In un supermercato può capitare di trovarsi ad acquistare, senza pensarci troppo, uno dei tanti cibi in scatola o precotti, solo per pigrizia. Allo stesso modo ad un banco di frutta può capitare di trovarsi a scegliere la frutta più bella e colorata, senza curarsi della sua provenienza e senza chiedersi se quel colore sia effettivamente naturale.
Eppure siamo tutti voluttuosamente attratti dalla buona cucina e dalla bellezza di appetitosi manicaretti preparati da grandi cuochi, ormai divenuti idoli. Lo chef Ferran Adrià sembra essere lucidamente consapevole di questo fenomeno sociale quando afferma: “Facciamo da contrappeso ad una società in cui non si vuole cucinare. In questa idealizzazione siamo visti come referenti (della cucina). Da un lato la gente compra surgelati, dall’altro guarda in televisione o sulle riviste i cuochi fare alta cucina. Si tratta di una esercizio sociale fatto dalla gente”.
Era possibile ascoltare questa dichiarazione nel video realizzato da Franca Formenti e Massimiliano Mazzotta in esposizione alla Duetart gallery di Varese il 13 settembre 2008. La galleria però, in quell’occasione, non era solo il luogo di una mostra di videoarte e fotografia, ma era soprattutto il luogo di una problematica azione artistica ideata dall’artista Franca Formenti. FOODPOWER è il nome di questa performance, il cui invito chiedeva esplicitamente ai visitatori di presentarsi a digiuno. La promessa, però, era quella di utilizzare la fame e la golosità come strumenti per mettere in luce le radici più nascoste dei comportamenti umani.
Al suo arrivo il visitatore era accolto da un gentile ragazzo con indosso un grembiule da cucina, che gli consegnava sorridente un bigliettino con un numero stampato sopra. Dopo pochi passi c’erano due banchetti con altrettanti sorridenti ragazzi che erano pronti a contrassegnare la mano dello spettatore con un timbro, rosso o verde a seconda del numero in suo possesso. Si trattava di un passaggio veloce, in cui era difficile comprendere cosa stesse effettivamente accadendo. Ci si trovava così nel cortile di una galleria d’arte chic ed elegante. Tutto era finemente decorato con pannocchie e migliaia di bellissime spighe e arredato sin nei particolari come una locanda provenzale. Sotto il porticato era apparecchiato un grosso buffet, nascosto alla vista da una cortina di persone con indosso un grembiule da cucina. Nella galleria era possibile visionare liberamente il video e le foto del progetto, un viaggio nella cultura culinaria che parte dal concetto di arte e di alta cucina..
All’apparenza nulla di diverso da uno dei tanti vernissage dell’arte contemporanea, in cui tutti i partecipanti mettono in gioco raffinate rappresentazioni del sé in linea con l’ostentata eleganza dell’ambiente circostante. Forse proprio per questo motivo appare più divertente e interessante la scoperta del significato del timbro sulla propria mano.
Molto semplicemente, chi aveva la mano timbrata di verde aveva l’accesso al buffet, mentre chi aveva la mano timbrata di rosso veniva prontamente bloccato dalla barriera degli incorruttibili ragazzi in grembiule. Questo meccanismo non è stato immediatamente chiaro a tutti. La prima reazione, naturalmente, è stata quella di cercare di comprendere chi avesse accesso al cibo, per scoprire che la maggioranza delle persone era stata timbrata di rosso.
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L’artista, infatti, aveva scelto come proporzioni nella divisone della popolazione visitatrice cifre simili a quelle che indicano l’accesso alle risorse mondiali di cibo. La stima è stata appositamente esagerata per enfatizzare il problema, tuttavia non sono cifre molto distanti da quelle ufficialmente diffuse dalla FAO. Questo non toglie il fatto che siamo di fronte ad uno sconcertante dislivello che sta continuando ad aumentare.
Durante la performance, quindi, solo il venti per cento degli ospiti aveva il diritto di mangiare, l’altro ottanta per cento poteva unicamente stare lì a guardare la mostra e a osservare gli altri mangiare, a meno che non riuscisse a convincere in qualche modo i privilegiati col timbro verde a portare loro del cibo.
Non credo che si sia trattato di una delle tante fastidiose retoriche sulla fame nel mondo a cui ci siamo abituati e che ormai non hanno alcun effetto. Se si guarda alla irriverente produzione dell’artista, si può comprendere che piuttosto si stesse realizzando un ironico e sfrontato sovvertimento dei ruoli che i partecipanti mettevano in atto, per la maggior parte inconsapevolmente.
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In un testo di presentazione alla mostra Antonio Caronia ha scritto: “La performance non consiste in qualcosa che Franca Formenti fa, o dice, o racconta, ma in qualcosa che fanno gli spettatori una volta entrati nella situazione da lei predisposta. […] In Foodpower nessuno finge, ma i partecipanti a un evento artistico, a una performance d’arte, vengono messi nella condizione di sperimentare direttamente lo stato di fatto descritto dall’enunciato: ‘Attualmente nel mondo l’80% delle persone non mangiano, o rischiano di non mangiare, o sono denutrite o sottonutrite, o muoiono letteralmente di fame.’ E questo enunciato, attraverso un’azione, si autorealizza nel momento stesso in cui viene proferito”.
In poco tempo quella piccola comunità ha messo in atto meccanismi di ridistribuzione e collaborazione molto vicini a quelli descritti da Tatiana Bazzicchelli: “In Foodpower, alcune persone hanno il privilegio di accesso al cibo, hanno il potere di distribuzione e possono decidere se mantenere il monopolio delle risorse alimentari o aprire un canale di scambio e interazione con gli altri partecipanti attivi nella performance. Questi sono obbligati a interagire con i partecipanti-possessori del monopolio del cibo per potervi accedere e devono ideare degli ‘hack’ per oltrepassare i limiti del flusso alimentare chiuso (…) Ma come in ogni performace, le reazioni di questo microcosmo possono essere inaspettate, considerando che, come Victor Turner insegna, è proprio durante la ‘messa in scena’ che vengono riscritti, rimodellati e modificati i codici e le categorie condivise in una determinata società. Situazioni attive che potenzialmente si liberano dal concetto di codice e categoria stessi per diventare sperimentazione e improvvisazione. Un’occasione per hackerare le logiche del Foodpower che caratterizzano la società arborescente del nostro presente, gettando i partecipanti della performance nelle trame di una rete interpersonale capace di autoalimentarsi attraverso la collaborazione di una comunità”.
Tuttavia rimangono dei dubbi. Quali erano i codici e le categorie che in quel momento si stavano rimodellando? Quale era lo stato di fatto che le persone presenti alla mostra stavano sperimentando?
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Nelle fasi iniziali della performance i visitatori hanno avuto non poche difficoltà nel comprendere le regole del gioco . I primi a comprenderle forse sono stati i bambini, gli unici a fare del gioco una cosa seria: sul loro volto si dipingeva istantaneamente un ombra di sconforto quando comprendevano il significato di quel timbro rosso. Quel segno sulla mano era la causa di un accesso negato ad una risorsa.
L’ambiente era ben congeniato, vi era la promessa di assaporare prelibatezze di alta cucina. I visitatori erano arrivati alla performance digiuni. Tutto era allestito per dare l’idea di una grande abbondanza, anche se in parte fasulla.
Ma che cosa significa non mangiare per il breve tempo di una performance per chi normalmente non ha problemi di sottonutrizione, ma al contrario tende a sprecare le risorse che ha a disposizione? Capita spesso di trovarci nella condizione di dover saltare un pasto per svariati motivi, per fretta, per lavoro, per pigrizia, in certi casi. Allora ci si chiede: quanta fame ha l’occidente o chi detiene il monopolio delle risorse? Di che tipo di fame si tratta?
Riprendendo il pensiero di Judith Butler, si potrebbe affermare che la propria identità sociale viene costantemente definita attraverso degli atti performativi che non solo altro che rappresentazione del sé. La Butler scrive: “Parole, atti, gesti e desiderio producono l’effetto di un nucleo centrale interno o sostanza, ma lo producono sulla superficie corporea, attraverso il gioco di assenze significative che suggeriscono come propria causa, senza mai rivelarlo, il principio di organizzazione dell’identità. Tali atti e gesti, generalmente costruiti, sono performativi nel senso che l’essenza o identità che essi dichiarano di esprimere sono fabbricazioni prodotte e mantenute attraverso segni corporei e altri mezzi discorsivi.” [Judith Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity , London, Routledge, 1990, p. 136].
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In questo caso la consapevolezza di far parte di quella ristretta cerchia di persone che ha un illusorio illimitato accesso alle risorse provocava nelle persone presenti un desiderio e una fame che era espressione corporea dell’idea della loro posizione nel mondo. Un desiderio che doveva essere soddisfatto per riportare la realtà in uno stato di equilibrio.
In altri termini, la fame non appartiene solo alla sfera del bisogno fisico, ma spesso è strettamente correlata al contesto sociale in cui la si prova. All’interno di una cerchia in cui la sottonutrizione non è un problema direttamente esperibile, la determinazione a soddisfare la propria fame era ‘alimentata’ da una situazione che turbava la diffusa sicurezza di poter sempre e comunque mangiare.
Credo che anche questo elemento abbia giocato un ruolo importante all’interno della performance. In qualche modo quella piccola comunità è riuscita a riequilibrare la distribuzione del cibo, non solo per partecipare ad una messa in scena , ma anche per soddisfare un bisogno che in quel momento era reale. È proprio questo uno degli aspetti che mi hanno interessato ma allo stesso tempo allarmato.
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Riflettendo su questa performance tempo dopo la sua realizzazione e in un periodo di così profonda crisi economica, si può pensare che essa sia stata specchio di un un’idea che l’occidente ha di sé e che si trova adesso a dover rielaborare in qualche modo: l’idea di una posizione e un ruolo dominante che si trasforma in azioni, parole e desideri. Da questo punto di vista appare estremamente delicato stabilire cosa sia necessario e cosa sia inutile. In poche ore, alla performance Foodpower, tutti hanno sperimentato (e qualcuno se ne è reso anche conto) come questa fame sociale potesse essere rielaborata attraverso la redistribuzione. E che redistribuire costituisce uno strumento interessante per riuscire a comprendere ciò che, in ogni circostanza, è necessario e ciò che è inutile. Se questo fosse un modello applicabile su larga scala probabilmente ci troveremmo di fronte ad un primo passo per una vera e radicale trasformazione dell’esistente.
È possibile visionare il video realizzato da Franca Formenti e Massimiliano Mazzotta e la documentazione della performance al sito www.foodpower.it.