribuzione anche ai “prodotti immateriali e duplicabili” della videoarte. Si danno un tono di “modernità tecnologica” ma nella sostanza affrontano solo il lato “retinico”, come direbbe Duchamp, delle possibilità offerte.

Clemente Pestelli: Anche la rete, parallelamente e complementariamente al fenomeno dei movimenti new global, è nata e si è sviluppata in un clima di fermento teso ad un cambiamento radicale , ma sempre la rete, oggi, ha smesso di avere quel carattere di sperimentazione sociale che abbiamo conosciuto tra i ’90 e i primi ’00. Nonostante il generale progresso del contesto tecnologico e di una maggiore alfabetizzazione informatica, la spinta creativa e pionieristica oggi appare controllata e normalizzata. Che fine hanno fatto dunque secondo te i sogni e le utopie della rete? Davvero tutta l’eforia iniziale era destinata ad esaurirsi nel gioco autoreferenziale dei vari youTube, facebook e degli altri social networks?

Giacomo Verde: Siamo solo all’inizio. E’ troppo presto per mettere la parola fine. E’ vero che la logica del profitto senza etica tende a chiudere gli spazi di liberazione ma io penso che ci sono ancora tante cose da far succedere. Sinceramente io non ho mai mitizzato la rete come soluzione dei problemi. Quello era il sogno. Ho sempre detto che bisognava riempirla di contenuti e azioni concrete, cha andava connessa con la realtà delle azioni fisiche. Adesso stiamo passando alla realtà. Ovvero si sta davvero solo iniziando a capire in che modo usarla. Secondo me e’ una crisi di crescita.

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Clemente Pestelli: Sempre a proposito di rete e utopie: uno dei progetti che hai portato avanti nell’ultimo periodo è la performance techno-teatrale Eutopie (dal greco “luoghi felici”). Dal sito del progetto: “Le vecchie utopie sociali sono morte, ma nuovi modi di “immaginare” e realizzare «mondi migliori» si stanno concretizzando «qui e ora»”. Il progetto appare interessante non solo per il suo approccio assolutamente pro-positivo e lontano dalla solita contrapposizione di simboli  ed ideologie, ma anche per le modalità con cui si sviluppa. L’intero lavoro si dirama in molteplici direzioni: dalla scrittura collettiva alla performance, dall’uso della tecnologia in scena fino all’approccio open source che, tramite un kit drammaturgico liberamente scaricabile dal sito,  permette alla performance di diffondersi viralmente,  in un’ottica di condivisione dei saperi. Al di là dei contenuti, Eutopie segna l’inizio di un nuovo percorso di ricerca? E quali sono le direzioni che sta prendendo?

Giacomo Verde: Il progetto Eutopie non voleva incentrasi sulla performance teatrale. In questo momento è in fase di stasi. Dopo più di 5 anni di produzione di diversi materiali sto cercando di capire come andare avanti. Il problema è che al momento la diffusione virale che auspicavo attraverso la rete non ha funzionato. Il progetto si è sviluppato sempre attraverso la mia persona: io ho fatto da virus; ma poi i “contagiati” che avrebbero dovuto diffonderne la filosofia e creare altre oper’azioni non sono riusciti ad andare oltre. Probabilmente il progetto è troppo legato al mio nome. Devo trovare il modo di reimpostare e rilanciare la tematica in forma più anonima. Per una serie di circostanze ha avuto una certa diffusione principalmente nell’ambito teatrale che purtroppo è ancora troppo legato alla figura “autorale” e poco propenso all’open source e alla condivisione di saperi. Penso che dovrei reimpostare completamente il sito del progetto e dedicare più spazio alla creazione di video da diffondere in rete. Ma dovrebbero essere dei video che propongono una modalità che quasi chiunque possa poi sviluppare autonomamente per diffondere la consapevolezza dei “luoghi felici” che esistono sul pianeta. Al momento il problema è, come sempre, trovare i soldi e le occasioni che mi permettano, magari assieme ad altre persone, di sviluppare il progetto in più ambiti.

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Clemente Pestelli: Abbrutita dall’immaginario televisivo, quello che forse manca oggi all’azione politica – intesa qua nel suo significato più generale e nobile – è forse l’aspetto poetico, ovvero la capacità di stimolare l’immaginazione collettiva. In questo senso, ciò che colpisce in molti dei tuoi lavori è il modo con cui riesci a far coesistere senso politico e senso poetico – penso ad esempio alla serie dei teleracconti o al video “Solo Limoni” delle giornate di Genova del 2001. Riallacciandoci anche alla precedente domanda precedente In un contesto di saturazione mediatica di immagini,  cosa ti aspetti – al di là del “semplice” appagamento estetico  – dai tuoi lavori in video?

Giacomo Verde: Mi aspetto la cosa più banale di ogni creazione artistica: che facciano pensare senza dimenticare il cuore. Ma mi aspetto anche che lo spettatore si senta trattato con rispetto e intelligenza e non come un “allocco” di cui bisogna catturare l’attenzione. E questo cerco di provocarlo cercando ogni volta delle modalità di creazione diverse dallo standard dominante. Perché penso che il processo influenza in maniera determinante il prodotto. Quando devo realizzare un video cerco di elaborare una modalità di creazione che non segua il classico schema che va dalla sceneggiatura, alla ripresa e montaggio, ma piuttosto mi invento un processo che sia anche una esperienza o una performance che alla fine produce un audiovisivo. Inoltre mi aspetto che soddisfi e sorprenda la “committenza”. Perché ormai sono anni che ho scelto di lavorare su commissione. Ovvero al servizio di un “pubblico” preciso che mi chiede di produrre qualcosa su un dato tema. E questo per me è perfetto in quanto ritengo il processo più importante del contenuto.

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Clemente Pestelli: Di recente hai pubblicato un libro (“Artivismo Tecnologico”) che raccoglie molti dei tuoi scritti teorici che, in un modo o nell’altro pongono l’accento sul controverso rapporto tra espressione artistica ed impegno politico. Il termine chiave è, appunto, artivismo: in un momento in cui si fa fatica a distinguere la politica dalle sue rappresentazioni mediatiche – dalla televisione alla blogosfera per arrivare quindi agli attualissimi social network – non credi che sarebbe  meglio lasciare la politica alla sfera dei corpi e dell’impegno civile individuale, liberando – per detournare una tua celebre affermazione – artisti da art/attivismi? Provocazioni a parte, che cosa ti aspetti possa sortire dall’ibridazione tra arte ed attivismo?

Giacomo Verde: Nessuno si deve sentire obbligato a fare niente, nemmeno l’artivismo. Per me l’artivismo è tale quando una cre-azione artistica si accompagna coscientemente ad una azione politica o quanto è cosciente del valore politico che mette in campo. E comunque l’arte, in quanto azione pubblica, è sempre politica anche se non vorrebbe. Si tratta di decidere da che parte stare. L’artivismo è nato in un contesto che si riconosce nell’autore collettivo, nel binomio arte-vita e nel superamento dell’oggetto d’arte. E questa è una precisa scelta di campo. L’ibridazione tra arte e attivismo dovrebbe produrre una doppia azione: nel campo attivista dare più spazio alla comunicazione creativa e nel campo artistico aumentare il senso di responsabilità politica delle proprie scelte.


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