La luce al Cairo è sabbiosa e stratiforme come le tonalità implacabilmente lineari di beige e grigio che accompagnano i decadenti edifici lungo le larghe strade della città, tra ponti, sottopassaggi e linee ferroviarie. I raggi di sole infiltrati nella scorza sottile di vapore, rimbalzano sui condizionatori arrugginiti che maculano l’andatura stocastica e implacabile dei vapori della piazza, acuendo la tonalità ambra della luce pomeridiana.

Mi avvicino a Piazza Tahrir cercando di evitare le gigantesche pozzanghere d’acqua volontariamente create dalla giovane sicurezza sul lato Maspiro per sedare eventuali attacchi delle forze di sicurezza con i CR e CF tear gas – gas lacrimogeni che provocano conati di vomito e attaccano il sistema nervoso causando momentanee paralisi e/ o tremori. Sono passate solamente poco più di due settimane dal conteggio degli ultimi martiri (http://en.wikipedia.org/wiki/Maspiro_Massacre).

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Dopo il controllo sommario di passaporto e zaino da parte di due ragazzini sorridenti, un altro paio di loro solleva i cordoni che recintano l’ingresso e mi fa entrare scusandosi.

Piazza Tahrir è viva, organica, odora, suda, spinge, piange, grida. Sui lati, le serrande dei negozi chiusi sono ingoiate da cartelloni e graffiti, capanne improvvisate e corde localizzano spazi per gli artisti che inventano slogan e immagini, nonchè per il primo degli “ospedali” che incontro, dove i volontari accolgono i pazienti e cercano di mettere ordine tra la montagne di medicine. Sento dire che di tanto in tanto piccole gang entrano nella piazza e cercano di rubare attrezzatura medica e confezioni – le manda il Raìs, a quanto pare.

I piloni della luce sono le protesi dalle quali costruire le architetture temporanee e improvvisate necessarie a organizzare la vita della piazza. E allo stesso tempo sono la prima fonte di elettricità, squattata dai cavi emersi dal metallo svitato e accrocchiata a prolunghe che alimentano i tendoni, quando il buio pomeridiano sopraggiunge. Un uomo mezzo pelato con in bocca una sigaretta, tra le mani un’antenna USB di plasticaccia e sulle gambe un computer scassato, mi spiega che le compagnie intorno alla piazza hanno creato access points per i ribelli. Poi mi fa vedere il suo account Twitter sul cellulare.

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Tra il marciapiede e la zona centrale della piazza, carretti di ferro sgangherato servono fuel – ciotolina metallica di fagioli caldi con limone, cumino, olio, sale, pepe e peperoncino, accompagnata da verdure sottosale e insalata, su tavolacci di legno grezzo, zozzi, per mezzo dollaro.

Macchine dello stesso tipo, ma più compatte, gridano le patate dolci d’Alessandria – sfornate da cilindri ammaccati e fumosi, dove legna e brace bruciano spurgando dal tubo di cartone – mentre le più timide preparano, dietro vetri appannati, piatti di plastica rigida colmi di cus-cus e zucchero. Cavalletti e mattoni, invece, per i pomodori salati protetti dai cellophan sui quali i Fratelli Musulmani hanno attaccato la propria icona in equilibrio: la bilancia di giustizia e libertà.

Nel mezzo della piazza – tra i marciapiedi e il centro effettivo dove una delle tante tendopoli di stoffa, cartoni, plastica, corde e tappeti si erge riparando i ribelli dal freddo notturno – gruppi di persone si schiacciano l’una contro l’altra per scambiare idee sulla situazione politica in corso, spingendosi e urlando, e baciandosi, in un continuo di voci che si alternano e sopravanzano senza alcuna regola dialettica prestabilita e con una forza e violenza e bellezza estenuante. Ttutti inclusi, anziani, uomini, donne, bambini.

C’è chi dice che la rivoluzione resta in piazza e non va a votare, qualcuno crede che le elezioni siano un passo avanti, qualcun’altro urla che la SCAF (consiglio superiore delle forze armate, che per il momento ha il controllo del paese, n.d.r) se ne deve andare. C’è chi dice i venditori devono lasciare la piazza, vendono droga e questo non è un mercato. Un anziano dice che le prime linee delle manifestazioni si imbottiscono di farmaci, scatenando la reazione dei giovani vicini.

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Poco lontano, di fronte alla statua di Omar Makram – ricoperta in buona parte di poster e taggata di stancil, scritte e adesivi – una tuta di bambino, più nero del carbone più nero, dorme rannicchiato su una griglia di metallo. Preparo la camera per scattare una foto ad entrambi. Vengo immediatamente circondato. Un uomo con la barba lunga mi chiede il passaporto e mi dice che non è possibile fotografare in piazza.

Scoprirò questo genere di episodi ripetersi ogni giorno, ogni volta generando infinite discussioni sulla legittimità o meno del sottoscritto di scattare foto o girare video. Addirittura quando qualche ragazzino con la bandiera egiziana mi chiede di essere fotografato vengo fermato da qualcun’altro che mi dice: “perché lo fotografi, lui non è la rivoluzione, è solo qua per divertirsi”. Hanno paura che ritragga il lato negativo della piazza, mi dicono. Insistono dicendomi che la piazza non sono i poveri.

Comincio a pensare a quanto sia importante che la piazza rimanga invece anche luogo di passaggio, e non solo di occupazione solida e perenne di chi c’è sempre. Aperta a chi non c’era dall’inizio ma si è incuriosito poi, a chi si dipinge la faccia con i colori della bandiera egiziana, anche se lo avrebbe fatto allo stesso modo quando Mubarak era ancora al potere. Ai poveri che hanno fame e non hanno un posto dove andare, alle motociclette con un televisore invece dello specchietto retrovisore e in sella una donna in burka, un uomo e 3 bambini con gli occhiali da sole.

Alle vespe con i subwoofer al posto dello sportellino per riporre i documenti, agli storpi, ai senza denti, ai muti che non possono ascoltare ma si ficcano nella mischia della discussione per immaginarla – la rivoluzione – per vederla nelle bocche aprirsi e chiudersi convulsamente. Ai bambini scalzi che corrono a destra e a manca e a quelli che dormono sotto strati spessi di coperte pulciose.

Questa Tahrir non l’avevo letta, su Twitter.

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A quanto pare qualche giornalista occidentale ha usato le immagini di Piazza Tahrir in un modo che ai ribelli non è piaciuto. O forse è stato detto così dalla televisione di stato, per allontanare i ribelli dai reporter occidentali, raccontando che in piazza c’erano più europei che egiziani. Fatto sta che ora, in piazza, è diventato difficile fotografare le frange più povere degli occupanti – parte consistente della fauna attuale di Tahrir – la spazzatura, i venditori ambulanti, gli anziani intorno al fuoco.

Cerco di spiegare che il fuoco è un simbolo forte di aggregazione, come gli anziani lo sono della memoria. Niente da fare. Ho l’impressione che stiamo guardando immagini diverse. La censura non sembra legata a ragioni di sicurezza – cioè non serve a coprire l’identità di alcuni – ma piuttosto è il risultato della consapevolezza che gli occupanti di Tahrir hanno maturato nei confronti del pericolo delle immagini.

Le immagini sono armi e, in effetti, le immagini sono le uniche armi a disposizione dei ribelli. Ho l’impressione di aver incontrato questa consapevolezza – ingenua e profonda allo stesso tempo – già ai tempi della Green Revolution iraniana, e in modo ancora più sistematico tra i cyber-attivisti della rivoluzione siriana in corso. Penso che questa nuova sensibilità verso l’immagine – digitale, iconica, simulacrare – sia la conseguenza della portata politica sempre più evidente che essa ha assunto nell’epoca della real time politics.

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Il fatto di trovare un movimento di censura visiva mi infastidisce. D’altro canto, l’applicazione della regola in modo anarchico e mai definitivo – ognuno può esserne il portatore o negatore temporaneo – apre a posizioni impreviste e alle volte mi permette, dopo discussioni estenuanti tra gli astanti, di scattare.

Perché non poter fotografare i poveri della rivoluzione visto che è anche per loro che la rivoluzione si sta facendo? La questione intorno alla presenza crescente di una specie di lumpenproletariat nella piazza è sentita: qualcuno mi dice che i poveri raggiungono Tahrir più o meno inconsapevoli di quello che succede, per curarsi, mangiare e dormire sotto una tenda.

Quando mi muovo da Tahrir verso l’occupazione di fronte al gabinetto del Primo Ministro, si respira tutt’altro clima. Mi dicono che qua, ora, c’è la Tahrir del 25 Gennaio, quella che ha innescato la rivoluzione: le chitarre, i tamburi, gli studenti, la twitter e la FB generation. Rimango perplesso, perché ho l’impressione che il mondo degli studenti e degli intellettuali e quello dei poveri si stiano divaricando e localizzando fisicamente in due zone diverse, che tuttavia lottano per uno stesso scopo, più o meno consciamente.

Mi guardo intorno: i muri di cinta dell’edificio sono completamente ricoperti di tags, stancil, graffiti, anche nella più stereotipata pubblicistica rivoluzionaria occidentale: “one solution…revolution”, “a.c.a.b” (all cops are bastards, n.d.r.). Uno di essi, però, mi colpisce particolarmente: l’uccello blu di Twitter dietro il cerchio barrato tipico del divieto: “the revolution will not be twitted”.

Quasi un appello alla presenza fisica sul campo, quasi un’affermazione di sfiducia e impotenza nei confronti di uno degli strumenti più popolari della cosiddetta primavera araba. Mi ricordo di Gil Scott-Eron e di The revoution will not be televised (http://www.youtube.com/watch?v=qGaoXAwl9kw).

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Tuttavia la sensazione di Tahrir come entità organica, fisico-simbolica, quasi indipendente dagli individui che la compongono, è quello che resta al di là degli scetticismi, delle paure, delle tensioni interne. La piazza non si riesce a definire: a seconda dei momenti del giorno e della notte si popola di generi umani completamente diversi, dai fratelli musulmani ai cristiani, ai poveri, agli studenti, agli intellettuali, ai lavoratori, agli espatriati. Chiunque, in fondo, può entrare e farne parte, chiunque può dire la sua: se si superano le interpretazioni ingenue di alcune delle dinamiche tutto sommato inevitabili in contesti di massa come questo.

Se invece di guardare alle ragazze di tanto in tanto molestate, si guardassero i cordoni di gente immediatamente attivati per permettere loro di allontanarsi. Se invece di guardare alla spietatezza di certi episodi di violenza (come quando qualche ladruncolo viene scoperto a rubare e picchiato malamente da un’orda imbufalita) si guardasse alla stanchezza di un perenne attacco da parte delle forze speciali o a quello delle gang notturne alla mercé del regime per creare disordini e confusione.

Dal lato di Mohammed Mahmoud si parla ancora dei cecchini degli occhi: anche l’esercito non lascia scampo alla visione e non potendo distruggere le camere dei cellulari punta direttamente alla fonte. Intanto gli occhi superstiti della folla si impallano sul muro di blocchi di cemento impilati uno all’altro che separano la zona di buffering tra la piazza e il muro stesso dai militari che proteggono il ministero dell’interno.

Il giorno dopo leggo su Twitter che di fronte ad alcune delle sedi per votare, uomini di partito distribuiscono sandwich e Pepsi. La sera, un mago in giacca e cappello alla Dick Tracy, all’ingresso della piazza, intrattiene un grasso manipolo di maschi con palline da ping-pong sputate dalla bocca e tirate fuori dagli occhi e dai nasi dei presenti, che cadono per terra ogni due per tre e sgattaiolano tra i corpi dei presenti cioccando contro le carrozzerie ammaccate di qualche auto con l’arabesque al posto del volante.

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Vincerà la fratellanza musulmana, tutti lo sanno. Intanto The Sad Panda prepara un baloon a forma di Sad Panda da trascinarsi dietro tra gli zuccheri filati rosa dei bambini. Nella notte al termine della tornata elettorale sembra sia stato rapito un attivista e alla notizia twittata del suo apparente rilascio i followers, perplessi, si chiedono perché allora non stia già twittando….


Di seguito qualche spunto virtuale sulla rivoluzione egiziana:

Twitter:

https://twitter.com/#!/search/amirakhalil46

https://twitter.com/#!/search/egyptocracy

https://twitter.com/#!/search/salmasaid

http://twitter.com/#!/monaeltahawy

http://fr.twitter.com/#!/MagButter

https://twitter.com/#!/weskandar

http://twitter.com/#!/malekadly

http://twitter.com/#!/occupiedcairo

http://twitter.com/#!/search?q=%23egyviolation


Sites:

http://mosireen.org

http://www.tahrirdiaries.org/

http://en.nomiltrials.com/

http://www.scribd.com/cairowire

http://tahrirnews.com/

http://www.arabawy.org/

Youtube:


Graffiti and revolution:

http://www.facebook.com/GraffitiEgypt?sk=wall

http://www.flickr.com/photos/elhamalawy/sets/72157627941491870/with/6274432606/

https://www.facebook.com/pages/Keizer/266308690060395

http://www.facebook.com/sadpandaa

http://www.ganzeer.com/

http://www.euronews.net/2011/11/28/ganzeer-i-boycott-the-elections-they-re-a-sham-/#.TtTyD6lQNZE.facebook

Dancing is the solution -  الرقص هو الحل

http://globalpressinstitute.org/global-news/africa/egypt/egyptians-participate-examine-revolution-through-rise-graffiti

http://www.arabstand.com/2011/08/the-amazing-talents-of-cairos-graffiti-artist-keizer-images/

News:

http://www.aljazeera.com/news/middleeast/2011/11/201111249364150217.html