L’ultima edizione di Transmediale, la grande kermesse Berlinese sui nuovi media, ha riunito come ogni anno artisti, critici, curatori, attivisti e addetti ai lavori sotto l’enfatico titolo “Response:Ability. Transmediale si è occupato, nella sua edizione 2011, delle implicazioni politiche generate dall’evoluzione tecnologica in corso, di quelle abilità che il soggetto ipermediale e ultraconnesso deve acquisire per far fronte alle nuove questioni che la realtà pone con urgenza.

Una delle principali rassegne internazionali su queste tematiche, sembra quindi suggerire che a questo tipo di domande si debba rispondere con delle pratiche, delle mis en act, delle strategie, delle skills, attuabili “respons-abilmente” da una collettività digitale consapevole dei nuovi strumenti in gioco nell’elaborazione/ simulazione del mondo contemporaneo.

Transmediale 11 è un festival sulla formazione di cittadini-utenti in grado di sfruttare al meglio le opportunità che la rete e gli strumenti digitali offrono alla creazione di identità reali e virtuali, individuali e collettive. Idendità in grado di configurare nuove proposte di partecipazione politica, a partire dalla riappropriazione dello spazio pubblico informatico, anche attraverso la costruzione di micro-comunità online, come accade nelle sezioni Open Zone e HackaWay del festival in cui ricordiamo Thimbl (http://www.thimbl.net/), nuovo strumento open source di microblogging. If you’re weary of corporations hi-jacking your updates to make money“, un po’ come accade in Facebook.

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Non è un caso che alcuni dei lavori presentati quest’anno a Transmediale 11 abbiano a che fare con il social network più utilizzato in rete, nel quale gli utenti giocano a diventare nodi identitari di una rete condivisa di contatti con in quali continuamente ridefinire se stessi, attraverso fotografie, video, link, note.

L’impressione è che il tema dell’identità sia uno degli assi portanti del festival: identità come processo, piuttosto che come definizione, substantia, essenza. Identità come progetto di soggettivazione, relazione e configurazione nel contesto di una produzione economica che coincide ormai con la produzione del soggetto tout-court, secondo un raffinato sistema di debito-credito e di messa in valore dell’haplos (essere puro) fenomenologico. Quindi del bìos, della nuda vita, anche virtuale.

Alcuni di questi temi sono stati accennati nella lecture “Body:Response. Life at work”, con Franco Berardi Bifo e Maurizio Lazzarato, ispirata al lavoro di Foucault e Deleuze-Guattari

Altri, come la ridefinizione dello spazio pubblico in rapporto a quello privato – di cui Wikileaks (http://213.251.145.96/) è l’epifenomeno e la traccia totemica – sono emersi nella lecture “Digital liveness – Realtime, desire, sociability”. Dalla presentazione è risultato evidente che il paradosso di un mondo ipermediato e immediato, naufrago di un presente esteso, si spazializza nel concetto di agorà reale biomediata (per la quale quale valgono i principi di persistance, searchability, replicability, e invisible audience) e in quello di agorà virtuale premediata (tipica dello spazio reale precedente alla rivoluzione digitale – http://chatroulette.com/), dove i principi nominati sembrano momentaneamente sospesi e gli utenti affrancati dalla furia catalogatrice della rete.

Transmediale 11 sembra suggerire che le prossime battaglie politiche dovranno necessariamente giocarsi tra il mondo virtuale della rete e quello reale del mondo circostante (M. Merleau-Ponty, L’oil et l’esprit), nel continuo e progressivo assottigliarsi delle differenze. Il cyberspace (W. Gibson, Burning Chrome, Neuromancer) tende a biologizzare il meccanicismo binario della numerizzazione informatica, integrando il bìos nella techné immateriale della rete e approssimando la materia neutra e misurabile alla chair (carne) come présence absurde (M. Merleu-Ponty, Le visible et l’invisible).

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E’ su questi punti critici che gioca la pubblicazione performativa, emergente e multiautoriale, Cos di Salvatore Iaconesi e Penelope.di.Pixel, che cerca di decifrare lo stato emotivo degli utenti online attraverso una mappatura linguistico-cromatica dei loro stati d’animo.

Lasciando spazio alla (rap)presentazione del sentimento provato registrando una traccia audio o video del partecipante (http://cos.artisopensource.net/DNWeb/), Cos crea un luogo virtuale costituito da “fonti multiple sovrapposte, scale temporali asincrone, archi di tempo intrecciati che perdono la linearità a vantaggio del concetto di network”, nel quale “l’inconscio diventa predominante e “linearità e armonia lasciano il palco a rumore, decostruzione, emergenza e ubiquità. Realtà multiple sovrapposte, che anche negandosi a vicenda formano una neo-realtà navigabile, filtrabile, mixabile, condivisibile” (S. Iaconesi – http://www.artisopensource.net/2011/01/12/cos-consciousness-of-streams).

Allo stesso tempo, la macchinizzazione del soggetto procede attraverso tecnologie sempre più complesse di biotracking, in grado di decifrare le regolarità del fenomeno-uomo e di indicizzare i suoi comportamenti secondo i modelli statistici propri di una biopolitica ( M. Foucault, Naissance de la biopolitque) digitalizzata. Su questi temi si è concentrata la performing lecture “Gathering 1: event, agency, and program” di Jordan Crandall (http://jordancrandall.com/main/) – premiata con il Vilém Flusser Award. L’approccio di questo lavoro è in stretta risonanza con il concetto di atmospheric media (media espansi, non oggettuali) proposto da Mark Hansen nella lecture “Delimination of life”.

L’antropofagia digitale di cui parla Vanessa Ramoz (http://www.quietrevolution.me/ART_PAPERS.html) – menzione al Vilém Flusser Award – sembra altresì cristallizzarsi nella (etero)genesi di un boden virtuale immateriale. Un ur-codice applicato che punta al ricalco, a metà fra il reale e l’immaginario, il visibile e l’invisibile. La trasparenza della rete e la carnalità dei corpi virtuali che lo abitano sono una sorta di non-luogo appassionato, una giungla cartesiana nella quale ad ogni passo si rischia di perdere il controllo dei proprio movimenti e la coscienza della propria collocazione.

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La presa di coscienza dei processi di soggettivazione in atto da parte della società contemporanea sull’individuo (e da parte dell’individuo inconsapevole su se stesso, dopo aver introiettato involontariamente la struttura del potere corrente) è al centro del work-in-progress di Heath Bunting, The status project (http://status.irational.org/)

Ancora una volta, il vizio catalogatorio-megalomane e metafisico-riduzionista per il quale l’identità è riassumibile in una serie di formule algoritmiche ordinate (idea alla base del tentativo di creare valore a partire da ogni aspetto della soggettività), viene qui detournata e de-codificata per diventare arma di contropotere. Un momento di attivazione della soggettività piuttosto che di resa di quest’ultima di fronte alle burocrazie più o meno digitali che la nominano, definendola secondo statici e noiosi parametri stabiliti.

The status project mostra la discretizzazione linguistica delle identità, scrivendo proposizioni semplici in linguaggio naturale e coordinandole tra loro, attraverso una struttura sintattica informatica, in una serie potenzialmente infinita nella quale il “codice” diventa enunciato performativo (J. L. AustinCome fare cose con le parole). Heath Bunting cartografa i processi di soggettivazione burocratica vigenti, per trasformarli da recettori identitari, quali sono nella società kafkiana (Der Prozess), a catalizzatori di potenziali opportunità di ulteriore soggettivazione. Insomma, il database è un manuale per la creazione fittizia di identità virtuali connesse a un corpo reale, vivibili quindi nel mondo reale da quello stesso corpo. Heath Bunting vuole suggerire che la disseminazione virtuale delle identità può compiersi anche nel mondo reale, senza necessariamente infrangere la legge: l’identità à hackerabile.

Il circuito virtuoso tra virtuale e reale innescato da The status project, si concretizza infine in una serie di profili identitari creati dall’artista e pronti all’uso, in vendita (http://status.irational.org/identity_for_sale/) per 500 euro l’uno, cifra che probabilmente ironizza sulle identità svendute sul web 2.0 che ne sfrutta e valorizza il flusso di dati indiscriminatamente.

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L’infografica come strumento tra il linguistico e il percettivo (le mappe di Hans Bunting sono talmente fitte e complesse da essere praticamente infruibili sullo schermo di un computer e richiedendo comunque parecchio tempo per essere interpretate su carta) aggiunge un ulteriore elemento al complesso immaginario che l’operazione trascina con leggerezza nella trasparenza utopica del codice, del poter tutto dire e afferrare (begriff) attraverso la sur-codificazione immateriale. Tuttavia, in The status project la præsentia in absentia del soggetto iperconnesso scritto sulla pagina online precipita per davvero, si incarna, buca lo schermo, è in atto, opaca nella sua funzionalità operatoria di strumento per agire e non per contemplare. Artivismo, appunto, anche attraverso la creazione di una mailbox anonima (http://status.irational.org/letter_box/).

Se in The status project le identità sono nominate (o meglio ri-codificate) in rete per prepararsi a riapparire nel mondo reale, la sintattica del détournement attuato da Face to facebook (http://www.face-to-facebook.net/) di Paolo Cirio e Alessandro Ludovico è tutta interna alla rete: gli artisti rubano un milione di volti e nomi da Facebook e inventano http://www.lovely-faces.com/, sito di dating che attraverso un software di face recognizion categorizza uomini e donne e ne determina l’espressione facciale. Ancora una volta, al centro della polemica, la presunta legalità di Facebook nell’impossessarsi dei dati dei propri utenti: gesto replicato dagli artisti in maniera dichiarata proprio per mostrare l’intrinseca violenza della major nei confronti dei propri users.

La semantica dell’azione, è in questo caso nel mondo reale, nella reazione degli utenti interessati. Nel circolo virtuoso che un atto di hacking online innesta nelle coscienze offline, come era già accaduto in passato per i due loro progetti precedenti, l’uno rivolto contro Google, l’altro contro Amazon (http://www.face-to-facebook.net/hacking-monopolism-trilogy.php).

Oltre a mostrare la fragilità dei nuovi imperi informatici e ad innescare una riflessione sulla pericolosità legata all’accessibilità assoluta di dati sensibili da parte delle web 2.0 companies , in Face to Facebook gli artisti riflettono ironicamente sullo stato dell’empatia virtuale ed emotivo-relazionale delle generazioni connettive iper-espressive (Franco Berardi Bifo, http://eipcp.net/transversal/1007/bifo/it). L’identità del soggetto diventa l’interstizio generato dalla proiezione di se stessi sul corpo virtuale, nonchè dalla retroproiezione di esso sull’identità fisica originaria. Negli avatar, intesi come forme grezze di mind upload, l’umano si incrocia con l’immaterialità della macchina, risvegliando nel soggetto latenze identitarie nella forma di una reversibilità (empatica) tra il soggetto e se stesso.

Io empatizzo con me stesso nello specchio degli altri attorno a me, cioè nei loro sguardi, e allo stesso modo mi specchio nell’avatar, empatizzando con lui atttraverso lo sguardo (virtuale) degli altri.

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Tra i progetti di artivismo rivolti ancora a Facebook e legati alla complessa nozione di identità disseminata e virtualizzata, non possiamo tralasciare Seppukoo (http://www.seppukoo.com/) dei Les Liens invisibles, menzione al Transmediale Award. Anche in questo caso, la dimensione personale del suicidio viene rivendicata come un atto pubblico e collettivo da condividere, come un virus da trasmettere: la logica del crowdsourcing empatico proposto da Facebook (connessione = amicizia) viene ribaltata (disconnessione = suicidio).

La relazione complicata tra l’uno e i molti, tra l’identità soggettiva del singolo e quella della collettività, è anche al centro del progetto repetitionr (http://www.repetitionr.com/), sempre dei Les Liens invisibles, ironica operazione che accentua i caratteri fittizi della democrazia partecipativa online e sposta l’attenzione sulla necessità e la problematicità del trasformare le campagne virtuali in concrete azioni reali.

L’on-demand-democracy, la multiple-choise-democracy, la click-democracy (introduzione di Franco Berardi Bifo al workshop delle Liens, http://www.transmediale.de/content/repetitionr-les-liens-invisibles-geoff-cox-franco-berardi), sono il sintomo della perdita totale del referente quale elemento esterno ed autonomo dal linguaggio, su cui il linguaggio stesso cerca di aver presa. Seguendo la profezia di Baudrillard (Le crime parfait) si crea una simulation-democracy nella quale gli effetti delle proprie azioni non sono valutabili se non nei dati pubblicati da società statistiche, o dal numero di firme raccolte automaticamente e a piacimento dal software dei Liens con il quale possiamo inventarci una petizione a raggiungere in pochi click il numero di firme che vogliamo la sostengano.

La condivisione, lo scambio di conoscenze e l’uso consapevole della tecnologia è stato il tema ricorrente anche dei laboratori aperti. Open Design city “Make your own market”, per esempio, era uno spazio collaborativo di open design in cui le competenze tecniche erano messe in condivisone incoraggiando il riciclo, la personalizzazione e un mercato sostenibile. Allo stesso modo Booki dei Floss Manuals è un lavoro presentato come servizio gratuito e social network per la creazione di libri sia di singoli autori che collettivi, un software distribuito su licenza GPL che può essere scaricato, riutilizzato e personalizzato.

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I progetti di Transmediale 11 sembrano quindi mostrare, in conclusione, come le armi utilizzabili per destabilizzare lo status-quo politico e sociale siano legate a pratiche di fake e ironia, nonchè alla capacità degli artisti di innescare circoli semantici e processi di soggettivazione tra il mondo reale e la rete. Spesso, considerando quest’ultima come il playground di partenza per raggiungere l’oltre schermo, il fuori-campo, e ridare la consistenza dei corpi e della materia a quei segni immateriali che vogliono sostituirsi ad essa.

Sembra si tratti di invertire il verso di percorrenza – dal virtuale al reale piuttosto che dal reale al virtuale – e di aggiungere livelli ermeneutici di critica al reale, attraverso le ricadute del virtuale sul reale stesso. Ricordandoci che in rete, come nella realtà vera, perdersi può essere un’esperienza gnoseologica affascinante…e non una perdita di tempo.


(http://www.transmediale.de/content/serendipitor-artist-walk-mark-shepard ;

http://www.andinc.org/v3/bio).

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