Presso i locali del CCCB di Barcellona, come secondo consuetudine, quest’anno del 5 al 7 febbraio si è tenuto il festival The Influencers. Le menti alla base di questo appassionante evento ormai giunto alla sua quinta edizione sono Bani (designer e curatore curioso e vivace), Eva e Franco Mattes (0100101110101101.org) e Marco Deseriis (giornalista, ricercatore al Dipartimento di Media, Cultura e Comunicazione della New York University di New York e autore con Giuseppe Marano del libro “Net.Art, l’arte della connessione”). Il folto pubblico è composto di gente di tutte le età, molti dei quali fedelissimi che si recano ogni anno nella capitale catalana appositamente per questo immancabile appuntamento.

Sulla scia dell’importanza che il festival assegna al messaggio a discapito del medium, l’edizione di quest’anno ha preferito non puntare i riflettori sull’aspetto tecnologico dei progetti invitati, dando ancora più risalto ad altre componenti. Per calcare la scena di The Influencers si deve essere artisti che lavorano in aree inclassificabili, che toccano trasversalmente diverse aree (non ultime quella politica e quella sociale), che propongono azioni collettive e divertenti, che non hanno paura di mettersi nei guai, che si alimentano di culture che nascono nella strada e che della strada hanno intenzione di riappropriarsi, che vanno contro l’omologazione e i meccanismi del marcato.

La stella della quinta edizione è stato indiscutibilmente Blu, writer italiano ma itinerante in tutto il mondo, che durante la prima giornata ha riempito la sala di ammiratori e curiosi. Molti, non soddisfatti, lo hanno cercato instancabilmente per la città durante i giorni del festival a caccia della misteriosa parete (il luogo è stato rivelato solo al termine dei lavori) che stava dipingendo. Il suo gigantesco squalo di biglietti da 100 euro, per sua natura ormai abbandonato all’inclemenza delle intemperie, adorna ora una strada del quartiere del Carmel.

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Gelosissimo della sua privacy e totalmente contrario alla celebrità, l’artista si è presentato con parrucca e maschera da Groucho Marx, non ha rilasciato interviste e non ha rivelato il suo nome né altre informazioni personali. Contento del suo stile di vita, dove il lusso principale è la creatività che si porta dentro (indiscutibile ricchezza), preferisce che i media parlino di fatti gravi che non vengono alla luce, piuttosto che occuparsi di lui. Una modestia ammirevole, per quanto il suo punto di vista sia forse un po’ discutibile: è una fortuna che i media non parlino solo di disgrazie, di guerre e di ingiustizie, ma anche di cultura e di arte. E che esistano riviste, come questa, che si dedicano solo a questi ambiti della storia umana.

Tra i lavori più famosi di Blu, la decorazione dell’esterno del COX18 di Milano, ultimamente nell’occhio del ciclone per l’ingiusta chiusura; l’opera dipinta sul muro costruito dal governo israeliano per isolare i territori palestinesi; un interessantissimo esperimento con l’animazione (“Muto”, un film con licenza Creative Commons che si può scaricare dal sito web dell’artista) realizzato a Buenos Aires in poco meno di tre mesi con 4000 scatti (e disegni).

Nel corso della sua presentazione, Blu ha voluto cedere un po’ di spazio ad alcuni colleghi locali, che hanno denunciato un processo sempre più estremo in corso a Barcellona da circa 15 anni: l’esclusione dell’arte dagli spazi urbani, la tendenza al grigiore e all’istituzionalità, a spese delle forme di espressione che tanto caratterizzavano questa città e che rappresentano spazi e dimensioni sociali di estrema importanza.

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Altro ospite/evento del festival è stato il gruppo di New York Improve Everywhere, rappresentato dal suo fondatore Charlie Todd e famoso per le sue azioni urbane (o Flash mob) organizzate con grandi gruppi di persone raccolti attraverso il sito web e le reti sociali. Nel loro sito si possono vedere i risultati del loro lavoro: musical improvvisati, vagoni di metropolitane popolati di gente in mutande o di coppie di gemelli che si comportano come specchi umani, irruzioni al Best Buy vestiti come gli impiegati, viaggiatori congelati nelle stazioni. Esilaranti le reazioni della gente: chi si trova smarrito, chi si spaventa, chi scoppia a ridere, chi tenta di formulare ipotesi per spiegare l’anomalia.

Il taller relazionato con il festival e organizzato con la collaborazione di Enmedio, era proprio la preparazione di un flash mob a Barcellona: la bola. Purtroppo, l’evento è stato molto al di sotto delle aspettative, con l’aggravante che chi non si trovava per strada per caso, ma si trovava appostato ad attenderlo, ha dovuto anche subire le folate di vento gelido che battevano la città senza perdono. L’assembramento umano che doveva colpire la gente in realtà si è piuttosto mimetizzato tra la folla già normalmente impenetrabile il sabato pomeriggio a Portal de l’Àngel. Inoltre, moltissime persone erano al corrente della cosa e, disponendosi sui due lati della strada in attesa dell’evento, hanno compromesso il fattore sorpresa. Sarà per un’altra volta.

Altri ospiti d’eccezione del festival: Julius von Bisbarck e il suo “Fulgurator”. Studente dall’aspetto tutt’altro che ordinario (caschetto alla Cleopatra e barba fino all’ombelico) e ormai piuttosto famoso, c’è da chiedersi come pensi di passare inosservato quando si infila tra i giornalisti per “folgorarne” le foto. Nel suo curriculum appaiono progetti molto interessanti come lo Stimmungsgasometer, l’emoticon che, attraverso un complesso software di lettura delle espressioni facciali, rivela lo stato d’animo generale dei cittadini di Berlino dall’alto del gasometro Schönenberg.

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Altro esperimento curioso fu quello del “Top Shot Helmet“, un copricapo che gli conferiva aspetto di alieno e che, grazie a una videocamera che lo riprendeva dall’alto di un palloncino, permetteva di vedere le sue mosse nella città con un’inquadratura in stile videogioco. Ma il progetto che più lo ha reso famoso (e virtualmente ricco, se solo accettasse di venderlo alla pubblicità, ma a quanto pare la sua etica ha vinto ogni tentazione) è il “Fulgurator“: una macchina fotografica al contrario, che anziché catturare, proietta immagini rapidissime durante gli scatti con flash di altri fotografi, grazie a un sensore di luminosità. È così che ha generato (o, per meglio dire, ha provocato la generazione di) le foto di Obama con la croce sul palco, le foto dei turisti con il logo di Google sull’arco di trionfo e le foto di Mao con una colomba sul viso in piazza Tiananmen, in stile Magritte. Il Fulgurator ora sembra una macchina fotografica a tutti gli effetti, ma all’inizio fu progettato in forma di pistola, come metafora di arma mediatica. Il rischio di finire arrestato, però, era diventato troppo alto…

Dopo di lui, la scena è stata occupata dai nostri Wu Ming, che nonostante il lessico ineccepibile e la profondità degli argomenti, hanno un po’ rotto il dinamismo e la vivacità degli incontri e falciato una fetta consistente di pubblico. Forse la loro strategia di Orfeo (un modo di contrastare le storie, l’informazione, con altre storie, la controinformazione) e la loro dimostrazione di come un’analisi approfondita di un testo e una sola parola possano invertire completamente il messaggio, in questo contesto avrebbero dovuto essere presentate in una forma più leggera e visuale.

Peccato, perché dopo di loro la maggior parte del pubblico già stanco e che ancora resisteva ai morsi della fame e alla tarda ora, non ha saputo godersi l’incontro con un personaggio del calibro di Wolfgang Stähle, pioniere della net.art, fondatore di “The Thing”, personaggio già presente sui libri di storia dell’arte contemporanea.

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Peccato anche che un grave contrattempo abbia trattenuto negli Stati Uniti Mark Pauline di Survival Research Labs, un gruppo che lavora creativamente con tecnologie industriali e belliche strappandole dal loro contesto per realizzare performance robotiche ricche di effetti speciali, rumore e fuoco. Mark ha però concesso al pubblico del festival un breve video-collegamento via Skype.

E per uscire un po’ dagli ambiti italiano, statunitense e tedesco, ecco un gruppo della Repubblica Ceca: Ztohoven, nome dai due significati (“Cento merde” e “Fuori di qui”). Il gruppo ha presentato in anteprima il film realizzato sul processo che hanno subito a seguito di una loro azione, Media Reality. Il gruppo riuscì a introdursi in una trasmissione meteorologica della TV ceca e a diffondere le immagini di un’esplosione atomica. Dopo un lungo processo che fece loro rischiare la prigione, furono assolti e addirittura vinsero il premio NG33 della Galleria Nazionale di Praga. Ma per quanto questa sia l’azione che ha fatto parlare di più di loro, in realtà con il rischio di mettersi nei guai sembrano abituati a convivere.

Unendo il nucleo di 10 componenti con le ulteriori decine di collaboratori, gli Ztohoven sono riusciti a coprire con manifesti propri, buona parte delle pubblicità affisse nei cartelli luminosi del metro, fino a organizzare un vernissage abusivo; o a trasformare nel loro simbolo, il punto interrogativo, il cuore di neon rosso di Jirì David installato sul castello di Praga in onore del presidente Havel.

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E, dulcis in fundo, finalmente una donna, Swoon, una delicata street artist dalle mille inquietudini, famosa per le sue pitture-collage ma anche per essere riuscita a fare una realtà di un suo sogno: percorrere cioè un fiume con un battello di artisti. Dopo un primo esperimento con il progetto “The Miss Rockaway Armada” (2006-2007), nel 2008 nacque “Swimming Cities of The Switchback Sea”, un’installazione itinerante più articolata composta questa volta da ben sette imbarcazioni.

Chi si stesse rammaricando di non aver potuto partecipare all’evento non disperi: basta tenere d’occhio il sito web del festival, dove presto verranno pubblicati i video delle conferenze e già si possono vedere quelli delle edizioni degli anni passati.


www.theinfluencers.org

www.cccb.org

www.enmedio.info/