In questo breve saggio vorrei proporre alcune delle intuizioni che ho incontrato quasi nella forma di mediocri Aha Erlebnis durante la pratica di scrittura virtuale in alcuni dei più consueti spazi online quali Facebook, Skype, blogs, chats.
La profezia di Marshall McLuhan – secondo cui, con l’avvento delle nuove tecnologie elettroniche, la pratica della scrittura avrebbe lasciato spazio alla crescente visual culture e a pratiche ad essa più affini – sembra complicata dal fatto che oggi, nell’online-era quale stadio ulteriore dell’electronic age, si scriva più di prima. In effetti, potremmo dire che non si è mai scritto così tanto dalla nascita della cosiddetta Galassia Gutenberg e, nonostante il contesto di chiara prevaricazione dell’immagine sulla parola, sembra tuttavia che la parola abbia trovato le sue forme di resistenza.
A ben guardare la parola di cui ci parla la profezia di McLuhan è ancora quella della manuscript writing, cioè di una pratica amanuense legata all’Ars Memoria e alla scribal culture. In questo senso – nonostante la consapevolezza di quanto un nuovo medium retroagisca sui precedenti in qualche modo riplasmandoli – McLuhan non riesce a prefigurare nel suo “Gutemberg Galaxy” (1962) la capacità della scrittura di insinuarsi nelle pieghe del mondo elettronico (e poi virtuale) e di competere con pratiche più snelle tipiche della oral culture e caratteristiche della tribal culture così come del global village. Ma com’è cambiata, allora, la pratica di scrittura online rispetto al suo simile analogico?
Nell’era elettronica, così come nella era della Rete, l’istantaneità conta più della memoria – ormai esteriorizzata, protesizzata – e il “result of instant interplay of cause and effect in the total structure” sposta l’accento della comunicazione sulla quasi-simultaneità dell’interazione a discapito della sequenzialità dell’espressione linguistico-alfabetica, che spesso risulta in flagrante ritardo rispetto alla dromologia Viriliana di “Speed and Politics” (1977). Mi capita da qualche tempo, quando scrivo a mano, di sovrapporre le lettere, quasi la velocità sincrona del pensiero si accavallasse alla sequenzialità dell’alfabeto e gli opponesse resistenza. Allo stesso modo mi capita anche ora, mentre digito queste righe alla tastiera, di lavorare in modo simultaneo su brandelli di testo indipendenti piuttosto che di svolgerli uno dopo l’altro in maniera sequenziale.
La sincronicità dello stile comunicativo ha probabilmente a che fare con l’esperienza performativa della scrittura, e con l’istante del sequenziale: se pensiamo agli scambi linguistici tipici di una Skype chat binaria (tra due interlocutori), ci accorgiamo spesso di trovarci di fronte a due flussi di coscienza che si intersecano vicendevolmente secondo modalità sincroniche e non più sequenziali: la mia scrittura procede indipendentemente da quella del mio interlocutore e spesso devo risalire la chat per trovare le sue risposte e a mia volta interloquire coerentemente ripristinando una sequenzialità fittizia che permette tuttavia alla chat di non risultare completamente schizoide. Se la pratica di skype writing venisse traslata identica a se stessa nel mondo reale avremmo due voci che si sovrastano costantemente senza ascoltarsi né ricordarsi i nessi logici in grado di far procedere la discussione da un punto A a un punto B in modo lineare. E tuttavia, anche nella comunicazione orale convenzionale, credo che sia generazionale l’accorgersi di sovrapporre continuamente temi comunicativi differenti, quasi replicando la fruizione simultanea di una molteplicità di contenuti tipica della rete. La timeline a due colonne di Facebook, rispetto al suo precedente verticale, si muove anch’essa in questa direzione, e anzi abitua l’occhio a leggere contemporaneamente sia in verticale che in orizzontale in modo più intensivo rispetto a quanto accade in altri siti.
In questa direzione, sia in Skype che nelle chat di Facebook, non solo l’interazione ma anche la sintattica interna della composizione linguistica cerca di adattarsi alle logiche della sincronicità e del tempo reale, lontane da quelle della parola amanuense di cui ci parla McLuhan, totalmente sequenziale, lenta, mnemonica. Ecco emergere, allora, una parola tagliata, diminutiva, che cerca di ridurre i tempi di formulazione e stesura alla rincorsa dell’istante – quello della parola parlata, performata nello spazio reale tra due interlocutori prossimi fisicamente e semanticamente.
Si potrebbe forse dire che lo scarto tra oralità e scrittura si è ridotto online dal punto di vista sintattico, ma è cresciuto dal punto di vista semantico. Ma anche che, proprio per questo, la parola scritta virtuale cerca di farsi orale recuperando il corpo e la voce attraverso lo stile di scrittura, lo slang, e l’interazione tra testo linguistico e non linguistico – ad esempio gli emoticon, o tutta una serie di users’ inventions che hanno convertito la combinazione di più lettere in micro-immagini che cercano in qualche modo di integrare la semantica mancante.
Mi sembra allora importante evidenziare il carattere performativo della scrittura virtuale per suggerire la presenza-assenza di una fisicità semantica quale fattore distintivo. La scrittura virtuale recupera l’unicità del lato performativo presente nell’elemento calligrafico della scrittura amanuense sotto forma di tensione verso il corpo e l’immagine, corporeità della parola nonostante l’immaterialità della pratica e la resistenza del mezzo, anzi quasi come forma enantiodromica di esso. Lo dimostrano le sempre più comuni pratiche linguistiche sessuate in atto negli scambi virtuali tra lovers – o perfetti sconosciuti – nei posts di Facebook e nelle chat, fino all’apice di Second Life, in cui isole dedicate, avatar, voce e scrittura alfabetica ricostruiscono gli immaginari dell’amplesso. Già Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (1979) rivendica il carattere erotico della lett(erat)ura, carattere che mi sembra emergere con chiarezza nella scrittura online e conferma ulteriore della natura performativa di questa pratica, nonostante la coolness McLuhaniana dei media in questione.
Bisogna intendersi, però: in un processo quasi chiasmatico nel quale l’uomo si automatizza e la macchina si organicizza, la performatività della scrittura virtuale non è più propriamente organica, ma appartiene a una nuova forma di organicità cosale al di fuori dei vitalismi animal-spirituali tipici della tradizione filosofica occidentale (da Platone a Nietzsche) e, al contrario, è più simile a quella della cosa che sente di cui parla Mario Perniola nel suo “Sex appeal dell’inorganico“. Di questo organicismo post-umano linguistico sono un buon esempio gli algoritmi genetici, nei quali emerge sia la schematicità matematica della scrittura sia la sua apertura al mondo – gli algoritmi genetici sono algoritmi flessibili che applicano pratiche di rimescolazione casuale dei propri elementi in cerca della formulazione più adatta del proprio patrimonio alfabetico in seguito alle risposte che ricevono dall’ambiente.
Si pensi ora per un momento alla primitiva funzione T9 dei telefoni cellulari, per la quale la correzione ortografica automatica dei messaggi testuali impedisce l’errore e intimidisce l’uso di parole non già classificate nei dizionari caricati nel software del telefono, tendendo alla normalizzazione della lingua e, in questo senso, appiattendo proprio il carattere performativo della scrittura, tuttavia riconosciuto dai nuovi sistemi T9 di alcuni degli smartphone in commercio. In essi, infatti, la pratica propriamente digitale di scrittura del testo procede non più per punti – il dito che si appoggia sequenzialmente sui tasti reali della tastiera per comporre il testo – ma per linee – il dito scorre sulla tastiera virtuale componendo un intreccio di linee che il software é in grado di semplificare in punti scegliendo le lettere che lo scorrimento del dito desidera comporre. Anche le password di accesso a generici sistemi digitali portatili sono sempre meno cifre e sempre più percorsi di linee che solo il proprietario conosce e può replicare – fenomeno che mostra lo slittamento di una pratica alfabetica a una pratica visiva, evidente anche nei bellissimi RESfeed nei quali lezioni magistrali di professori di ogni campo vengono convertiti in schemi linguistico-visuali vignettati (http://www.youtube.com/user/theRSAorg?feature=watch).
In quest’ottica si tratta allora di riconoscere che lo schematizzarsi e ossificarsi della scrittura non è incompatibile con il suo lato performativo. Il linguaggio tende alla mappa e, con essa, all’immagine e, così facendo, tende a sgretolare la propria origine sequenziale. D’altra parte, “il faut briser le langage pour toucher la vie”, diceva Antonin Artaud. Inevitabilmente i processi di mutazione linguistica in corso nelle piattaforme virtuali sono un momento intermedio di un processo a lungo termine che cambierà completamente le modalità comunicative dell’essere umano e, in maniera retroattiva, il suo modo di pensare, anche al di fuori di un’ottica linguistica.
Il multitasking è uno dei fattori che la neurofenomenologia dovrebbe indagare per comprendere quanto il nostro modo di comporre pensieri sia sempre meno inconsciamente a-sequenziale e il ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder), invece di essere considerato un disturbo da curare a colpi di Ritalin, dovrebbe essere osservato come il fenomeno emergente di un nuovo modo di pensare e interagire. Siamo sensori adattivi della tecnica. La fruizione simultanea di più finestre sul browser, la comunicazione sincronica su più chat, la frammentazione della soggettività in molteplici e parziali identità virtuali (mail account, Facebook account, blog account, Skype account ecc.) si manifesta anche nella pratica di una scrittura sincopata, intermittente, vicina ai cristalli di tempo bergsoniani-deleuziani quali espressione di vortici di simultaneità presente, passata e futura, come quelli che si creano a volte nelle chat di skype che ho descritto poco sopra.
In relazione alle images-cristals che Deleuze vede nel cinema dell’image-temps di Orson Welles, Alain Resnais, Jean-Luc Godard (per citarne alcuni) proprio nel suo L’image-temps (1985), mi piacerebbe allora parlare di parole-cristallo, nelle quali temporalità differenti coesistono e virtualità non dette spingono sul senso digitato-performato delle parole. È chiaro che una pratica di scrittura di questo tipo spinta ai suoi estremi si avvicina a modalità espressive schizofreniche o, col Felix Guattari di Chaosmose (1992), schizocreative, vicine ai modi di fare dell’inconscio. La letteratura del novecento ha sperimentato parecchio sia nella direzione performativa sia in quella inconscia della scrittura. Joyce e “Ulisse” (1922) coi flussi di coscienza, Bukoswski e “Post office” (1971) con la parola organica, Wallace e “Infinite Jest” (1996) con la tendenza compilatoria-maniacale da codice legale-informatico, De Lillo e “The Body Artist” (2001) con l’attenzione alla micropercezione, la tensione del linguaggio verso l’a-linguistico.
L’interazione tra linguaggio, immagine, inconscio (collettivo, fotografico, tecnologico), in relazione ai new media e alla ristrutturazione delle soggettività e delle temporalità che essi compiono riformula drasticamente i nostri strumenti comunicativi. L’Iconji – sistema comunicativo logografico – è una tappa intermedia verso nuove forme di coalescenza di immagine e linguaggio, ma la struttura notazionale piuttosto rigida è, a mio giudizio, un limite verso forme di comprensione empatico-comunicative altre rispetto a quelle linguistiche e derivate, e la sua matrice pittografica non è altro che una riproposizione dei sistemi geroglifici tradizionali. Con la sola variazione – importante e significativa – dell’apertura: l’alfabeto è in divenire, e la comunità virtuale aggiunge unità linguistiche in base alle proprie necessità e secondo criteri pubblici definiti.
Senza giungere ad ipotesi di comunicazione non verbale secondo modalità acausali ESP (Extrasensory perception) vicine al Carl Gustav Jung di “Synchronicity” (1952), mi piace per ora immaginare una sorta di forma rebus intermedia, luogo di conversione della sequenzialità alfabetica del linguaggio nella sincronicità degli elementi dell’immagine – proprio come accade nei rebus della settimana enigmistica. Essi saranno gli strumenti primitivi necessari a sviluppare i nuovi sensi del comunicare, le nuove facoltà percettive che definiranno ulteriori meccanismi comunicativi lontani dalla discretezza del linguaggio alfabetico e, tuttavia, precisi quanto essi.