Sulla (lunga) strada in metropolitana verso la New York Science Hall che ospita la World Maker Faire, su nel Queens, c’è giusto il tempo di sbirciare qualche freepress e riprendere l’articolo del “NYTimes” domenicale che non ho ancora finito di leggere. Un lungo pezzo sul declino della manifattura negli Stati Uniti dagli anni ’50 ad oggi [1] e di come oramai la Cina sia diventata la nazione con la più alta concentrazione di manifattura. A questo articolo si affiancano altri che parlano del crescente tasso di disoccupazione e di come, dato ancora più preoccupante, uno statunitense su tre di quelli senza lavoro sia in questa condizione da oltre un anno. Dai contratti a lungo termine, alla disoccupazione a lungo termine. [2]
Di sicuro gli americani non se ne stanno con le mani in mano, sono pragmatici e non temono di sporcarsi le mani. Il mese prima lavorano in uno dei grattacieli di Manhattan e quello dopo ad un progetto sperimentale in un laboratorio nel Queens. Certo si può fare.
Ed è questa l’atmosfera che si respira all’ Open Hardware Summit [2a] ma soprattutto alla Makerfaire. Progetti impossibili e improbabili che diventano realtà e riescono a raggiungere sostenibilità economica con formule ed equilibrismi creati ad hoc. Non basta avere un’idea brillante, bisogna coltivarsi un team che ci lavori più per passione che per soldi, mantenersi ricettivi delle esigenze di chi ne fa uso e soprattutto impegnarsi a farla conoscere in modo che la gente capisca e la supporti da vicino e da lontano.
Ad esempio, il caso di Benedetta, italiana trapiantanta negli USA e co-fondatrice insieme a Justin, di GroundLab. “Nel 2008 lavoravo per una società di design qui a New York. Ad un certo punto ha iniziato a licenziare e non assumere. Quando mi hanno lasciato a casa abbiamo deciso che era venuto il momento di far partire la società visto che era già un anno che lavoravamo insieme a questo progetto. Ora siamo impegnate 70 ore a settimana. Non stiamo guadagnando chissà quanto, è più di una scelta di vita”.
La loro società si occupa di ricerca, sviluppo e prototipazione, supporta ong, gruppi di ricerca, università, organizzazioni umanitarie a trovare o creare soluzioni nella loro attività, basandosi principalmente su tecnologia open-source. Hanno raccontato del loro progetto all’ Open Hardware Summit e sono presenti alla Makerfaire.
Il loro stand ospita un leone di peluche che indossa un collare. Si tratta di un sistema di tracking per monitorare i leoni del Kenya [3] in modo che riescano a convivere con i guerrieri Masai e i loro pascoli. Quando un leone si sposta, il collare invia un sms ai ricercatori e uno ai Masai così da evitare conflitti territoriali e ulteriori uccisioni degli ultimi 2000 leoni rimasti in vita.
“Anche altre società stanno sperimentando in questa direzione do-it-yourself e open source e sono riuscite a realizzare prodotti, mentre noi facciamo ancora molti servizi. I nostri clienti arrivano con un problema, se poi si trasforma in un prodotto, bene, ma spesso è solo ricerca, field testing o altri servizi che loro non hanno in-house.
Riusciamo a mantenerci e a mantenere il business. Speriamo continui a crescere com’è successo finora. Abbiamo quattro o cinque collaboratori full-time e una cinquantina di part-time che vengono pagati ma che, soprattutto, mantengono i diritti di tutto quello che producono per noi e possono farne uso in altri progetti. Uno dei nostri obiettivi è riportare la piccola e media produzione manifatturiera a NYC e la maggior parte delle cose che produciamo ha la dicitura Made in NYC.”
Il socio di Benedetta, Justin è cresciuto a Detroit e lavorato nell’ambito della fabrication per più di dieci anni producendo principalmente oggetti di arredo o artistici per la gente che se lo può permettere: “Molti laboratori artigianali locali si concentrano su questo tipo di clientela che richiede, per esempio, una scala di acciaio inox fatta a mano per loro loft o oggetti simili.
Non si producono cose utili per la gente ma soprattutto beni di lusso.” E subito dopo però aggiunge “Credo che ci troviamo in una fase di cambiamento. Ci sono diversi fattori che adesso rendono possibile un business come il nostro, dove organizzazioni reali possono essere supportate nel risolvere problemi reali”.
Dopo la chiacchierata con il duo di Groundlab nel palco principale all’aperto della fiera inizia la presentazione di Josef Prusa, ventunenne della repubblica ceca. Il Live Stage della Makerfaire è piuttosto nutrito di spettatori che aspettano di ascoltare il giovane sviluppatore di una delle stampanti 3d open-source RepRap. Parliamo della Prusa Mendel, [4] variante più popolare perchè semplice da assemblare, mantenere e più facile da replicare (ossia stampare i pezzi che ti permettono di costruirne una copia esatta, autonomamente).
Josef, al termine della sua performance, accetta di scambiare due parole con noi. “Non lavoro a tempo pieno sul progetto RepRap, sono ancora studente di economia – ci dice – anche se sarebbe di sicuro possibile poterlo fare; ma non voglio lanciarmi nel business troppo rapidamente. Ho visto cos’è successo ad altre aziende, tutto si trasforma in una questione di soldi e il divertimento svanisce. Prendo ispirazione dal team di Arduino. Loro stanno riuscendo a concentrarsi nel creare nuove cose e innovare piuttosto che focalizzarsi sulla “money thing”.
Quello dell’open hardware è un contesto in cui è possibile creare nuovi modelli di business reali. Per ora mi accontento di lavorare ai workshop, entrare in contatto sia con chi ha creato la RepRap, sia con la community di utenti. Mi piace lavorare con la gente e guadagnare qualche soldo in questo modo, ed è grazie ai workshop che sono volato qui a New York.”
Nonostante queste reali possibilità, Josef racconta come la reazione della gente rispetto all’apertura dei codici sia ancora di sbalordimento e paura e la frase tipica che si sente dire è: “Ah non l’hai brevettato? Ma come fai a farci dei soldi? E’ impossibile!”.
Camminando tra gli stand dell’area Craft mi imbatto in Owyn Rock, responsabile del Textile Arts Center [5] che avevo incontrato qualche giorno prima visitando Yield [6], la mostra di design di capi scarto-zero. Non pensavo di trovarla qui, impegnata a mostrare come si tingono i tessuti con colori naturali.
Mi fermo a parlarle per saperne di più della sua esperienza a New York, dato che chi si occupa di design è spesso refrattario a mostrarsi troppo entusiasta del DIY e di tutto ciò che riguarda la scena dei “maker”: “In realtà abbiamo organizzato Yield proprio per colmare il divario che c’è tra designers e maker – ci spiega Owyn. Nel mondo della moda hanno bisogno di questo ritorno al fare perchè le cose vadano avanti e la gente che acquista ha bisogno di sapere come sono fatte le cose.
Se vuoi creare vestiti e venderli non sottocosto in un periodo di crisi come quella che stiamo attraversando, devi fargli capire il come e il perchè. Siamo un centro per le arti tessili, non vogliamo essere identificati in modo specifico con uno dei due ambiti, dato che il nostro scopo è fare formazione a chi ne ha bisogno.
Incontriamo spesso studenti che escono dalle migliori scuole di moda e di design che non possiedono le conoscenze base. Per esempio, sono designer per la stampa e non hanno mai fatto una serigrafia. Iniziano a lavorare direttamente con il computer, creando prodotti senza capire il processo di produzione che potrebbe aiutarli a progettare meglio. Si puo’ diventare più innovativi se si capisce come le cose sono fatte realmente.”
Il centro ha sede a Brooklyn e hanno appena aperto un secondo spazio a Manhattan. Offrono corsi serali e durante i weekend (12 ore di corso in un mese costa circa 200$ più l’utilizzo gratuito degli Open Studio per fare pratica), focalizzati a chi sta già lavorando e ha bisogno di rinnovare/approfondire le proprie conoscenze.
I loro istruttori sono principalmente freelance che lavorano come designer, insegnano in altre istituzioni, hanno la propria linea di prodotti e fanno anche consulenza ad aziende più grandi. Owyn Rock pensa sia proprio questo il modello, la differenziazione: “Se vuoi avere una professione creativa devi diventare creativo anche nel modo in cui fai business”.
Altro approccio è poi quello di Bare Conductive [7], una piccola start-up londinese per lo sviluppo di materiali conduttivi. Questo autunno hanno lanciato i loro primi due prodotti a base di tempera per condurre segnali elettrici sulle superfici su cui viene stesa, compresa la pelle del corpo.
Isabel, una delle quattro socie, racconta che tutto è nato dalle ricerche degli ultimi anni di università al Royal College of Art: “Questo era il nostro progetto di tesi – ci racconta – ci è venuta l’idea di una tempera conduttiva partendo dall’idea di rendere accessibile a tutti la possibilità di creare circuiti, sia bambini che adulti.
Dopo aver terminato la tesi, siamo stati contattati da Sony che ci ha proposto di usare la nostra tempera per un progetto di video in cui un gruppo di danzatori interagivano. Accettammo di farlo e da lì capimmo che c’era un potenziale mercato per la nostra idea. L’azienda è stata fondata con un piccolo finanziamento privato e dopo due anni di lavoro abbiamo lanciato i primi due prodotti”.
http://www.youtube.com/watch?v=4SJCxN7xxxI
Le chiedo quanto abbia contato la possibilità di essere in un contesto in cui c’era libertà di sperimentazione, e quanto la crisi economica abbia influito sul loro percorso: “All’epoca frequentavamo un corso dove il nostro focus era la sperimentazione e si basava più sul processo che non sul prodotto finale. Non ci hanno richiesto di dire quale sarebbe stato il risultato, eravamo liberi di sperimentare e fino all’ultimo non avremmo saputo se quell’idea si sarebbe trasformata in qualcosa oppure no.
Senza questo tipo di contesto non credo saremmo giunti ad un’idea del genere e credo che gli hackerspace e i makerpaces, in questo senso, abbiano un valore incredibile perchè rendono disponibili a molte persone gli strumenti per sperimentare, condividere idee e conoscenza.
Quando ci siamo laureati era il 2009, economicamente un periodo terribile per cercare lavoro. Credo che se fosse stato un momento più favorevole probabilmente avremmo tutti trovato un lavoro fisso e ognuno sarebbe andato per la propria strada. Ma visto che non c’erano molte opzioni, ci siamo fissati sul nostro progetto. In un certo senso è stato meglio che non avessimo avuto opportunità lavorative perchè ci ha obbligato a cercare un valore in quello che avevamo creato.”
Poco più in là, sotto uno dei tendoni più grandi della fiera, un’altra start-up si sta facendo strada e questa volta nel panorama di prodotti e servizi che facilitano la prototipazione rapida: Tinkercad [8] è la piattaforma online di modellazione 3d per artisti e “maker”.
Parlo con Mikko, uno dei fondatori, che rivela subito come fossero inizialmente anche loro dei “maker”, esattamente come i frequentatori della Makerfaire. Dopo aver acquistato una delle prime stampanti 3d Makerbot si sono accorti che c’era un vuoto da colmare perchè i software 3d professionali in circolazione erano troppo complessi e non riucivano a produrre file che comunicassero facilmente con le stampanti 3d.
“Il mio collega lavorava in Google – ci spiega Mikko – ma dopo il primo figlio ha deciso di rientrare in Finlandia. Io nel frattempo stavo cambiando lavoro e quindi abbiamo deciso di creare questa start-up con un piccolo fondo privato. Stiamo lavorando da due anni per capire chi sono i nostri utenti principali, quello che vogliono e quali caratteristiche del prodotto dobbiamo supportare per stimolarli a lavorare di più col 3d”.
Quasi tutti in Tinkercad hanno fatto esperienza in web services e anche nell’industria del gaming online e da questi ambiti prendono ispirazione per creare un sistema che li renda sostenibili: “La nostra idea si basa da un lato sulle royalties verso i servizi di stampa 3d, dall’altra nell’offrire gratuitamente il software e lo spazio per mantenere i file, lasciando la possibilità a chiunque di scaricarli e di conseguenza far pagare un contributo mensile a chi invece vuole tenere le proprie modellazioni in un’area privata, sino ad arrivare all’acquisto di piccoli oggetti virtuali in 3d, un po’ come la gente fà in Farmville”
È proprio un mix di attività, di esperienze maturate altrove, che si riconfigurano per creare la giusta formula. Dall’individuazione di un bisogno, alla creazione di un prodotto o servizio, alla sua diffusione, vendita e anche modifica, magari grazie al feedback di una community di appassionati, sino alla creazione di workshop di base o avanzati. Tutto questo rende possibile la sostenibilità di molti progetti basati anche sull’hardware aperto. Quello che li unisce, e che emerge dalle loro parole, è sì l’entusiasmo per i loro progetti, ma soprattutto l’aver raggiunto il risultato concreto di mantenersi lavorando a tempo pieno a qualcosa che li appassiona veramente. E di cui spesso può beneficiarne l’intera comunità di “maker”.
Note:
[1] – http://www.nytimes.com/2011/09/11/business/is-manufacturing-falling-off-the-us-radar-screen.html
[2] – http://blogs.wsj.com/economics/2011/07/21/long-term-unemployment-by-state/
[2a] – http://www.openhardwaresummit.org/documentation-2011/
[3] – http://home.groundlab.cc/lioncollars.html
[4] – http://reprap.org/wiki/Prusa_Mendel
[5] – http://textileartscenter.com/
[6] – http://www.textileartscenter.com/yield
[7] – http://www.bareconductive.com/
[8] – http://tinkercad.com/