In che modo l’arte contemporanea riesce a fornire punti di vista insoliti su di una quotidianità che vede una crescita esponenziale della produzione di immagini e video di ogni tipo? Qual’è il confine tra la realtà digitale composta da archivi di enormi dimensioni e la vita di tutti i giorni? Di quale estetica è interessante parlare negli anni dei nativi digitali? Queste sono solo alcune delle domande che possono trovare una risposta nella mostra collettiva Collect the WWWorld. The Artist as Archivist in the Internet Age, a cura di Domenico Quaranta.

L’evento, organizzato a Brescia dal LINK Center for the Arts of the Information Age,  è stato accompagnato da un fitto calendario di eventi collaterali durante tutta la sua durata dal 24 Settembre al 15 Ottobre.

Nella dichiarazione di intenti della mostra si leggeva: “Collect the WWWorld intende mostrare come la generazione di Internet stia dando nuovo slancio a una pratica artistica inaugurata negli anni Sessanta dall’arte concettuale, e sviluppatasi nei decenni successivi nelle forme dell’appropriazione e della postproduzione: quella che vede l’artista esplorare, raccogliere, archiviare, manipolare e riutilizzare grandi quantità di materiale visivo prelevato dalla cultura popolare e dal mondo della comunicazione”.

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Tuttavia questa era solo una premessa ad un’idea che è nata da due intuizioni fondamentali. Da un lato c’è la consapevolezza del ruolo che ha assunto nella nostra vita il memorizzare o semplicemente l’accumulare più o meno coscientemente enormi quantità di dati sui nostri computer. Nell’ambito della fruizione digitale l’archiviazione non è condizionata solamente nel gesto del raccogliere spasmodicamente ma anche nella natura di ciò che si raccoglie.

Da contraltare a questo c’è l’ormai inarrestabile tendenza ad esternalizzare la propria memoria, cioè ad affidare a banche dati esterne i propri ricordi o anche i pensieri più effimeri. Questo costituisce un pericolo, non, come si è soliti pensare, in relazione alla privacy ma soprattutto perché l’architettura di questi archivi non è  neutra e ci consente di recuperare i nostri dati o quelli altrui attraverso “algide strutture a griglia che ingabbiano le nostre memorie”. Coloro che costituiscono ancora un ostacolo alla standardizzazione dei nostri ricordi sono i cosiddetti professional surfer, utenti che ridistribuiscono e riorganizzano i contenuti della rete secondo le proprie inclinazioni e i propri gusti.

In questo contesto la figura dell’artista-come-archivista-e-collezionista assume un nuovo slancio. Nella storia dell’arte ci sono da tempo esempi di questo tipo dal Merzbau di Kurt Schwitters alle collezioni di Joseph Cornell ma in questa mostra le diverse opere devo fare i conti con la diffusione massiva di pratiche come il remix e la riappropriazione alla portata di mouse di qualsiasi adolescente. Lo stesso curatore scrive: ” Gli artisti di questa mostra vivono nel presente […]; all’alba di un’epoca che sta completamente ridisegnando i rapporti tra avanguardia e cultura di massa, professionismo e amatorialità”.

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Questi 26 artisti provenienti da tutto il mondo sono, come li definisce Josephine Bosma, ” profateur” cioè amatori professionisti e approfittatori, che hanno imparto vivendo per le strade della rete e hanno acquisito pratiche che sono parte costitutiva dei loro lavori. Le immagini e i video online, catalogati da differenti motori di ricerca, orfane e strappate dai loro contesti, divento i colori con cui gli autori realizzano le proprie opere ricontestualizzandole e creando significati diversi.

E’ quello che fa Jon Rafman raccogliendo immagini durante i suoi lunghi viaggi lungo le strade di Google Street View. L’artista svincola le immagini dal quel processo automatizzato che le hanno rese parte di uno strumento, collezionandole e riproponendole come momenti chiave, come esperienze singolari. Al contrario Hans-Peter Feldmann ripropone una griglia di presentazione simile a quella di Google Images Search per presentare immagini collezionate dal sito Beautiful Agony dedicato alla bellezza dell’orgasmo umano.

Interessante però non è solo la ricontestualizzazione ma anche la volontà che non passi inosservato il processo di memorizzazione. Così Evan Roth, mette in mostra i dati memorizzati dal browser durante la propria navigazione con Personal Internet Cache Archive e Aleksandra Domanović ricostruisce il film Annie Hall in Anhedonia servendosi delle immagni di Getty Images e dei criteri con cui vengono catalogate.

Questa è solo una piccola parte della mostra. Tuttavia condivido  l’affermazione di Oliver  Laric, presente nel catalogo : “Mi piacciono le interpretazioni e le esperienze mediate: libri che parlano di libri, cataloghi di mostre, interpretazioni di film. Alcune delle mie opere d’arte e dei miei film preferiti non li ho visti: mi sono solo stati descritti”.

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Per questo motivo consiglio di fare questa esperienza mediata attraverso i diversi materiali online, dal catalogo, al video della performance di Jodi, evento di finissage della mostra stessa, presenti sul sito http://www.linkartcenter.eu/. Anche se spero questo sia solo un pre-esperienza per chi avrà la fortuna di vederla dal vivo in altri luoghi d’Europa nei prossimi mesi.