L’arte italiana eleva il mondo da sempre confermandosi ad alti livelli per merito di artisti che, a volte, hanno maggiore visibilità e consensi al di fuori della patria d’origine per la loro specifica internazionalità, per una visione d’insieme che scavalca i provincialismi e soprattutto per la puntuale professionalità e serietà insita nei concorsi e nei festival planetari.
Vera Michela Suprani e Claudio Oliva – fondatori del progetto artistico Teatro Deluxe che indaga i territori delle arti visive sino alla performing dance a diverse latitudini – sono riusciti a convincere meritatamente con la loro caparbietà e competenza anche gli scetticismi e le insidie di un’Italia che, molte volte, non è trasparente nelle celebrazioni, fa fatica a seguire metodi meritocratici e stenta a livellarsi all’Europa. Da poco rientrati dalla Birmania, dove sono stati selezionati fra oltre cinquecento artisti per l’IMMAF Symposium of Contemporary Art di Yangon, hanno rappresentato la produzione artistica italiana con i seguenti lavori: Elementa – 1 (2012), Animalità Residua (2012), Imperfetta Solitudine (2011) e Feminea – I animazione (2009), oltre alla performance Greetings from Coney Island, ideata durante la permanenza a New York.
Dopo aver presentato i loro lavori al KC Fringe Festival, al Theaterlab di Manhattan, in Israele, Colombia, Spagna e Francia, hanno affrontato questo lungo viaggio per restare sempre in gioco e per sviluppare nuovi progetti da attuali ispirazioni, da scambi e connubi orientali, come anche il Direttore Artistico Aye Ko afferma: “…L’idea sottesa alla creazione del progetto è la volontà di diffondere l’arte birmana oltre i confini nazionali aprendone la fruizione ad un pubblico di artisti internazionali e di farla crescere attraverso gli scambi con gli artisti locali. Questi ultimi, dal canto loro, avranno modo di conoscere le opere di un’accurata selezione di esponenti dell’arte contemporanea internazionale al fine di approfondire le contraddizioni ed i conflitti tra le creazioni dell’arte rituale e le pratiche artistiche contemporanee…”.
Il lavoro di Teatro Deluxe – con la propria ricerca socio-antropologica unita a un’estetica materica ora digitalizzata ora artigianale – è sicuramente il più cosmopolita e raziocinante, nella sua irrequietezza, in circolazione; figlio dell’ordine polisemico della Gesamtkunstwerk, di una scenografia dinamica e minimale del teatro del XXI secolo, del multitasking cognitivo dell’“uomo flessibile” di Richard Sennet e della modernità liquida Baumaniana. Lavori metodici sino alla post-fruizione, delicati e fragili nella loro intima attuazione, anche allegoricamente calamitosi nella loro introspezione sociologica: pixelaggio etnologico multiforme.
Trasuda una comunicabilità sottile senza ridondanze, un dovere morale di democrazia senza profitto, una visione armonica e organica, dove il particolare è pensato come contenuto di un tutto. L’esperienza che Teatro Deluxe ci offre con la serie d’installazioni, performance, video e fotografie è di tipo mnemonico e ontologico, vero e proprio crocevia di linguaggi e rappresentazioni fisiologiche atte a smembrare ideologie e credenze, muovendo sradicamenti in un’immaginaria (e Felliniana) ermeneutica Deluxiana.
Accanto ai formati che si concretizzano di volta in volta un elemento insieme intenso ed eloquente, è la bellezza sensoriale, sentimentale, iconica; il loro gusto sembra essere quello cui tutti aspiriamo e lo mostrano così come Manet ci mostrò l’Olympia. Ecco allora che Claudio e Vera innalzano e inaugurano una nuova psicologia dello stile, un altro salto in avanti della rappresentazione post-moderna, annullamento dell’eloquenza che mira a una sospensione del vivere nell’attimo dell’initium del dispositivo. E se – come scrive Jean-Luc Nancy – la presenza vuole l’intensità, in Teatro Deluxe ora ci ritroviamo in un punto di vista a più dimensioni, in tempi e spazi promiscui, in corpi frammentari e nello stesso tempo complementari. Superamento del presente.
Ringrazio sentitamente il gruppo per avermi concesso una breve intervista fra Roma e Ravenna che pubblico di seguito, e che ci consegna una visione più allargata del proprio sentire.
Massimo Schiavoni: Chi sono stati Vera Michela Suprani e Claudio Oliva? Chi sono attualmente?
Teatro Deluxe: Vera Michela Suprani e Claudio Oliva hanno avuto la fortuna di incontrarsi in territorio universitario e la possibilità di cominciare un percorso artistico insieme. Attualmente formano il nucleo centrale del gruppo Teatro Deluxe (del quale fanno parte Giulia Di Vincenzo, Alessandro Oliva e Valentina Vanja Suprani), progetto che interroga il reale attraverso i campi della fotografia, del video e della performance. Quello che realmente è cambiato in noi, rispetto agli inizi dell’esperienza di Teatro Deluxe, è la consapevolezza che il lavoro possa effettivamente incontrare qualcuno in grado di recepire e apprezzare la nostra modalità d’indagine sul presente; prendere coscienza di questo dato ci stimola a cercare di coniugare sempre più il nostro sentire con una forma potenzialmente accessibile da chiunque ci conceda la propria disponibilità.
Massimo Schiavoni: Vorrei andare più alle radici. Dove sono nati il vostro sentire e la vostra passione per questo tipo di ricerca artistica? Che tipo di specificità e professionalità avete in ognuno di voi e perché avete deciso di interrogare il reale con diversi formati?
Teatro Deluxe: Essenzialmente autodidatta, Claudio si è formato – e continua a formarsi – attraverso la pratica e la riflessione circa l’ambito fotografico (fotografia di scena, reportage) e video-cinematografico, attività che con Teatro Deluxe si sono estese alle arti performative. Il percorso di Vera, incentrato inizialmente sull’ambito del teatro e della danza, va ora ampliandosi in direzione delle arti visive. Studia con l’Odin Teatret nelle persone di Eugenio Barba, Julia Varley, Iben Nagel Rasmussen e Augusto Omolù, con Nigel Charnock (Dv8 Physical Theatre), Masaki Iwana (buto bianco) e Silvia Rampelli (Habillè d’eau).
I progetti sono ideati e sviluppati in coppia: Claudio si occupa della regia, fotografia, video editing, mentre Vera, oltre a curare l’organizzazione, la comunicazione web, e la scelta dei costumi, si occupa e preoccupa di avere un corpo presente per soddisfare le mutevoli esigenze performative. Crediamo che l’interrogazione del reale attraverso diversi formati sia quella a noi più congeniale, preferendo le sfumature alle classificazioni. Ci piace cambiare punto di vista, relativizzare continuamente il nostro operato: mezzi quali il teatro, il video e la fotografia ci consentono di soddisfare ampiamente questa esigenza.
Massimo Schiavoni: È un’esigenza voluta o costretta questa scelta “ibrida”, anche sulla verifica delle nuove esigenze del mercato, sul “progresso” della nostra epoca e sulla collaudata contaminazione dei linguaggi che hanno portato a una sorta di multitasking naturale socio-antropologico? Presentatemi la nascita e l’evoluzione dei vostri primi lavori per ciascun formato metodologico.
Teatro Deluxe: Si tratta di un’esigenza fortemente voluta, come dicevamo, innescata dai nostri diversificati background. Per poter seguire le nostre passioni abbiamo al momento necessità di praticare questa ricerca ibrida. È un percorso che dialoga chiaramente con un presente di cui ci sentiamo parte e guarda al futuro proprio attraverso il lavoro di sperimentazione: abbiamo la volontà di comunicare il nostro sentire tramite i linguaggi che pervadono l’epoca in cui viviamo e che sentiamo congeniali e stimolanti; in questo senso, inoltre, crediamo funzionale alla nostra ricerca non tanto e non solo l’utilizzo di media moderni quanto un utilizzo moderno dei media, ossia di una via per la quale questi dispositivi siano in grado di comunicare emotivamente riflessioni sul reale alle persone di questo tempo.
Teatro Deluxe nasce come compagnia teatrale. Già dal primo spettacolo portato in scena, però, è apparsa evidente una non strutturata volontà di porre al centro del percorso di ricerca il potenziale comunicativo che l’interazione di differenti linguaggi reca con sé. Partendo dal presupposto che non esistono, a priori, media fra loro artisticamente incompatibili, si è tentato di partire dal senso: l’irruzione di un linguaggio all’interno di un altro deve essere subordinata alla capacità del primo di produrre significato a un livello logicamente e/o emotivamente importante.
Nel primo lavoro teatrale, intitolato Pearl – Interno notte con figura insonne (2008), si costruì un prologo audio-fotografico (piccolo film in cui la parte video è affidata allo scorrimento a tempo di diapositive) nel quale è introdotta la situazione della protagonista immediatamente precedente l’inizio dello spettacolo dal vivo: i personaggi che danno vita al breve dialogo, questa è la particolarità, sono bambole poste in un set appositamente costruito. Il padre, la matrigna e Pearl sono lì, di fronte allo spettatore, parlanti e semoventi. Nel momento in cui, senza soluzione di continuità, avviene il passaggio all’attrice in carne ed ossa, la sensazione che ne deriva è quella di trovarsi catapultati in un mondo che in parte si è già conosciuto, ma che adesso ha assunto forme e dimensioni assai differenti, costringendo il pubblico a usare una seconda volta i propri sensi per addentrarsi nel nuovo linguaggio, la cui percezione sarà giocoforza influenzata da quello precedente.
Da Pearl in poi, quindi, si è cercato di lavorare essenzialmente sulle relazioni fra differenti media sia diversificando la produzione, sia, conseguentemente, sperimentando a più riprese l’ibridazione fra i succitati linguaggi. Feminea – I Animazione (2009) è il primo esperimento video di Teatro Deluxe ed anche l’opera con cui ha inizio l’indagine sugli effetti che la rappresentazione multimediale (fotografia, video, musica, movimento) di un medesimo soggetto sortisce sulla percezione spettatoriale di esso. L’ambiguo essere femminile con una maschera da uomo compie una serie di movimenti, anticipando o seguendo le posture indicate da diverse fotografie che si succedono alle sue spalle: soggetto di quegli scatti è sempre lei, Feminea. La multimedialità “esibita” nell’opera è risultata funzionale a innescare una riflessione sul corpo contemporaneo, con particolare riferimento alla standardizzazione della bellezza femminile, legata alla fatica di riferirsi imprescindibilmente a un modello irraggiungibile.
Alla fine del 2009 comincia a prendere forma il progetto fotografico Faceless, indagine sulle potenzialità espressive del corpo umano condotta senza utilizzarne la parte più immediatamente comunicativa e potenzialmente ingannatrice: il volto, dunque, è celato. Alcune delle cinque serie fotografiche che costituiscono l’ossatura del progetto sono presentate sia come opere a se stanti sia come parte integrante di performance che coinvolgono dal vivo i personaggi immortalati negli scatti, i quali instaurano con i propri referenti iconici una relazione gestuale. La presenza in Faceless di due video, che vengono proiettati contestualmente ad altrettante serie fotografiche, rende ancor più evidente la natura multimediale dell’opera. L’apparente ossessività del lavoro trova una giustificazione nel disagio, nell’inquietudine che la fruizione del progetto vorrebbe generare nel pubblico, al punto da indurlo a una riflessione sul concetto di visione e soprattutto, di percezione.
Massimo Schiavoni: Parliamo di teatro. Raccontatemi lo spettacolo Feminea – White Frame, presentato, tra l’altro, in Germania e in America, dove lo sperimentalismo non ha limiti, richiamando la frase di America Oggi. Che ruolo ha qui secondo voi l’identità del corpo contemporaneo e come bisogna disporsi nei suoi confronti? Che cosa volete restituire allo spettatore con questo intervento performativo dove spazio, corpi, video e suono interagiscono in un bianco sint-etico? La performance “conturbante” che ho visto a Mondaino nel Maggio 2011 come s’innesca dentro la vostra pratica? Si svilupperà in futuro quest’approccio coreutico e sinestetico?
Teatro Deluxe: Feminea – White Frame ha debuttato al Theaterlab di New York City l’estate 2010 come ultima tappa di un progetto iniziato nel 2009 con il video Feminea – I Animazione; questo percorso lungo e articolato ci ha condotto inevitabilmente a riflettere sul concetto d’identità, con particolare riferimento al corpo contemporaneo. La costruzione dello spettacolo ha fatto crescere in noi la necessità di indagare, attraverso il gesto, quella misteriosa e affascinante fase della vita che viene prima della coscienza, ivi compresa quella di genere (inteso come maschile e femminile). Facendo agire un essere ancora animale e istintivo attraverso un corpo adulto abbiamo cercato di creare un corto circuito in grado di restituire al pubblico quel senso di ambiguità che pervade il reale, noi esseri umani compresi. Ci interessa creare nuove visioni capaci di sfiorare, anche solo per un attimo, la sensibilità di chi sta guardando.
Il concetto d’identità, sia in senso individuale che globale, genera continui interrogativi, legati anche al suo divenire, nell’universo virtuale, un’entità sempre più “liquida”, con inevitabili riflessi nel mondo reale. La moltiplicazione potenzialmente infinita degli io è un tema le cui implicazioni meritano la massima attenzione.
L’opera di cui sei stato spettatore a Mondaino s’intitola Greetings from Coney Island ed è nata dalla volontà restituire un luogo (nello specifico il decadente quartiere newyorkese di Coney Island) attraverso un corpo. Da quell’idea si è arrivati – o meglio, si sta arrivando, visto che il lavoro non è ancora giunto a una forma definitiva – sempre più a definire la nostra rappresentazione di quel luogo come lo stato d’animo di una prostituta, donna ma anche animale e mostro che, con il proprio agire, segna inesorabilmente l’immagine del luogo e la sensazione di turbamento che ha generato in noi quando lo abbiamo vissuto nella realtà. Dunque, ecco che ancora una volta tentiamo di affidare a un corpo la possibilità di raccontare, in definitiva, qualcosa di noi, nella speranza che questa pratica possa contribuire alla costruzione di un terreno di confronto con i nostri simili. Da un punto di vista scenico, con questa nuova produzione si è tentato di consegnare allo spettatore la consapevole illusione (punto di ambiguità che ci sta a cuore) di trovarsi al cospetto di uno schermo cinematografico piuttosto che di un palco con un’attrice in carne ed ossa, con l’intenzione cioè di far entrare il pubblico in una dimensione filmica, buia, da voyeur senza l’utilizzo del medium video. È l’inizio di una nuova via ricca di stimoli, all’interno della quale troverà spazio lo sviluppo dell’attuale approccio coreutico, sia in questo progetto che nelle performance in lavorazione.
Massimo Schiavoni: Arriviamo a Imperfetta solitudine del 2011 – liberamente ispirato alla figura di Francesca da Polenta – e all’installazione performativa Animalità Residua del 2012, che ho avuto il piacere di ammirare dal vivo durante il Convegno Internazionale Culture a Sistema di Roma. Come spieghereste l’inquietante opera animalesca che spiazza senza mezzi termini chiunque si avvicini e perché un totem dovrebbe custodire e nello stesso tempo liberare?
Teatro Deluxe: Il video Imperfetta Solitudine continua la ricerca incentrata sul rapporto fra corpo e luogo; in questo lavoro immaginiamo lo spirito di Francesca, le cui vicende sono narrate da Dante nella Divina Commedia, aggirarsi senza pace in spazi industriali e rurali di quella che oggi è Ravenna, città natale del soggetto ed anche della stessa performer. Spiegare un’opera è come snaturarla; il focus del progetto Animalità Residua sta proprio nella relazione che esso riesce a instaurare con lo spettatore. Questa lapide, totem, monolite bianco, custodisce e imprigiona un essere umano senza tempo che è alla ricerca di un contatto con il presente attraverso un vello, primordiale simbolo dell’origine animale dell’uomo. Il totem libera aiutando gli esseri umani a rammentare ciò che sono.
Massimo Schiavoni: Raccontatemi brevemente l’esperienza appena terminata in Myanmar.
Teatro Deluxe: L’esperienza è stata enormemente stimolante ed è consistita in una tre giorni d’incontri intensissimi vissuti insieme ad artisti provenienti da tutto il mondo e a giovani artisti locali che operano attivamente nel proprio paese nel campo delle arti visive e/o performative. Unici italiani, abbiamo presentato tutti i nostri lavori video e la performance Greetings from Coney Island. Il pubblico ha reagito con molta partecipazione a tutto il festival definendo le nostre opere dotate di un carattere unico, straniante, originale e fresco. Molto apprezzato è stato anche il puntuale lavoro sul corpo che ci dicono abbia regalato, travalicando le differenze culturali, momenti di rara intensità. Siamo estremamente soddisfatti di avere partecipato a quest’avventura e ora è il momento di riflettere sui nuovi e necessari stimoli provenuti da discussioni e opere di altri artisti con i quali condividiamo bisogni e aspirazioni. Questa prima volta in estremo oriente è stata un’importante opportunità di confronto per testare l’evoluzione del nostro percorso artistico e avvicinarci a un mondo apparentemente così lontano.