L’archivio locale è uno strumento contro l’egemonia, però purtroppo non contro quella digitale. Innanzitutto, le radici dell’archivio digitale sono troppo invischiate nei programmi del potere stesso, dalla struttura della tecnologia digitale fino all’’egemonia della tastiera QWERTY. In secondo luogo, a molti livelli, l’archivio digitale è troppo effimero per essere uno strumento anti-egemonico che possa funzionare oltre un periodo di tempo molto limitato.
Se prendiamo in considerazione l’opera Boite en Valise di Marcel Duchamp., in questa serie vi è una reiterazione dell’intento dell’artista attraverso un processo di archiviazione che rifletta la sua persona. All’interno di quest’opera, Duchamp ha messo in cortocircuito i circuiti di capitali nella tradizione delle gallerie contemporanee del suo tempo (non molto diverse da quelle della fine del millennio): tutto il suo discorso, la sua produzione e la distribuzione collassano nella Valise.
Ad ogni modo, nel caso in cui tutti i metodi di produzione vengano accentrati sull’individuo, il potere piò include una trappola di schiavizzazione basata sulla tecnologia? In altri termini, considerando tutte le funzioni di produzione e distribuzione, esiste una linea sottile tra l’“outsource” di tutti i metodi di produzione culturale e la natura affamata (economicamente e temporalmente) dell’artista contemporaneo.
Tutto questo comporta che le tecnologie che danno potere all’artista, non lo sostengono nell’autodeterminazione, ma creano un “outsource” di prodotti culturali che prima erano sotto la responsabilità di istituzioni, mecenati e fondazioni. In breve, la legittimazione tecnologica consente all’artista di avere un maggiore controllo sulla sua “spinta” discorsiva, ma con il rischio di essere schiavizzato dai requisiti aggiuntivi necessari a sostenere questa impresa del tutto unica. E questo si traduce in un tempo maggiore per sostenere l’opera e un tempo minore per crearla.
La valutazione dell’abilità tecnica nei new media
Recentemente, durante una conversazione sulla lista Rhizome (http://rhizome.org/), un collega parlava di una particolare raccolta di opere che non gli era molto gradita, ma che riteneva comunque interessante dato il grado di difficoltà tecnica che implicava. Questo è solo un’esempio, ma serve come metro di paragone, anche se piuttosto scontato, per ciò che sembra essere un fenomeno molto più ampio.
Riguardo alla creazione nell’ambito dei New Media, ho incontrato un gran numero di artisti convinti che il valore di un’opera sia collegato all’abilità tecnica di un artista e al grado di difficoltà della creazione dell’opera stessa. Il collegamento tra New Media Art e abilità tecnica, sembra soppiantare il dibattito su arte e oggettualità iniziato nel 1917 con la disastrosa firma di “R.Mutt” sulla Fontana di Marcel Duchamp. E, con la forza del movimento d’Arte Concettuale che negli anni ’60 e ’70 lavorava sulla problematizzazione dell’idea di oggetto artistico, perché un discorso materiale (come quello dell’abilità tecnica) riemerge in un movimento de-oggettificato come quello dei New Media? Questo è (in qualche modo) un fenomeno misterioso.
La riflessione più semplicistica in questa conversazione, è collegata alla messa in discussione della natura dell’arte da parte delle persone, a partire dall’avvento del Modernismo, e successivamente del Postmodernismo. Perché gli studenti continuano a chiedere “Cos’è l’arte?”, e ancora più stranamente, perché uno dei miei compagni di classe alla scuola di specializzazione nel 2005 chiese “Cosa è buona arte”? Fare queste domande è sconvolgente: vuol dire che si considera l’attitudine di massa Americana verso l’arte come la pazzia di un dilettante, e non come un “vero” lavoro, poiché l’arte viene percepita come “divertimento”. Sembra di parlare dell’aspetto rappresentativo e utilitaristico.
In una società dominata dal desiderio di produttività del capitalismo, e dal “valore d’uso” di un’opera, entrambi gli aspetti sono collegati a un conflitto tra criteri qualitativi e quantitativi per la valutazione dell’arte come cultura e come lavoro.
Dalla mia esperienza negli Stati Uniti nel 2006 ne ho ricavato che il materialismo della cultura di massa identifica la valutazione dell’arte con la sua vendibilità e vede l’attività artistica come una prospettiva di lavoro nell’arte commerciale. Con il rischio di sembrare Greenbergiano, questa può essere una ripresa della spaccatura descritta nel saggio Avant-Garde and Kitsch: l’idea secondo cui, che il mercato di massa privilegi l’arte/la pratica e le confonda con la cultura sia una rottura (se non un’inversione) della distinzione di Greenberg tra cultura alta e kitsch del mercato di massa, dipenda solo dai nostri soldi, e non solo dal nostro tempo…
Da qui, il mito americano del lavoro/produzione e quello utilitaristico sembrano un vero problema che riguarda l’arte come “lavoro”…
Il concetto dell’artista che lavora affamato e schiavizzato è di ispirazione molto romantica, e che piaccia o no, spesso non rientra nell’ambito delle belle arti. Non rientra neanche nin quello del marketing globale, dato che le marche producono raramente i loro oggetti, o minimizzano lo sforzo, attraverso il subappalto del lavoro (per esempio, le scarpe Nike). Questo si adatta bene ad artisti come Koons e Kostabi, che hanno visto i loro lavori realizzato. Nella New Media Culture, artisti come Cory Arcangel hanno creato opere importanti modificando solo una piccola quantità di codici; Eduardo Kac è riuscito a ricontestualizzare molto bene gli animali utilizzati nei suoi esperimenti di biogenetica per un dialogo di massa molto più ampio; Miltos Manetas utilizza degli schemi basilari di corporate branding con effetti eccezionali.
In una conferenza del 2005 presso l’Università di Akron, Arcangel ha infatti affermato che in ogni serie di opere prova a comunicare le sue idee facendo il meno possibile. Mentre quindi una persona utilitarista o lavoratrice potrebbe mal sopportare l’artista concettuale per la sua poca sincerità, la pratica dell’arte contemporanea si è orientata molto di più verso le idee e i contesti piuttosto che sull’abilità tecnica.
Il concetto ad oggi importante deriva dall’idea secondo cui l’arte debba essere inevitabilmente prodotta per il pubblico come un oggetto di intrattenimento. Durante le mie lezioni, questo concetto viene ripetuto come forma di risentimento verso artisti come Matthew Barney colpevoli di non concentrarsi sulle loro vite e/o culture. Il risvolto estremo di questa discussione può portare a valorizzare alcune forme d’arte come quella del WPA Social Realist degli anni ’30, in quanto le opere sono in grado di creare un’immagine idealizzata della gente comune. Ovviamente, questa è un’esagerazione, e semplifica eccessivamente un’opposizione populista alle opere “impegnative” che hanno bisogno di essere analizzate.
Dall’altro lato, il collegamento tra abilità tecnica/difficoltà di un giudizio qualitativo, nell’ambito dei New Media, smentisce una spaccatura tra essi e una più ampia tradizione artistica. La tradizione dei New Media deriva sia da una radice tecnocapitalistica e ingegneristica sia da una artistica. Questo ci porta a un piccolo balzo concettuale verso la tecnofilia, e una percezione secondo cui le opere più interessanti implementino la tecnologia più recente e i sistemi più complessi. Probabilmente, la supposizione tecnofila può essere un po’ eccessiva, ma di sicuro segue la mentalità della ricerca e del design all’interno della cultura digitale, così come descritta da Peter Lunenfeld nel suo saggio Demo or Die.
La sua descrizione di ciò che lui chiama “demo-ing” dei progetti al MIT Media Lab come se fossero delle proposte di mercato di nuovi prodotti, si lega a uno sviluppo creativo e tecnico in termini materiali. Probabilmente è da qui che deriva l’associazione con l’abilità tecnica come indice di valutazione potenziale per la New Media Art.
Probabilmente, la valutazione dell’abilità tecnica nella New Media Art è collegata anche alla tradizione accademica del formalismo in cui vengono stabiliti dei criteri di abilità per un determinato mezzo o una determinata tecnica. L’esplorazione ripetuta e prolungata di una forma è spesso, ad esempio, il criterio di valutazione di una certa “maestrìa” accademica. Con questo mi riferisco ai criteri per assegnare un premio per un alto livello artistico, nonchè alla capacità richiesta dal mondo del marketing delel gallerie e delle mostre museali.
Tutto ciò, può indurre i New Media artist, che probabilmente sono i più effimeri tra i media artist, a far parte di una cultura apparentemente materiale? Questa è una vera spaccatura nella pratica dei New Media; la scissione tra arte oggettuale, capitalismo e la questione che la New Media Art ha sollevato riguardo l’arte object-based, e così via. È una serie di interrogativi che cambiano in base al contesto e al pubblico.
Spero che da queste riflessioni sconnesse sui New Media e sul discorso tecnico, vengano fuori argomenti per ulteriori scambi di idee. Considerando la storia dell’arte contemporanea del XX secolo, mi sorprende come le questioni sull’abilità tecnica si sviluppino tuttora nella Media Art, soprattutto quando sono vicini alla tradizione del Concettualismo. Ma a loro parziale difesa, non ho fatto queste considerazioni per qualche motivo personale o per amore del virtuosismo, ma partendo fenomenologicalmente dalle mie osservazioni sulla storia dell’arte contemporanea degli ultimi 90 anni, così come la conosco.