Kristoffer Gansing me lo avevo preannunciato, in occasione dell’intervista fatta lo scorso Dicembre per presentare l’edizione 2012 del festival transmediale, che si aggingeva a dirigere per la prima volta: “Abbiamo concepito l’idea della mostra come qualcosa di possibilmente diverso, sia dalle mostre degli anni precedenti, sia pi˘ in generale dal format classico di una mostra di media art”.
Devo dire che “Dark Drives. Uneasy Energies in Technological Times“, curata da Jacob Lillemose, ha in gran parte rispettato questi che mi erano suonati propositi piuttosto interessanti, e a loro modo coraggiosi, per un festival come transmediale, appuntamento profondamente radicato nella media culture europea e internazionale.
“Dark Drives” Ë stata infatta concepita come una mostra sostanzialmente differente da una classica esibizione di media art: non una semplice collezione spettacolare delle ultime realizzazioni di artisti multimediali, non al contempo un tentativo forzato di inserire pezzi di arte digitale dentro i dogmi espositivi ed espressivi dell’arte contemporanea, quanto piuttosto una vero e proprio percorso culturale/artistico in grado di riflettere sui possibili punti di contatto tra i mondi della cultura, dell’arte, dei media, della tecnologia, di ieri e di oggi.
In questo senso un grande lavoro è stato fatto sull’impianto allestitivo. Dal mio punto di vista uno dei punti deboli delle pur interessanti mostre degli anni passati, l’allestimento Ë stato studiato quest’anno in maniera sicuramente efficace sia da un punto di vista emozionale che esperienziale.
Una sala arredata come un ventre oscuro nel quale entrare e godere di un senso di smarrimento per solo apparente, in grado di affievolirsi camminando curiosi tra le opere esposte (finalmente illustrate da opportune schede e non abbandonate alla libera comprensione dello spettatore): ciò che infatti è emerso in maniera piuttosto chiara è come l’interdisciplinarietà dell’idea stessa della mostra si riflette in un’analoga dinamicità di possibili percorsi esplorativi tra le oltre 35 opere, collezionate per l’occasione da differenti periodi storici e ambiti di ricerca artistica.
In mancanza di un vero e proprio senso di marcia, aiutato in questo senso dall’architettura neutra e malleabile della sala espositiva della Haus Der Kulturen der Welt, le opere esposte potevano essere fruite seguendo traiettorie di interesse sempre diverse, ma sempre con la sensazione di un forte senso di corrispondenza tra esse. Come dice Marialaura Ghidini su Furtherfield:”…the amount of artistic and cultural material on display in the exhibition and the trajectories that it opened were broad to such an extent that Dark Drives functioned more as a general narrative survey than a show with a clear proposition”. – http://www.furtherfield.org/features/reviews/transmediale-2k12-incompatible
“Dark Drives” si Ë presentata quindi come una mostra fieramente interdisciplinare e in grado di “piegare” i linguaggi della media art a codici culturali pi˘ ampi e condivisi dalla societ‡ di oggi, alternando con la giusta ironia e curiosit‡ pezzi classici di net art e software art, esposti secondo i codici tipici dell’arte contemporanea, a materiali di video footage che in quelle sedi trovano spazio da decenni, senza in questo dimenticare video clip di matrice maggiormente pop, installazioni sonore e meccaniche, fotografie e materiali catturati dalla rete, classici documentari, molti dei quali esposti per la prima volta in Europa.
Opere che hanno messo in evidenza il legame ambiguo e indissolubile che lega l’uomo alle tecnologie da lui stesso inventate e utilizzate: un legame ambivalente, come suggerito dal curatore Jacob Lillemose, di amore e odio potremmo dire, spesso imprevedibile nelle sue reazioni pi˘ estreme, altrettanto spesso fallace nei possibili margini di errore, curioso nei confronti di comportamenti inesplorati e inaspettati, a volte foriero di reazioni estreme al limite della frustrazione e dell’ansia. Sicuramente innervato delle normali pulsioni politiche e sociali che guidano il lavoro degli artisti esposti.
Un rapporto non facile quindi, ricco di contrasti emotivi e fisici, che riflette e si riflette nel concept generale di questa edizione 2012 di transmediale: “in/compatible”. Come infatti lo stesso Jacob Lillemose afferma: “On the one hand, uneasy energies can be said to produce†the in/compatible, while on the other hand the in/compatible can be†said to produce uneasy energies. The two form a circuit of mutual exchange. The question of which one of the two comes first and†determines the other is beside the point”.
Difficile francamente fare una selezione delle opere esposte. Ricorando la modalit‡ con cui mi sono mosso tra i lavori quando ho visitato la mostra, l’attenzione all’ingresso Ë stata (volutamente) catalizzata dal lavoro My Generation degli 0100101110101101.ORG, piccolo gioiello di coerenza con il concept generale della mostra stessa. L’opera mette in evidenza infatti, in un video collage di materiale catturato dalla rete, il rapporto conflittuale di amore-odio delle nuove generazioni di ragazzi nei confronti dei videogames. Un rapporto classico di dipendenza, in grado di donare grandi gioie ma anche un crescente senso di frustrazione e rabbia nei confronti dell’oggetto adorato. Un’opera sicuramente sorprendente, in grado di catalizzare l’attenzione per la natura forte, ma ironica e ambigua allo stesso tempo, del materiale di footage collezionato da Eva e Franco Mattes.
La rete Ë ancora presente come bacino da cui attingere immagini ed esperienze nell’opera Photos of e-waste found on Flickr di Jack Caravanos e Vibek Raj Maurya, slideshow di fotografie (in parte amatoriali, in parte professionali) che testimoniano l’esistenza, principalmente nei paesi in via di sviluppo, di enormi discariche di materiale tecnologico (computer e cellulari prevalentemente) eliminato, spesso con troppo anticipo e troppa leggerezza, dai ricchi paesi occidentali. Un documento visivamente potente, che fa riflettere su temi importanti quali la sovraproduzione del mercato di consumo di beni tecnologici, nonchË l’impatto ambientale e di vite umane legato alle dinamiche di smaltimento e riciclaggio delle componenti elettroniche che lo compongono.
E ancora, forse un po’ abbandonato a se stesso nella sua monolitica staticit‡, il lavoro Million Dollars 1 Terabyte di Art 404, Ë un hard disk nel quale sono stati salvati 1 Terabyte di software (da AutoCAD a video games ad audio libri) senza licenza, corrispondenti a un valore commerciale di 5 milioni di dollari. CosÏ come di sicuro impatto sono risultate le opere Armed Citizen di Daniel GarcÌa And˙jar, slideshow di immagini di pistole che possono essere facilmente acquistate online, e il tv documentario Web Warriors di Jay Dahl, Edward Peill e Christopher Zimmer che mappa le complessit‡ dei nuovi confilitti nel cyberspazio tra strategie di attacco e di difesa sullo sfondo di una crescente “paranoia” di sicurezza digitale.
Proprio quest’opera mi ha spinto a ritagliarmi un percorso parallelo all’interno della mostra, andando ad esplorare con pi˘ attenzione i lavori basati sull’elemento video. Su tutti, per importanza storica e bellezza incomparabile, i lavori In search of the castle di Steina e Woody Wasulka, Cut-Ups di William S. Burroughs e Antony Balch e Media Burn di Ant Farm. Il primo, un video amatoriale di alcuni sobborghi industriali negli Stati Uniti, “disturbato” da segnali elettronici in grado di creare sovrapposizioni, distorsioni e allucinazioni visive accompagnate dalla rispettiva risultante sonora, nel solco di quella sperimentazione sulle tecnologie video che ha accompagnato tutta la carriera dei Wasulkas.
Il secondo, un frenetico montaggio visivo di materiale footage filmato da Burroghs e Balch stessi tra Parigi, Tangeri e New York secondo la tecnica Dadaista del cut-up, caratterizzato dalla sovrapposizione di elementi sonori a loop sulle parole “Yes” e “Hello” con lo scopo preciso di idagare i confini di una meta-sovrapposizione capace di portare lo spettatore verso stati alterati di coscienza possibilmente analoghi a quelli ottenuti con l’utilizzo di sostanze psicotrope. Il terzo, la testimonianza video del 1975 dello spettacolare “ultimate media event” organizzato per un network di televisioni locali dal collettivo Ant Farm: una Cadillac lanciata come un missile contro una piramide di televisori in fiamme…
E ancora, il lavoro LED PH16/1R1G1B di JODI, esposto all’ingresso della mostra, Ë una matrice di diodi illuminati che puÚ essere programmata per mostrare immagini (in movimento e non) ìdi tale intensit‡ da poter essere viste anche alla luce del giornoî e in grado di ìarrivare direttamente alla retina del pubblicoî, come afferma la scheda dell’opera. Psych|OS ñ Hans No.2 bw di UBERMORGEN.COM Ë invece un’istantanea dell’ormai famoso viaggio maniaco-allucinatorio di un Hans Bernhard ospedalizzato, felice e sognante nel paesaggio delle utopie digitali. Error 502 404 410 di Marcelina Wellmer Ë inoltre una bellissima installazione a tecnologia aperta, dove lo spettatore viene messo in comunicazione con il suono prodotto da 3 hard disk che si inceppano secondo uno dei 3 codici di errore del titolo.
Ecco, il suono, ovviamente in rapporto all’elemento visivo, l’ultimo capitolo del mio personale percorso di indagine della mostra: da Information Overload Unit , primo album degli SPK del 1981 sulla cui copertina Ë raffigurato il cranio di un uomo con un buco, creato chirurgicamente, per raggiungere il cervello, al videoclip Come to Daddy della premiata ditta Aphex Twin / Chris Cunningham, al lavoro Pinknoise di Junko e Mattin, testimonianza sonora della possibile compenetrazione tra la calorosa performativit‡ della voce umana e l’algida precisione del computer feedback.
Anche se forse Ë forse Paidia Laboratory: feedback #6 del Paida Institute il pezzo della mostra, piccolo e inaspettato, che mi ha fatto veramente riflettere. Una classica ìmacchina inutileî, nella pura tradizione di Tinguely e Munari. Due consolle Playstation, due simboli della societ‡ contemporanea, con hardware opportunamente modificato, che si guardano e si fronteggiano, si osservano e si deridono, semplicemente aprendo e chiudendo il cassetto di entrata del cd-rom. in un sistema chiuso di feedback. Come l’HAL 9000 di Stanley Kubrick, anche feedback #6 ci mostra una tecnologia che va lentamente alla deriva, ironica nella sua dichiarazione di lucida follia, spettacolare nel suo mostrarsi fallace e inutile. Cosa altro aggiungere….