Caterina Barbieri è una giovane musicista e performer elettroacustica italiana, classe 1990, che vive e lavora all’estero. Si è formata in Italia, per poi affinare le sue conoscenze durante scambi culturali con istituti musicali di respiro internazionale come l’EMS di Stoccolma.
E’ lì che è avvenuto l’incontro con il Buchla 200, sintetizzatore che ha determinato la produzione di tracce che hanno attirato l’attenzione di Important Records/Cassauna. Da questa collaborazione è scaturito Vertical, album che ha decisamente fatto decollare la carriera di questa giovane talentuosa, che al momento vanta un curriculum di festival e collaborazioni di tutto rispetto.
La musica di Caterina scaturisce da una concezione pan-armonica dell’universo sonoro, cui il compositore deve sintonizzarsi per poi procedere tramite sottrazione per la creazione della propria musica. Nel caso di Caterina si tratta di utilizzare sintesi modulari e ripetizioni, creando quadri sonori di pattern poliritmia che mescolano elementi di musica minimale, tecno, e sonorità droneggianti.
Johann Merrich: Parliamone subito: il Buchla 200. Com’è avvenuto l’incontro con questo strumento?
Caterina Barbieri: Ah speravo di non doverne parlare più…scherzo! E’ sempre un piacere cercare di spiegare come è nata la passione per questo strumento. Ho iniziato a lavorarci al Conservatorio di Stoccolma all’inizio del 2013. Non sapevo nulla di sintetizzatori analogici prima. Ma questo incontro ha mutato la mia visione della musica in maniera irreversibile e collocandosi in un momento di grandi rivoluzioni della mia vita, posso dire che è come se avesse ri-orientato la mia intera esistenza. Quella superficie di manopole e cavi era come un portale d’accesso a un potenziale psichico nascosto, funzionava da display delle percezioni. Un pannello di controllo che mi permetteva di trasferire su un hardware esteriore principi presenti nel mio software interiore e viceversa. Lavorare sulla fluidità di interazione fra questi due poli. A posteriori, e’ difficile risalire alla consequenzialità di questo processo, ovvero se questo trasferimento sia avvenuto prima dall’interno all’esterno o viceversa. Ma all’epoca ho avuto la chiara cognizione che sia stata la pratica sul Buchla a configurare in me nuove modalità percettive.
Collegare i moduli tra di loro e scoprire come l’attività dell’uno poteva determinare invisibilmente l’attività dell’altro è come se avesse risanato in me i collegamenti tra diverse sfere dell’essere, che giacevano dissociate (stavo attraversando un momento difficile). Una pratica ricombinatoria a riparazione delle percezioni.
Detto questo, lontano da me il feticismo per i sintetizzatori: Il Buchla non è stato altro che uno dei tanti trigger oggettuali (funzione che tante altre esperienze di vita avrebbero potuto performare) di un processo interiore già in atto. Ma ha generato in me un’attitudine all’ascolto radicalmente nuova, orientata alla meditazione. Sul Buchla ho scoperto un pensiero musicale sottrattivo, che anni di training nella tradizione musicale d’arte occidentale non avevano rivelato.
I sintetizzatori analogici infatti sono campi di elettricità continua, dove il suono scorre per così dire senza interruzioni: l’idea del comporre dal silenzio per via di addizione o la logica dello start/stop tipico del mondo digitale vengono meno. Comporre non è quel gesto demiurgico che crea dal nulla quanto piuttosto un sintonizzarsi rispetto a un ongoing sound field e renderlo selettivo.
Una pratica di tuning in senso lato dell’individuo rispetto a un ecosistema già esistente che si offre in tante possibilità di ricombinazione. Qualcosa che ricorda da vicino il design sottrattivo della musica classica indiana, che parte dallo spettro ricchissimo del drone della tambura e dalla serie delle armoniche ricava le scale modali su cui improvvisare, una sorta di framework armonico ricavato per sottrazione a partire da un idealistico pan armonico, da cui, secondo la filosofia indiana, tutto si genera e di cui tutto è permeato.
Johann Merrich: Qual è il tuo metodo di lavoro? Come componi e che macchine/software utilizzi in studio?
Caterina Barbieri: Senza entrare nei dettagli posso dirti che il metodo di lavoro dipende dalle macchine. Io vedo il processo compositivo come un sistema di feedback tra la tecnologia e il compositore. Come se si venisse a creare una sorta di circuito cognitivo integrato dove il design della macchina modula il design del pensiero musicale di chi la ’suona’.
Perché questo avvenga è utile applicare quel metodo sottrattivo di cui parlavo prima, quasi a ricercare un grado zero di interazione con una tecnologia, che prescinda da tutte quelle idee precostituite e riferimenti extramusicali inscritte nell’uso di una data macchina. Questo permette anche di riconfigurare l’iconografia di una data tecnologia sonora e prestarla a veicolare nuovi contenuti. Una sorta di reverse engineering o détournement dell’uso delle tecnologie del suono. Ed e’ come se per via di riduzione si predisponesse quella condizione di ascolto ridotto necessario a questa pratica di re-engineering.
L’idea che la tecnologia sia un semplice medium al servizio dell’infinita immaginazione del nostro ego è un’utopia. Piuttosto la tecnologia è un tool per la riconfigurazione ed espansione dei nostri pensieri. E spesso sono proprio i limiti o le debolezze di una data tecnologia a funzionare da generatori di creatività e a riorientare le mappe concettuali legate all’uso di quella data tecnologia.
Come scrive Mark Fell: “(…) we can redefine technology, not as a tool subservient tocreativity or an obstacle to it, but as part of a wider context within which creativeactivity happens.”
Johann Merrich: Spesso facendo un certo tipo di elettronica si impiegano molti strumenti che, per delicatezza o mole, si rendono difficilmente trasportabili durante le tournée. Come gestisci i tuoi live set?
Caterina Barbieri: Sì questo problema si è presentato per la musica che ho registrato col Buchla. Per i live in quel caso avevo costruito delle sessioni in Ableton con materiale preregistrato che si adattava a essere ri-arrangiato e rielaborato dal vivo. Ma questa modalità mi annoiava molto e ogni volta non riuscivo a godermi il momento della performance live. Questa prima esperienza negativa mi ha portato a ricercare modalità live più flessibili e questo è stato all’origine di una revisione generale del mio approccio compositivo a partire dalla fase di concepimento stesso delle musiche. Desideravo ricreare nel momento del live un mondo musicale in cui ci potesse sempre essere un margine più o meno ampio di ricombinazione delle possibilità disponibili. Un mondo che potesse respirare ed io con lui.
Ero affascinata dal funzionamento dei sistemi modulari perché basandosi sull’accostamento di singole unità, ognuna delle quali performa una specifica funzione audio, permettono di avere una cognizione particolarmente lucida dei processi della sintesi, più di quanto di solita non avvenga nel caso di sintetizzatori commerciali. Volevo essere in grado di approfondire anche solo un concetto musicale in maniera selettiva e cristallina, per poi espanderlo massivamente grazie alla logica combinatoria dei moduli. Allora ho cominciato a farmi un live set hardware….mi interessava lavorare con i pattern e approfondire operazioni pattern-based. Quindi ho comprato un sequencer che mi permesse di salvare sequenze lunghissime e applicare operazioni matematiche per variarle (ER-101 dell’orthogonal devices) e un’oscillatore con un design basato sulla sintesi additiva che mi permettesse di ricavare l’ispirazione melodica dalla selezione delle armoniche del suono (Verbos Harmonic Oscillator). Ovviamente avrei potuto usare un computer, che rimane principe indiscusso di operazioni pattern-based ma mi interessava avere un sistema compatto e limitato da poter suonare dal vivo.
I primi live con questo piccolo sistema di fatto consistevano nell’espandere una matrice limitata di unità melodiche e ritmiche di partenza applicando ripetizione, permutazione, procedimenti additivi/sottrattivi e altre operazioni che contemplavano sempre un degree di randomness all’interno di un intervallo di valori limitato. Da questa pratica ricombinatoria dell’improvvisazione live sono poi nati i pezzi del mio ultimo album, che nel tempo ho formalizzato e cristallizzato sempre più fino all’effettiva fase di registrazione in studio a novembre-dicembre 2015 (dopo la quale anche il live è divenuto meno improvvisativo).
Comunque avevo l’impressione che questa pratica di ricombinazione dal vivo di un vocabolario limitato di segni mi permettesse di ricreare ogni volta un mondo di possibilità diverse. Ed è proprio lo stile altamente “formulare” di queste composizioni a permettere una ricomposizione più o meno libera di unità melodiche e ritmiche entro un quadro di riferimento armonico, che mi verrebbe da paragonare quasi a un sistema linguistico le cui frasi sono rappresentate da pattern mnemonici precomposti che si prestano a essere espansi.
Sicuramente la permutazione, la struttura modulare/paratattica, la ripetizione ciclica, la musica come continuum organico, l’uso di pattern ritmici e melodici ricorsivi, la performance concepita come forma aperta e generativa sono state forti ispirazioni per me. In parte anche da ricondurre, fra le altre cose, ad alcune letture sugli archetipi formali del pensiero musicale indiano. La musica come paradigma di “ricreazione” e crescita organica per esempio è uno degli archetipi più pervasivi della musica classica indiana, essendo un concetto ricorrente nella speculazione filosofica e informando molte delle strategie formali d’improvvisazione.
Johann Merrich: Rimanendo nel mondo dei sintetizzatori, ogni musicista ha il suo “oscuro oggetto del desiderio” – il mio è il VCS3 degli EMS. Qual è il “vorrei ma non posso” di Caterina Barbieri?
Caterina Barbieri: Alcuni synth iconici della Roland come Juno-106, JP 8000 etc. Nella lista c’era anche la TB303 della Roland fino a poco tempo fa. Poi, per una sorta di miracolo, ho avuto modo di farci esperienza. Non posso ancora rivelare niente ma sull’orizzonte ci sono molte novità che riguardano questa “silver bitch”
Johann Merrich: I musicisti di elettronica si dividono in due grandi categorie: chi acquista synth e poi magari li rivende per cambiare tipologia di suono o approccio alla macchina, e i feticisti, che piuttosto di venderli si getterebbero in un pozzo – io ho un Poly800 che uso due volte l’anno ma non lo venderei mai, anche perché ci ricaverei ben poco..! Qual è la tua posizione?
Caterina Barbieri: Io non sono una collezionista e non ho assolutamente un approccio nerd al mondo dei synth. Mi posso innamorare del pensiero musicale che una certa macchina porta a concepire. Ma non mi interessa ad esempio andare a provare i synth nei negozi e vedere le ultime caratteristiche dell’ultimo modello sul mercato. Men che meno seguire quei noiosi post di synth cafè sull’ultimo modello di synth e su chi ne sa di più. Non sono nemmeno un “manual guy”, ho sempre ricercato un feeling naturale e una modalità intuitiva nel suonare i synth. Trovarmi sola con la macchina davanti mi basta. Detto questo di solito mi affeziono molto alle cose con cui lavoro anche se magari capita che il naturale processo di ricerca artistica mi porta ad allontanarmene. Come è capitato col Buchla per esempio. Per me gli strumenti musicali sono molto più che semplici oggetti da provare e usa gettare, come ho cercato di spiegare prima sono trigger di esperienze (esattamente come può essere il dialogo con un amico, una sessione di corsa o una sostanza eccitante per qualcun altro) che sbloccano risorse interiori di cui magari si ignorava persino l’esistenza.
Johann Merrich: So che da tempo sei impegnata agli EMS di Stoccolma, ci puoi raccontare come si svolge la vita negli studi, quali sono le opportunità che un giovane compositore può trovare?
Caterina Barbieri: Gli EMS, centro nazionale di musica elettroacustica dal 1964, sono retti dallo stato svedese e ospitano ogni anno artisti internazionali tramite residenze e altri progetti. Negli EMS sono presenti sei studi attrezzati per la produzione audio-video ed aperti agli artisti 24/7. Due di questi studi contengono sintetizzatori analogici vintage, un sistema modulare Serge e uno Buchla 200. Gli EMS sono un posto unico, che riflette un modello sociale illuminato di fruizione artistica, nonché di condivisione delle conoscenze. E’ talmente lontano da modelli cui siamo abituati in terra nostrana, che stentavo a credere che un luogo tanto democratico e avveniristico potesse davvero esistere.
Per me rappresentano una sorta di piccola società cyber ideale. Sono grata dell’opportunità che ho avuto, di esperire in prima persona il risultato di anni di politiche culturali e socialismo svedese. Daniel M Karlsson, mio amico e compositore, ha steso un testo, “CommonOwnership”, a corredo di una sua omonima composizione fatta col sistema Buchla dell’EMS. Il testo, che esprime bene questo senso di gratitudine, , può essere letto qui). E’ nell’ambito degli EMS che ho cominciato a credere nella possibilità di dedicarmi seriamente alla composizione soltanto qui, grazie al supporto che questi studi hanno sempre mostrato nel mio lavoro. Non penso proprio che avrei iniziato a farlo se fossi rimasta in Italia. Purtroppo nel nostro paese non ci sono ancora strutture adeguate, sia mentali che materiali, a reale supporto della creatività giovane.
Johann Merrich: Com’è nata la collaborazione con Cassauna?
Caterina Barbieri: John di Important Records si è imbattuto nella mia musica su Facebook e mi ha scritto un messaggio privato (W i social network!).
All’epoca avevo solo due brani finiti col Buchla ma stavo lavorando a un’idea di album che avevo molto chiara nella mente e tra i miei sogni più nascosti c’era proprio quello di far sentire quel materiale all’Important. Quindi per me è stato l’avverarsi di un sogno. Stimo tantissimo l’integrità di questa etichetta e non avrei potuto immaginare una casa ideale migliore per i miei lavori. Da lì è nato un rapporto di fiducia personale reciproca di cui sono molto felice e grata (che ritengo più prezioso di infatuazioni momentanee che posso avere per altre realtà).
Johann Merrich: Domanda banale, ma che amo chiedere ai colleghi che lavorano fuori dall’Italia per aumentare il grado di vittimismo e frustrazione: all’estero, un giovane compositore può vivere di sola elettronica?
Caterina Barbieri: E’ dura. Ma se ci si dedica con totale devozione e audacia ce la si può fare. Certo non si può fare a meno di confrontarsi con ritmi di produzione e riciclaggio spietati, che portano a un’inevitabile trasformazione costante del ruolo e dell’attività del compositore. Il compositore oggi è anche performer, artista visivo, intellettuale, programmatore. Bisogna essere competitivi prima di tutto in questa condizione di mutanti. Oggi bisogna saper integrare nella propria modalità di lavoro tante diverse qualità che un tempo non si sarebbero definite direttamente musicali ma che oggi spesso fanno la differenza.
Si va sempre di più verso un approccio sinestetico che è trasversale a tutti i campi del sapere. E bisogna provare a interpretarlo, anche se muta talmente in fretta che a volte diventa davvero difficile. Nell’accelerazionismo generale delle nostre condizioni d’esistenza, sapere “profetizzare” le tendenze diventa sempre più arduo ecco. Da un punto di vista più pragmatico poi, bisogna essere pronti ad accettare un certo stile di vita che per alcuni può risultare hardcore, mettendo in conto momenti di shock emotivo e malinconia dovuti alla condizione di instabilità di questa carriera e nomadismo stagionale.
Johann Merrich: Alcuni – invidiosi – guardano di malocchio l’improvviso successo di Caterina Barbieri; il tuo curriculum invece, a dispetto dell’età che probabilmente sconvolge solo gli italiani, è di tutto rispetto. Quest’estate hai avuto molte date, come funziona la tua circuitazione nell’ambiente elettronico? Ti appoggi a un’agenzia di booking o a un ufficio stampa?
Caterina Barbieri: Fino a pochi giorni fa non ho avuto agenzia di booking e non ho mai ricercato date attivamente. Suono ai concerti che mi interessano, organizzati in contesti in cui penso che la mia musica possa essere valorizzata e in cui ci sia possibilità di connettere a livello di scambio umano e artistico.
Per quanto riguarda gli haters non è una novità per me. Di esperienze negative ne ho già fatte parecchie, in particolare pare che attiri l’odio della comunità macho dei sintesisti. Uomini di una certa età e di una certa posizione accademica anche, che non si fanno problemi a mostrare apertamente posizioni di nonnismo e sessismo alquanto deprimenti. Per fortuna di gente che vuole svecchiare il paese da questo punto di vista ce n’è tanta e la mia impressione è che ci siano le promesse di un imminente risveglio anche dalle nostre parti.
Johann Merrich: A livello di pubblico e di attenzione all’ascolto, come ti trovi durante i tuoi live? Pensi che la musica di ricerca sia ancora oggi destinata a essere confinata all’interno di un certo tipo di ambienti, spesso frequentati dai soliti musicisti o addetti ai lavori?
Caterina Barbieri: Spero proprio di no. Già rispetto a quando ero adolescente mi pare che le cose siano parecchio cambiate. I festival puntano sempre di più alla trasversalità e all’incontro di produzioni musicali radicalmente diverse. E anche le tipologie di pubblico sono meno segregate. Questa è una cosa bellissima e penso che la condivisione senza filtri dei contenuti nel web abbia definitivamente contribuito a modellare questa attitudine fluida e ibrida nella ricezione dei contenuti musicali, che non vengono più necessariamente mediati e rallentati dal filtro dei pregiudizi dell’amico o del professore ma viaggiano liberi nel cyber spazio. Ovviamente questo ha anche i suoi lati “pericolosi”, come il potere mistificatorio del potere mediatico etc…ma io ho uno sguardo ottimista al riguardo, l’anarchia del web può indebolire il senso critico così come acuirlo, dipende solo dalla nostra consapevolezza.
Johann Merrich: Toccherà parlare dell’annosa questione “donne e musica elettronica”, che esiste solo nel panorama di quanti ignorano la storia della musica. Ricordo una nostra interessante conversazione quest’estate in materia di “gender” in cui parlavi, credo, del lessico (?)…
Caterina Barbieri: E’ una tematica rispetto alla quale mi trovo ovviamente sensibile. Anche se il modo in cui sento di potermene occupare meglio consiste proprio nel fare musica. Come ben sai – dato che tu stessa ne hai fatto parte – a gennaio ho partecipato a un’iniziativa molto interessante commissionata dall’Istituto Svizzero e ideata dalle artiste Sally Schonfeldt e Anna Frei, dedicata alle pioniere della musica elettronica italiana (http://www.istitutosvizzero.it/it/eventi/calendario/eventi-roma/echo-la-rocca—the-sound-as-the-trace-of-her-voice).
Ho apprezzato molto questa iniziativa perché oltre a un percorso di ricerca e ricostruzione storica ha promosso un’interpretazione della tematica nel presente, commissionando concerti e performance originali. La mia composizione, “Technologies of the Self”, era dedicata all’assenza e all’alienazione di una prospettiva femminile nella storia della prima musica elettronica italiana. Volevo evitare la nostalgica o lamentosa rivendicazione di ciò che è mancato o manca. Quello che mi interessava era provare a stimolare in chi ascolta un ruolo attivo nel ripensare le costruzioni di genere tramite un esperimento sonoro che liberasse il potenziale emancipatorio della tecnologia. Credo nella potenza del suono come agente di cambiamento, anche sociale e culturale. Cambiamento che mi auguro possa veicolare anche la ridefinizione delle nozioni binarie di genere profondamente radicate nella nostra cultura e ridisegnare il mondo della musica male-oriented in cui volenti o nolenti siamo nati.
Johann Merrich: Che cosa ascolta Caterina Barbieri?
Caterina Barbieri: In questo preciso istante sto ascoltando Max Eilbacher. Poco fa El Mundo Frio dei Corrupted. Ancora prima COH, 6K e K. Leimer. Prima ancora Dracula Lewis, una selezione di Jesse-Osborne Lanthier su Community Berlin Radio, Mats Erlandsson, Charles Cohen e Claudio Rocchetti.
Cose del 2015 che riascolto spesso sono le produzioni di Kelela. Sto affittando la casa a Berlino di un celebre collezionista di dischi e libri. Per me è un vero paradiso! Sulla scia di recenti ascolti di dungeon synth stimolati da Kali Malone (con cui anche collaboro) ho deciso di approfondire soprattutto la sezione metal di questa folta libreria. Ho dedicato parecchie ore anche a un meraviglioso cofanetto intitolato “American Cassette Culture” dedicato al periodo 1971-1983, dopo aver ascoltato il quale ho immaginato una genealogia musicale per i lavori di William Basinski. Poi c’è IL disco proibito, un vinile di Steve Reich con Four Organs, Pendulum Music e Phase Patterns che vorrei tanto aprire ma che è ancora sigillato. Per quello mi devo accontentare di youtube…