Questo articolo è il frutto di una serie di riflessioni di natura teoretica scaturite dalla mia attività nel campo del cosiddetto cinema-documentario. L’obiettivo di queste righe è quello di suggerire una lettura trasversale dell’attività codificata come documentary-making. Attraverso le relazioni che il concetto di documentario intrattiene con quello di fotografia, fiction, identità, performance, vorrei tentare di decostruirne il significato per farne un serbatoio di ricerca filosofica, includendo spunti di riflessione sulle questioni tecniche che aprono a nuovi stili e metodi di realizzazione.

L’esperienza vissuta è da sempre attraversata dalla metamorfosi di se stessa sotto forma di ricordo e racconto, immagine e linguaggio. Da sempre alla ricerca di quelle forme approssimate nelle quali tornare a suggerirsi, e ricrearsi. L’emergenza del reale incrosta i concetti nell’istantaneità dei fatti, rendendo i primi indecifrabili, all’occhio poco allenato. In certe occasioni, è la realtà stessa che preme, che costringe l’occhio ad attivarsi in forma di concetto.

Il documentario, o meglio l’estrazione di immagini dal flusso del mondo, è allora una questione di postura percettiva, l’incarnazione di uno stile d’essere, come anche di un pensiero incarnato. Il pensiero stesso, infatti, è una questione di percezione, di punti di vista, e l’abitare percettivo del mondo è forse l’origine (giorno dopo giorno rinnovata) di un’eventuale (e simultanea) postura speculativa nei confronti di esso.

Tuttavia questa postura s’indurisce spesso nella tendenza da parte del concetto ad astrarsi dal mondo per osservarlo dall’alto, scrollandosi di dosso il peso del divenire ed illudendosi di dominarlo. É quello che succede solitamente nei documentari per la televisione, nei quali la stesura linguistica del plot è spesso rigida e mira ad ingabbiare la realtà, come lo stile filmico di questi lavori spesso dimostra.

La scrittura precede l’immagine, il concetto domina la realtà cui la camera cerca di dare forma, piuttosto che limitarsi a scorrere con essa. Ma le immagini reclamano la propria autonomia dal linguaggio e la nostra relazione con esse è fluida e continua piuttosto che discreta.

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L’ a-documentario vorrebbe essere la tecnica di puntare la camera sulla realtà senza il desiderio di impossessarsene: il tema dell’a-documentario è sempre in ritardo rispetto alle sue variazioni, e viene continuamente perso, trovato, metamorfosato durante la realizzazione. Raccontare un‘esperienza è sempre ricrearla, mai documentarla. La mimesi è negata sin nel nucleo anti-intuitivo dell’immagine (a)documentaria, che richiede sempre un punto di vista, che è sempre frammento orientato. L’a-documentario non è mai il ricalco spazio-temporale dello stato di cose a cui si riferisce, quanto piuttosto l’invenzione di una dimensione spaziale e temporale parallela e alternativa a quella reale.

L’immagine filmata come pratica e strumento di ri-percezione del mondo attorno, ha l’opportunità di interagire con i concetti in modo più flessibile di quanto non si possa permettere il pensiero rigoroso e puntuale. In esso le idee rischiano di trovarsi come le particelle di un corpo allo stato solido, rigide, quasi immobili, piuttosto che apparirci più vicine a quanto sono realmente nel momento della loro apparizione, come in stato di perenne ebollizione e fermento. Idee organiche innescate nel flipper degli stati delle cose, mai neutri né decifrabili, proprio in virtù di questa genesi infinita di percetti-concetti cui danno luogo.

L’a-documentario cerca allora di pensare la simultaneità tra percezione, espressione e rappresentazione. Vuole ridurre lo scarto tra pensieri e fatti, desidera pensare il racconto per immagini, come spunto per lo sviluppo di concetti. L’a-documentario mostra come gli stati delle cose non siano pensabili se non a partire da una loro simultanea visione-rappresentazione-ricreazione: la percezione è già espressione, linguaggio allo stato nascente, idea sensibile e tra idea ed espressione non c‘è rapporto estrinseco, ma reciproco avvolgimento. É nell’intorno di questa simultaneità che cerca di lavorare l’a-documentario.

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La realizzazione dell’a-documentario tende al tempo dell’istante e dunque a una gestualità performativa, e tuttavia al ritardo incolmabile e asintotico. Essa si muove in un presente esteso nel quale l’immediatezza gestuale diventa simultaneità del fare e del pensare.

Sequenzialità e simultaneità convivono, come nel ricordo e nell’immaginario, a partire da un’idea di rappresentazione intesa come principio di sopravvivenza della coscienza, esposta immediatamente a se stessa e al mondo. Rappresentazione come riposizionamento mnemonico e (retro)proiettivo, come modalità mitologica di condivisione della propria identità, sempre in ritardo rispetto a ciò che vorrebbe raccontare. Nell’a-documentario non c’è pre-produzione se non contemporanea all’immersione tra le soggettività coinvolte ( filmmaker, tecnici, attori-narratori). Non c’è scrittura, ma un semplice principio di azione e reazione al mondo attorno, connesso ad un impulso involontario di selezione che orienta lo sguardo su qualcosa mettendo a fuoco la ricerca.

Fuoco inteso non certo come meta da raggiungere, quanto al contrario come il percorso di ricerca del fuoco stesso, come l’immagine quasi-presente delle relazioni in corso nello stato di cose che si cerca di raccontare. Di esso fa parte anche il fuori campo e l’insieme di azioni e reazioni che precedono e accompagnano il momento dello shooting, il negativo che non si vede ma c’è nella posizione della camera, nel modo di impugnarla, nelle reazioni dei personaggi di fronte ad essa.

Mi piace usare il concetto di sintonizzazione quando mi capita di riferirmi all’interazione (s)oggetto-camera-(s)oggetto, proprio per enfatizzare la componente relazionale e il momento del tuning, sempre in divenire nell’immagine in movimento e congelato, invece, nell’immagine fotografica (cfr. il video -tuning estremo del caso Neda in Iran, http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=2108).

Per questo associo la pratica dell’a-documentario a quella della performance: l’a-documentario è allora uno stile di vita piuttosto che la registrazione (fedele) del mondo, quest’ultima pura utopia, frutto di una distinzione metafisica tra concetto e mondo di origine greco-platonica.

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L’a-documentario è la trasformazione impossibile del filmmaker nelle storie che racconta, il desiderio di lasciarsi penetrare da esse piuttosto che l’impulso contrario: quello di controllarle e formarle. Non c’è salvezza per chi è raccontato, né immortalità per chi racconta. Tantomeno c’é il tentativo di spiegare, educare, colonizzare o migliorare la realtà che si racconta. Piuttosto, c’è la regressione e la perdita d’identità dell’autore nella storia percepita, il tentativo di diventare trasparente attraverso quello di diventare ciò che si vuole raccontare.

Il mondo dell‘a-documentario non è mai di fronte alla camera. E’ sempre fuori campo, nel non detto, nel non visto. L’a-documentario è l’atto performativo di una gnoseologia pragmatica nella quale i concetti di soggetto e oggetto sfumano e la camera diventa il tramite di questa trasformazione, di questo decentramento. L’a-documentario è il riflesso involontario e la fuga dall’analisi cosciente del filmare. É lo stare in agguato del filmmaker, l’attesa della licantroposi e il racconto di essa.

Nei codici correnti nel mondo della cultura artistica occidentale contemporanea, allora, il concetto di documentario diventa inscindibile da quello di performance. Allo stesso modo, le sue manifestazioni non possono più essere pensate in sede di montaggio come frammenti sequenziali, quanto piuttosto come tasselli di un puzzle da coordinare in vista del concetto che si desidera detonare.

Questo pensiero dovrebbe essere presente anche nel momento dello shooting: Non si lavora mai a solo su un progetto semplicemente perché non si sa cosa si sta facendo, essendo il progettare semplicemente un reagire alle circostanze e non un volerle strutturare.

In questo senso un principio di apertura nei confronti del reale, una sorta di senso infrarosso ai rumori di fondo e alle micropercezioni proprie e del mondo, permette divagazioni dalle quali progetti paralleli potrebbero prendere vita, quasi frutto del concatenamento degli imprevisti. A maggior ragione visto che sempre più spesso capita di usare uno stesso strumento per compiere azioni diverse, come quelle di filmare e fotografare.

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Occorre quindi una sensibilità maggior per avvertire quando la sintonizzazione è più forte filmando piuttosto che fotografando, quando lo è registrando i suoni (per essere meno invadenti e lasciare spazio allo scorrere piuttosto che all’afferrare), quando lo è invece semplicemente parlando, ed eventualmente annotando durante o dopo le impressioni dell’esperienza vissuta.

Soprattutto visto che per raccontare la stessa esperienza si possono usare strumenti diversi (sempre nell’ambito della registrazione digitale) tra i quali camere applicabili sui corpi dei personaggi che in qualche modo eliminano la presenza del filmmaker e incarnano lo stile d’essere di chi di solito è di fronte alla camera. In questo caso performata dall’attore stesso, priva di mediazione.

L’a-documentario punta a invertire i rapporti di subordinazione tra concetto e mondo e tra immagini e linguaggio, vuole collocarsi negli interstizi, nelle zone di confine, dove distinzioni e appartenenze sfuggono alle definizioni, a mala pena vivibili.

Il processo di creazione è sempre una sorta di sbilanciamento tra una forza centrifuga, che dilania esperienza e concetti, ed una centripeta che cerca, al contrario, di depositarli per raccoglierne i resti. La creazione è sempre la tensione tra un nocciolo, che per trovare espressione deve estrudersi diventando altro, preservando una traccia di ciò che era, ed un esploso, reattivo, contingente, circostante, che cerca di ridursi a forme iconiche dense, autosufficienti, senza perdere in apertura e variazione.

La postura innaturale del concetto, in cerca del possesso di una forma stabile nella quale rispecchiarsi, si rivela dittatura monca rispetto alle ragioni che l’hanno innescata. Ritorsione all’ingestibile mutevolezza del mondo attorno. Il concetto é impensabile. La sua stabilità è proporzionale alla nostra incapacità di vederne le incessanti deviazioni. Così è continuamente retroflesso, identificato. Tuttavia, non essendo mai completamente, è irriconoscibile.

Il concetto non si specchia. Se lo facesse, non potrebbe riconoscersi. E l’a-documentario non è la superficie consolatoria di questo metaforico Narciso-concetto; in esso i pensieri appaiono e scompaiono come i lapilli di una colata lavica, come gli echi di una monade in un pozzo.

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Ma è tra gli specchi accavallati delle forme espresse, delle immagini filmate, che potremmo scorgerne l’ombra, sempre spezzata, sfuggente, sfigurata, sempre tradita nelle singole manifestazioni, sempre promessa tra le relazioni, le prospicienze. Il concetto diviene, si trasforma, e nelle incessanti mutazioni cessa di essere algoritmabile; al massimo é vivibile. L’esposizione stessa del concetto violenta, espropria, sfratta, per essere poi a sua volta violentata, espropriata e sfrattata. Il concetto è in performance perenne. L’a-documentario anche.