In quest’epoca di seconda modernità o modernità riflessiva, come la definisce il sociologo del rischio Ulrich Beck, chi non ha mai provato paura? Viviamo nella minaccia di rischi globali e ad alto potenziale distruttivo, alimentati e sfruttati dalle strutture del potere, che tentano di garantire ai propri cittadini il senso di sicurezza, in cambio della restrizione delle libertà individuali.
Inviting Horror, il progetto di arte interattiva ideato da Karen Lancel e Hermen Maat, ribalta questo meccanismo, creando e studiando situazioni di paura in luoghi pubblici, con la partecipazione di persone comuni a cui è chiesto di reinterpretare con il loro corpo situazioni di fobia sociale.
Chi soffre di fobie proietta un misto di aggressività e desiderio su qualcosa o su qualcuno al di fuori di lui: l’oggetto fobico. Il soggetto sperimenta questo qualcosa o qualcuno come una minaccia per se stesso e convoglia la propria aggressività su di esso come difesa.
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L’oggetto fobico rappresenta sia l’aggressività che il desiderio. «E’ un oggetto allucinatorio» spiegano gli artisti, «è continuamente alimentato dai mezzi di proiezione, con i quali si identifica colui che li proietta. Un oggetto fobico è formato sia dall’oggetto proiettato sia dalla dinamica della proiezione».
Inviting Horror studia l’applicazione di questo concetto attraverso la mediazione delle nuove tecnologie. Dalle menti di studiosi, urbanisti, innovatori ma anche dalla partecipazione del pubblico, nascono così tecniche autosorveglianti come la calzatura da sorveglianza e la maschera del bacio di Jill Magid, prelievi del sangue biometrici come il Ritratto biochimico di Hermen Maat e architetture fobiche, come Agora Phobia Digitalis ideata da Karen Lancel.
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Vediamo quindi alcuni dei progetti presenti all’intrno di Inviing Horror, considerando la divisione sopra citata in “fobie del desiderio” e “fobie dell’aggressività”:
IL DESIDERIO
Surveillance Shoe: Nell’architettura di un comune sandalo da donna è stata installata una piccola telecamera mobile, che riprende “da sotto” le gambe di chi indossa la calzatura. La videocamera diventa una cosa sola con il corpo di chi si auto-osserva e auto-controlla. Le immagini prodotte sono erotiche e allo stesso tempo terribili perché mostrano fino a che punto la nostra intimità può essere invasa da un occhio elettronico.
Kissmask: La kissmask è stata pensata per essere indossata da due donne. Si compone di due mascherine, che ricordano quelle antigas, poste all’estremita di un tubo a fisarmonica che le collega tra loro. All’interno del tubo c’è un microfono che registra i respiri, le voci e i baci. L’effetto d’insieme sembra rievocare uno scenario cyberpunk, per la presenza di una minaccia globale da un lato e dall’altro la necessità di condividere uno spazio intimo di tenerezza. Per ricordarsi che si è umani, dopotutto.
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L’AGGRESSIVITA’
Biochemical Portrait: Una signorina in camice bianco, dietro a uno stand situato in un luogo pubblico, pulisce accuratamente il dito di una persona di passaggio, lo buca con un ago e preleva una goccia di sangue. Sembra un normale test della glicemia, in realtà il computer che effettua l’analisi restituisce l’immagine della persona in quel momento. L’artista specifica che non è importante il significato del ritratto in sé. La situazione evoca invece la paura del “prelievo coatto”, a cui si può venire sottoposti per legge e prefigura le frontiere della biometria impiegata nelle tecniche di identificazione.
Agora Phobia (Digitalis): Una cabina d’isolamento viene collocata in uno spazio affollato, come per esempio una piazza. All’interno della cabina c’è spazio solo per una persona e un computer. I passanti sono così invitati ad auto-isolarsi all’interno, conversando attraverso una chat con persone agorafobiche (che hanno paura degli spazi aperti) o con carcerati, che sono costretti in condizioni tali da sviluppare vere e proprie fobie sociali.
http://www.invitinghorror.org/