Philip Beesley è un artista visivo, architetto, professore di architettura e direttore del Living Architecture Systems Group di Waterloo, in Canada. La sua ricerca si concentra sui sistemi reattivi e interattivi. Ho scoperto il suo lavoro nell’ambito di una riflessione che ho avviato per cercare di capire come cambieranno le relazioni uomo-macchina grazie all’evoluzione delle tecnologie ICT e alla coordinazione di tutte quelle raggruppate sotto il nome di Industria 4.0.
L’estetica delle sue sculture e delle sue installazioni è impressionante ma anche piuttosto stimolante, perché risveglia immediatamente emozioni a cavallo tra la familiarità e lo stupore. Spesso le sue creazioni presentano dei movimenti modellati sul comportamento degli elementi naturali, ma il nostro occhio realizza subito che non lo sono e che il loro poetico aspetto high-tech non è attribuibile a nessuna macchina che abbiamo sperimentato prima d’ora.
Questa sensibilità romantica e raffinata che si può trovare anche nei modi gentili e nelle parole di Philip mi ha conquistato. Un altro aspetto che mi ha affascinato della ricerca di Philip Beesley è il suo legame con il fashion innovativo e in particolare i suoi “ambienti tessili immersivi”. Philip infatti ha lavorato con Iris van Herpen per la creazione del Voltage Haute Couture e della Lucid Collection.
Maddalena Mometti: Lei si è dedicato allo studio di varie discipline: architettura, tecnologia e arte visiva: qual è stato il suo primo approccio con le bioscienze e come ha trovato il modo per connettere questi campi del sapere?
Philip Beesley: Ho un background di studi che è fatto di materie specifiche, a cominciare dagli studi umanistici: arti visive e letteratura. Poi ho cominciato ad imparare a costruire strumenti e macchinari (entrambi lavori duri e meticolosi) e in seguito mi sono dedicato all’architettura professionale realizzando grandi edifici. Tutte le mie scelte erano unite da un senso di sperimentazione e meraviglia. Negli ultimi quindici anni sono stato coinvolto in una serie di incontri molto produttivi. Il primo è stato con il mondo tessile: ho incontrato artigiani grandiosi che lavorano con le fibre contemporanee, che hanno una grande sensibilità per la materia. Una sensibilità che è difficile da acquisire se si lavora solamente con oggetti solidi, composti da materiali resistenti e statici come quelli usati tradizionalmente in architettura.
Il senso di resilienza, la costanza nel fare cose attraverso un’intensa ripetizione e la precisione del dettaglio sono qualità fondamentali nelle arti tessili antiche, ma queste si sono intersecate solo occasionalmente con il mondo dell’architettura tradizionale. Per me è stata una specie di rivelazione. Partendo da lì mi sono concentrato sulla fabbricazione digitale, probabilmente alle sue prime fasi. Di nuovo, anche in questo campo pochissime persone hanno una sensibilità per i tessuti e l’architettura. Per me è stata come una ribellione, nella misura in cui sarebbe stato possibile sintonizzare e aggiustare finemente le varie componenti, avere accesso a quel tipo di ripetizione e ai ritmi intensi che implica l’artigianato.
In seguito mi sono imbattuto nell’intelligenza artificiale, attuatori meccanici e sensori, attraverso una serie di felici conversazioni, una in particolare con il gruppo di Mitchell Resnick al MIT, durante un workshop nel 2001. Poi ho avviato un altro dialogo con la chimica e la biologia sintetica. Tutti questi tasselli si sono sovrapposti sui precedenti e hanno dato impulso alle idee, creando ibridi. Tutto ciò mi ha incoraggiato a collaborare con altre persone in modo da unire insieme tutte queste discipline.
Questo approccio si è tradotto in una maggiore sensibilità verso le possibilità di creare ambienti dotati intelligenza ed empatia e con un senso di relazione reciproca che, oserei dire, propone una trasformazione fondamentale del modo in cui ci collochiamo nell’architettura. Più di recente si è trasformato nella ricerca di un terreno fertile che possa rendere più rapide le relazioni ibride, accorpando sistemi disgiunti in cui è possibile creare organismi nuovi e altamente resistenti. Mi incoraggia molto il livello di resilienza e di adattamento che possono derivare da questo tipo di combinazioni che sono davvero in una fase precoce e ancora imperfette per l’architettura. Di solito l’architettura fa riferimento alla bioscienza in termini di biomimetica e simbolismo, alludendo agli organismi e a come si evolvono, ma credo che ci siano altre scienze che possono essere abbinate all’architettura per quanto riguarda metabolismo e informazioni.
Maddalena Mometti: Come testa e studia il modo in cui le persone interagiscono con le sue creazioni e le emozioni e le sensazioni che provano?
Philip Beesley: Il mestiere di imparare come le cose siano esperite e quale sia il loro impatto è tremendamente interessante! Direi che siamo ad uno stadio davvero molto primitivo nel trattare questi progetti nell’ottica di studiare come queste esperienze siano trasformate in ricordi o sensazioni. Si può dire che relazionandoci ad un ambiente con la sensazione che ci stia accogliendo, che sia influenzato da noi, ci stiamo spostando verso un modo di progettare molto promettente, perché il design classico insegna che l’ambiente riceve semplicemente la nostra volontà, deve essere padroneggiato e ci sono cose che possono essere combinate, piegate, tagliate, forse spiegate… Invece possiamo entrare in un rapporto reciproco, quindi ci sarà un senso rinnovato di condivisione su come un essere umano funziona nel mondo. Questo aspetto è tremendamente stimolante e pieno di problemi e di sfide! Riguardo alle questioni etiche, entra in gioco un linguaggio formale: quando facciamo qualcosa possiamo immettere la sensibilità nei dettagli e nella qualità dell’ambiente invece di concentrarci soltanto, in un primo momento, sulla chiarezza, sulla durabilità e sulle funzioni programmatiche puramente deterministiche. Ho la piacevole impressione che potremmo cercare invece di rendere le cose reattive e persino precarie ed imprevedibili. Possiamo progettare qualcosa di molto debole, vulnerabile, altamente circostanziale e variabile nel modo in cui potrebbe rispondere a stimoli esterni. Questa sensibilità può essere molto fragile. Apologeticamente fragile. Richiede molta cura. Ironico dato che stiamo costruendo qualcosa di fragile per creare un nuovo tipo di resilienza e durabilità, ma non è necessariamente una contraddizione.
Maddalena Mometti: Pensa che l’esperienza in un ambiente così sensibile possa essere più rilassante per gli utenti, in quanto in un certo senso viene percepito come più “naturale”?
Philip Beesley: Da un lato credo che ci sia, all’interno della psiche di ognuno di noi, un bisogno primario di ricevere attenzioni, dai propri genitori, dagli amici e dalla società in generale. C’è la meravigliosa sensazione di essere appoggiati, capiti e seguiti. L’empatia delle persone che ci circonda è importante per noi in quanto esseri umani. Arricchire l’ambiente di queste qualità è, secondo me, un piccolo e delicato passo verso un ambiente più accogliente per tutti noi. E queste qualità alimentano la necessità di creare una nuova forma di architettura. D’altro canto, l’ambiente naturale è molto variabile, pieno di “tempeste”, ma anche l’ambiente artificiale ha i suoi problemi.
La questione è più complessa: il determinismo limita le qualità dell’uomo, impostando reazioni meccaniche e modelli predefiniti. Si ricorda le distopie tecnologiche? Tuttavia, anche la tecnologia sensibile è rischiosa, perché ci fa addentrare in territori inesplorati di cui sappiamo ancora poco. In ogni caso, le attenzioni e la comprensione all’interno dell’ambiente artificiale costituiscono un impulso essenziale e non possiamo non tentare di trovare una relazione di questo genere, qualunque ostacolo ci si presenti.
Maddalena Mometti: Tra quanti anni pensa che questo tipo di architettura potrà diventare la normalità?
Philip Beesley: Per quanto riguarda gli edifici ordinari (magazzini, uffici, ecc.) l’aspettativa è di avere porte che si aprano automaticamente al passaggio. È un modo che l’edificio ha di prevedere il bisogno di entrare e di soddisfarlo. Questa è la prassi, infatti ci infastidiamo quando non avviene. La possibilità di distribuire comandi in cui i sistemi meccanici, l’illuminazione e le informazioni si muovano nella nostra direzione o in quella opposta, richiede una calibrazione straordinaria. Ma basti pensare a quanto Internet e i personal media (come ad esempio gli smartphone) siano precisi e reattivi alle esigenze personali! Hanno un livello di calibrazione straordinario.
Quindi possiamo supporre di essere ad un passo dall’applicare questo tipo di calibrazione su un’ architettura sensibile. L’architettura è più lenta dei media virtuali, a causa delle difficoltà di lavorare con le cose fisiche e della diversa economia di quest’ultima. D’altro canto, il problema della fiducia e la possibilità di avviare una negoziazione e un dialogo significativi con l’ambiente materiale sono aspetti compresi solo da poco tempo.
La tecnologia è qui adesso, viene implementata molto rapidamente, ma le conseguenze sono davvero incerte. Potremmo creare una distopia dove gli oggetti sono troppo numerosi e accadranno troppe cose contemporaneamente, al punto che alcuni eventi potrebbero essere fuori dal nostro controllo. La domanda che dobbiamo porci è: stiamo creando un paradiso terrestre o un ambiente dannoso per l’uomo? Stiamo creando una comprensione illuminata per la psiche su cui stiamo investigando o stiamo generando malattie mentali e alienazione? Queste preoccupazioni sono in qualche modo inevitabili.
Sta diventando sempre più importante cominciare a lavorare non solo dal punto di vista tecnico, ma anche studiando l’impatto sugli esseri umani sotto l’aspetto poetico, in modo da poter ottenere una precisione straordinaria nelle condizioni del sentire e nell’intuire, e da formare una lingua e un’estetica inedita e, in realtà, anche un’etica nuova. Perciò, non posso rispondere con molta sicurezza. Ma posso farlo con un senso di fascino per questi campi di indagine e dire: “sta accadendo proprio adesso”.
http://www.philipbeesleyarchitect.com
Immagine di copertina: AURORA, a large scale installation which takes its inspiration from the aurora borealis, with its natural plays of light and dance of elements dependent on chance interactions and energetic collisions. The sculpture is composed of hundreds of thousands of individual components including laser-cut stainless steel, acrylic and mylar, densely massed glass vessels, and custom computer-controlled circuitry. Authors: Philip Beesley, Eric Bury, Andrea Ling. Location: Simons, West Edmonton Mall, Edmonton, Alberta – 2013. Full credits at this link: http://philipbeesleyarchitect.com/sculptures/1115_Simons-Aurora/credits.php