Nel momento in cui riflettiamo su come le tecnologie siano ormai presenti nelle nostre vite quotidiane, siamo sempre più propensi a pensare non solo a come esse potrebbero essere usate in maniera più consapevole ed efficace, ma anche come modelleranno le nostre identità nei prossimi decenni. Il concetto stesso di futuro è radicalmente cambiato, vissuto non più come immaginario fantascientifico sostanzialmente irreale se non in un’epoca “altra”, quanto come un elemento temporale semplicemente “al di là” del presente contemporaneo. Il futuro è fatto di tecnologie che sono già nel presente, che già utilizziamo, che diventeranno sì più efficaci da un punto di vista strettamente funzionale, ma che avvicineranno e penetreranno in modo sempre più profondo i nostri corpi, influenzando, in modo forse definitivo, il nostro essere e la nostra stessa natura.

Gli effetti di tutto ciò si preannunciano importanti, in senso positivo e negativo, considerando da un lato l’impatto dello sviluppo tecnologico e della ricerca scientifica e medicale nel migliorare la qualità delle nostre esistenze e dei relativi servizi di cura, informazione e intrattenimento, dall’altro gli aspetti distopici di tale impatto legati all’utilizzo indiscriminato di dati sensibili, alle derive commerciali e propagandistiche di reti sempre più veloci e invasive, ai meccanismi di controllo biometrici e alle loro implementazioni grazie all’uso di sistemi di intelligenza artificiale, ai complessi processi di consapevolezza etica e sociale dei nuovi corpi innestati e aumentati e, più in generale, al progressivo cambiamento dei nostri meccanismi identitari, a cavallo tra reale e virtuale, nella società del futuro. Senza in questo cadere nell’errore di affidarci ancora alle visioni stanche e distopiche del post-umano o dell’immaginario cyborg, quanto considerando il corpo organico come un territorio di confine, costituito esso stesso di organi ed elementi che rimarcano una relazione di prossimità biunivoca con ciò che li circonda.

In un’epoca a suo modo storica e drammatica come quella che stiamo vivendo, testimone di un’umanità improvvisamente inerme nei confronti della natura e di altre specie viventi, tesa altresì a una crescente comprensione dell’espansione della propria corporeità nel rapporto con una dimensione ontologica di ambiente – la biosfera da “preservare”, le reti e i network da “coltivare” e le relazioni da “alimentare” – è forse tempo di rallentare e iniziare a esplorare nuovi confini fatti di eccitanti e ignote prossimità. Un’epoca complessa, difficile da mappare per chiunque, nascosta secondo le parole di Donna Haraway, che definisce “Chthulucene” questa nostra era fatta di connessioni fitte, invisibili, sotterranee, capaci di creare insospettate alleanze con il mondo organico e inorganico con cui entrano in contatto, in grado di alimentare il fuoco di nuovi approcci filosofici e nuove utopie e in cui l’arte e la musica ricoprono un ruolo fondamentale. Non solo e non più per la loro intrinseca funzione estetica e fenomenologica, quanto piuttosto per la loro deriva maggiormente legata a una dimensione ecologica, esperienziale e relazionale.

Se per Raymond Schafer una delle caratteristiche della nostra società è, ad esempio, l’esistenza di paesaggi sonori in grado di migliorare la qualità della relazione tra gli uomini e l’ambiente circostante, accrescendo il livello di coscienza delle esperienze uditive tramite l’educazione all’ascolto dei suoni in cui siamo quotidianamente immersi, allora Robot Festival intende proporsi quest’anno come una rassegna che richiede ai corpi di mettersi in gioco, di abitare gli spazi fisici e virtuali in maniera consapevole, suggerendo percorsi di mutazione di progetti musicali capace di evolvere in risposta all’attuale situazione di emergenza, a indicare i confini da esplorare non solo (o non più) in senso geografico quanto piuttosto in misura organica ed emozionale.

Confini che ci separano e che devono essere superati, che il festival vuole indagare in modo curioso, spostandoli un po’ più in là, chiedendo al suo pubblico di attraversarli insieme, per stupirsi di come forse le pratiche sonore e performative, quelle di ascolto e di condivisione, sapranno a loro modo regolare la complessità del mondo e degli ecosistemi, indicando un cambiamento verso un modello di sviluppo e di vita collettiva più illuminato e sostenibile.