Toshio Iwai, nato in Giappone nel 1962, è stato definito a livello internazionale un artista new-media. Nelle seguenti pagine mi riferirò a uno degli esperimenti che ha realizzato nel 2001, all’età di 39 anni: Sound-Lens. Grazie ad esso, una coppia di autori contemporanei giapponesi, tra cui lo stesso Iwai, offrono un punto di vista radicalmente nuovo su Tokyo, attraverso ciò che quotidianamente non viene percepito.

Sound Lens potrebbe essere ridefinita con il titolo di un paragrafo del libro Millennial Monsters di Anne Allison: “La tecnologia genera la mitologia: guarigione e nomadismo, incanto e illuminazione”[1].

Su quest’opera Jun Rekimoto scrive: “Sound-Lens, l’opera artistica interattiva di Toshio Iwai, è un dispositivo portatile che converte la luce in suono” [2]. Dunque si può ascrivere Sound-Lens nella categoria degli strumenti di musica elettronica mobile, ma lo si può descrivere anche come un modello artistico che converte la luce in suono. Sound-Lens è infatti uno strumento musicale portatile, privo di contenuti (all’interno non è presente musica digitale).

Il suono viene realizzato per strada e sintetizzato dal sistema hardware/software all’interno del dispositivo. Sulla sua superficie c’è una grossa lente che cattura la luce, in modo che le onde luminose vengano tradotte in onde sonore. Qualsiasi oggetto che emetta luce o suoni è in grado così di trasformarsi in uno strumento musicale.

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Sound-Lens “ci permettere di fare esperienza del mondo da un punto di vista totalmente diverso” [3]. Ad esempio, attarverso questo dispositivo, ognuno può ascoltare il timbro sonoro che può avere una lampada da tavolo. Usando Sound-Lens, è possibile ascoltare le luci del semaforo o addirittura la luna: tramite una lente ricettrice orientata verso una fonte di luce, il suono che in essa si nasconde può essere così diffuso tramite le cuffie incorporate nel dispositivo.

Lo studioso De Mente scrive: “Le ricerche estetiche giapponesi sono state progettate per il piacere dei sensi e dello spirito. Queste pratiche formalizzate includono la scrittura poetica, l’osservazione della luna o di un ciliegio in fiore, feste con incenso, visite alle bellezze dei luoghi, ascolto delle canzoni prodotte dagli insetti, decorazioni floreali, musica, danze popolari e cerimonie del tè” [4]. L’esperimento di Iwai corrisponde perfettamente a queste tradizioni.

Un altro punto chiave di Sound-Lens è la sua portabilità: l’uso di questo dispositivo permette infatti di scoprire un panorama sonoro durante una passeggiata tra gli spazi pubblici.

Come riferisce Betsky nel suo saggio dal titolo Marking The Electrosphere: “In un mondo di urbanizzazione selvaggia, siamo sempre più simili a nomadi che si trovano in un punto determinato solo momentaneamente. Una volta lì, ci uniamo a un luogo, a un senso di appartenenza, attraverso segni, codici o cifre” [5].

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Sound-Lens si trova dunque nella zona liminale tra Arte Interattiva ed un prodotto di Design. Gli utenti portano il dispositivo in mano e ascoltano i suoni attraverso le cuffie, ma il dispositivo da solo è muto e inespresso: la sua funzionalità dipende dalla luce specifica del panorama urbano. (In questo senso, quello che mette in luce la percorribilità e la fruibilità di spazi urbani, non stupisce perché nell’arte new-media la nozione di osservatore o visitatore sia stata sorpassata e sostituita con la nozione di attore, utente o performer).

Randall Packer, mettendo in relazione l’analisi delle esperienze dei maestri del Bahaus (in particolare Làszlò Moholy-Nagy e Walter Gropius) con la prima arte performativa, sottolinea quanto le sperimentazioni della performance live abbiano avuto “un profondo impatto sulla relazione mutevole tra l’osservatore e l’opera d’arte, con l’intento di elevare l’esperienza individuale e soggettiva” [6]. Proseguendo in questo ragionamento e concentrandosi sullo sviluppo dell’arte dei new-media in Giappone, lo studioso assume il Padiglione Pepsi, realizzato a Suita, Osaka, dal 15 marzo al 13 settembre 1970 (Expo ’70) come caso esemplare.

L’allestimento del Padiglione mise infatti in questione il ruolo dell’osservatore tanto da far affermare a Packer che “l’insieme complessivo è stata un’esperienza fluida e multisensoriale di luce, suono, tatto e movimento, in costante mutamento come risposta alla presenza e alle azioni dell’osservatore, così come alle forze naturali dell’ambiente.

Visitato da milioni di persone, il Padiglione ha portato alla netta focalizzazione del ruolo attivo dell’osservatore, attraverso l’accoglienza nel progetto di sistemi aperti e reattivi. Per gli artisti e gli ingegneri, è diventato uno studio della dinamica di interazione dell’osservatore”[7].

Da allora il cambiamento del ruolo dell’osservatore da soggetto passivo ad attivo è chiaro: da osservatore a performer, ad attore e successivamente … a utente.

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Per tornare a Iwai ed al suo progetto Sound-Lens, potremmo senza dubbio affermare che il punto di vista dell’artista (così come emerge dal film sul progetto che può essere consultato on-line), faccia apparire la stazione di Shibuya come una sineddoche della città di Tokyo.

Tokyo infatti è già di per sé un’allegoria della città delle luci: Shibuya si configura in questo senso come il luogo perfetto in cui un artista new-media possa ricercare la superficie scintillante del mercato nel Giappone tardo-capitalista. Parlo di “città delle luci” facendo evidentemente riferimento a Parigi: in questo senso la Tokyo contemporanea può essere percepita come un’allegoria della Parigi del 19° secolo.

Penso che il fascino subito da Iwai ed altri autori giapponesi per le luci delle strade di Tokyo si produca come effetto di una sorta di incantesimo meramente superficiale. Non lo dico per sminuire il valore della ricerca di tali autori; vorrei anzi rivalutare il pregiudizio degli studiosi occidentali contemporanei sulla superficie e sull’incantesimo.

Nel film/istallazione realizzato da WOW viene per esempio mostrata la fascinazione quasi “epidermica” del panorama urbano notturno di Tokyo. Le immagini sono bellissime nel loro fascino illusorio: la città reale si astrae in oggetti fluttuanti tridimensionali e apparentemente foto-realistici, che mostrano gli elementi costitutivi della façade di Tokyo. WOW, forse inconsapevolmente, non manipola le immagini delle façade della città, ma nel suo video rappresenta Tokyo come se fosse essa stessa una façade: un soprabito lucente, che sfida la gravità, sospeso in uno spazio nero infinito.

Come afferma Philip Brophy, “per me una buona parte del Giappone ricerca ciò che potrebbe essere definito come “epidermalismo ottico”: una specie di rivestimento illusorio, che inguanta e nasconde le cose come ‘una seconda pelle’, una superficie tesa ma malleabile che si contorce e si gonfia mentre esprime diverse modalità e tonalità”[8].

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La façade diventa così un emblema del panorama urbano moderno (o post-moderno, come alcuni sostengono). Personalmente dunque penso che il parallelismo tra l’esteriorizzazione della Parigi del tardo 19° secolo e l’esteriorizzazione virtuale della Tokyo del 21° secolo riguardi maggiormente la superficie che il contenuto: si tratta di vero e proprio maquillage. Faccio notare un aspetto curioso, ovvero che la Parigi prima dell’intervento haussmanniano, cioè quella del passato, è andata perduta: l’osservatore contemporaneo affronta un avvenimento più sensazionale del semplice maquillage.

Nell’ottica di porre un parallelismo tra superfici architettoniche e corporee, potremmo dire che il processo di modernizzazione condotto da Haussmann a Parigi abbia la sua mimesi in Mireille Suzanne Francette Porte, meglio nota come ORLAN, con le sue operazioni di chirurgia plastica dei primi anni Novanta; e che la riduzione di Tokyo a una seconda pelle di pubblicità luccicanti abbia la sua mimesi nell’animazione 2D/3D di WOW. Ciò che trovo bizzarro e minaccioso è che l’appropriazione dell’allure parigina si riferisce non alla capitale straniera odierna ma ad una sorta di alterità idealizzata.

È un’appropriazione, una reinterpretazione ed una simulazione compiuta attraverso la tecnologia digitale. Credo che la definizione di Allison sulle teorie di Walter Benjamin, utilizzata originariamente per analizzare la Parigi del 19° secolo e ora applicata alla descrizione della Tokyo contemporanea, sia particolarmente appropriata. “Nuovi grandi magazzini sistemano i beni in una carnevalesca forma da sogno, uno spazio urbano viene trasformato da (e in) un mercato che vende sogni” [9].

La trasfigurazione di un altro ipotetico, da scovare in un ambiente ottocentesco europeo, ha degli esempi carismatici anche nei registi Hayao Miyazaki e Katsuhiro Otomo. Le trasfigurazioni oniriche di Miyazaki sono emblemi di un’Europa idealizzata, come si può notare nei suoi film d’animazione: Lupin III – Il castello di Cagliostro del 1979, Kiki consegne a domicilio del 1989 e Porco Rosso del 1992; per quanto riguarda Otomo, ci si può riferire a Steamboy del 2004.

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La cosa più interessante da notare è che, se in Francia il sistema di credenze precedente al Secolo dei Lumi non è scomparso con la modernizzazione, così è successo per il Giappone quando si è sottoposto alla Modernizzazione, il cui inizio è coinciso con il Rinnovamento Meiji. L’Alterità in questi caso non è rappresentata da uno straniero, ma da un’idea o un sistema di credenze, che è sopravvissuto all’ascesa del monoteismo prima e dell’Epoca della Ragione dopo (almeno per quanto riguarda i paesi occidentali).

Tale fenomeno viene definito come ‘età assiale’. Secondo il filosofo tedesco Karl Jaspers, “il Giappone non è mai stato coinvolto in una simile rivoluzione epocale”[10]. E comunque va fatto notare che anche tra le culture coinvolte nel processo di assializzazione, potrebbe avverarsi la ricomparsa dell’olismo, specialmente in contesti in cui le istanze riduzioniste sono all’opera.

Facendo riferimento alle ricerche su Walter Benjamin da parte di Susan Buck-Morss, Allison fa notare che “in quest’epoca di tecnologia la mitologia non è scomparsa, ma piuttosto si è radicata nella tecnologia stessa. Questo fenomeno risulta da quello che Benjamin credeva essere un potenziale creativo nella produzione industriale, e un effetto immaginativo sui consumatori della spettacolare esposizione di beni (come nelle gallerie parigine) in una sorta di fantasmagorico ‘mondo ideale’” [11]. Io penso che le luci del panorama notturno siano più simili a sirene; non per niente, attraverso il Sound-Lens possiamo sperimentare le loro voci. Ecco la ricomparsa del mito nella contemporaneità.

Per quanto riguarda la transizione del Giappone dal Medioevo all’Età moderna, Allison nota come, in riferimento al libro scritto da Gerald Figal, Civilization and Monsters, basato sulla ricerca dell’etnografo Yanagita Kunio, il soprannaturale non sia stato soppresso dalla modernità, anzi: il mistero e il fantastico (fushigi) sono stati vitali per una trasformazione stabile e armoniosa del Giappone.

Allison, facendo proprie le parole di Figal afferma: “Il fantastico come lo concepisco io è la condizione costante della modernità giapponese in tutte le sue contraddizioni e instabilità […] Il fantastico permette al moderno di essere pensato. […] La modernità è in se stessa fantasmagorica. […] La modernità è affine alla definizione basilare di Bakemono, una ‘cosa che cambia forma’”[12].

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Devo ammettere che la definizione summenzionata di un Giappone contemporaneo è simile a quello che si pensa del post-modernismo; ma la definizione dell’opera di Toshio Iwai come un insieme di comandamenti che succedono la modernità, mi trova a porre qualche resistenza: “Per il conservatore Daniel Bell, come scrive nel 1978, il modernismo era caratterizzato da un agnosticismo distruttivo” [13]. Dato che mi sembra che Sound-Lens incorpori una certa forma di spiritualità, quest’affermazione potrebbe contrastare con il presupposto appena citato.

Iwai dopotutto non sembra interessato a dichiarazioni politiche, ma la sua opera prende implicitamente in considerazione l’importanza del visivo nelle società contemporanee, soprattutto in quelle occidentali; a tal proposito Gillian Rose condivide le parole di Martin Jay: “Martin Jay ha utilizzato il termine ‘ocularcentrismo’ per descrivere l’apparente centralità dell’esperienza visiva nella vita contemporanea degli occidentali”[14].

Come direbbe Rose, Iwai sovverte la struttura analitica convenzionale dell’Occidente per comprendere quanto le immagini siano diventate significative. I segni, che costituiscono le parole, sono privati del loro significato letterale. Iwai usa i segni, (intesi secondo l’interpretazione che Roland Barthes dà di quelli della cultura giapponese: Barthes 1983). I segni al neon, i caratteri logografici cinesi Kanji, vengono usati da Iwai come materia prima dell’elaborazione di un output radio, cosa che non ha alcuna rassomiglianza con i significanti e con i significati.

Barthes non descrive il vero Giappone, che gli serve come strumento ideale per porre agli estremi, per distinguere, per plasmare ai due lati opposti la visione del mondo dei giapponesi e quella degli occidentali. Egli ha piuttosto bisogno di formare un’alterità, che si manifesta al meglio in quella che chiamerei ‘superficialità’.

Seguendo questo concetto infatti, e secondo lo studioso Alan Macfarlane, i giapponesi invece di guardarsi allo specchio (metaforicamente parlando) o di osservare la realtà oggettiva dei fatti, guardano loro stessi attraverso i giudizi degli accademici stranieri che si occupano di cultura giapponese (Macfarlane 2009). E questo riverbera le parole di Gillian Rose quando afferma che “le forme moderne di conoscenza dipendono da un regime visivo”[15].

Anche Barbara Maria Stafford si inserisce nel solco di questo ragionamento scoprendo che dall’inizio del 18° secolo le immagini sono diventate sempre più potenti nella rappresentazione del mondo, a scapito del testo: pertanto la conoscenza, specialmente quella scientifica, si è basata sulle immagini. Tale processo ha dato letteralmente inizio a una visione del mondo basata sulle immagini, che si pensa descrivano in modo scientifico la realtà. (Stafford 1993, 1996).

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Allo stesso modo Chris Jenks, nell’incipit del suo saggio intitolato The centrality of the eye in western culture, osserva che “guardare, vedere e sapere sono concetti che si sono pericolosamente intrecciati” [16]. Jenks argomenta inoltre che “il mondo moderno è un fenomeno grandemente ‘visto’” [17]. (Anche se Jenks non concorda pienamente dunque con la teoria secondo cui la cultura moderna sia caratterizzata da uno status privilegiato della visione rispetto gli altri sensi. Infatti, in Culture Keys Ideas, scrive che alla vista non è stata garantita una predominanza fino ai tempi moderni).

Secondo questa lettura sembra dunque che nella cultura occidentale l’azione del vedere sia allo stesso livello del processo di conoscenza. Questo concetto non è specifico della filosofia occidentale, anzi: nel libro L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta di René Guénon: “L’origine sanscrita da cui derivano sia ‘Vêda’ che ‘vidyâ’, significa allo stesso tempo ‘vedere’ e ‘sapere’: la vista viene usata come simbolo della conoscenza, di cui è lo strumento privilegiato nel regno dei sensi. Questo simbolismo è ben trasposto nel puro ordine intellettuale, secondo cui la conoscenza è paragonata alla ‘visione interiore’, come viene esemplificato dal termine ‘intuizione’”[18].

Riguardo alla supremazia della visione e al controllo che la tecnologia esercitata sul modo in cui navighiamo nello scenario urbano contemporaneo, vorrei citare Ravi Agarwal: “I centri urbani sono probabilmente le creazioni tecnologiche più grandi delle città moderne. L’abitante di una città non ha legami con il mondo che lo/la sostiene. […] L’isolamento della mente stessa è forse più pericoloso” [19]. L’autore descrive poi la sua esperienza con la fotocamera fino al punto in cui sente di controllare totalmente lo strumento.

Si sente come se stia per diventare lui stesso uno strumento. La fotocamera gli ha imposto cosa ed in che modo vedere il mondo attorno a lui. Agarwal ci ricorda che la Fotografia, la tecnologia del fotografare, dall’essere un supporto alla comprensione della realtà, la superficie dell’apparenza, può diventare inizialmente uno spesso filtro tra noi e l’altro, finché la tecnologia non arriva a dividerci dal mondo che ci circonda.

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Judith Adler prende a sua volta in considerazione il significato politico della vista, notando che il grand tour, nel periodo compreso tra il 1600 e il 1840, sanciva l’idea che la vista fosse uno strumento privilegiato per accedere alla conoscenza e fondamentalmente al controllo [20]. Il grand tour è giudicato come un orientamento politico perché si trattava di un fenomeno che coinvolgeva le élite europee, prima di tutto nobili e successivamente borghesi. I soggetti dei tours erano cittadini aristocratici mentre gli oggetti erano gente comune straniera, tra paesaggi romantici, rovine romane e pitture contemporanee.

Renato Barilli osserva che durante il diciottesimo secolo filosofi, scrittori e saggisti praticavano il grand tour allo scopo di scoprire manifestazioni estetiche del bello e del sublime [21]. Queste manifestazioni avevano luogo in natura o nelle sue digressioni, come la contemplazione dei paesaggi. Le visite alle bellezze di un luogo erano tese a provocare eccitamento psicologico, l’esplorazione geografica aveva un appeal esotico che trascendeva la scoperta scientifica per scopi allegorici. Queste manifestazioni del sublime dovevano sgorgare dai sensi e non dall’intelletto.

Il parallelismo tra il significato interiore ed elitario del grand tour in Europa e il tour guidato di Toshio Iwai nel panorama urbano di Tokyo si rivela in una piega interessante: artisti, designer e aficionados dell’arte sono non di meno un’élite, ma la peculiarità del tour di Shibuya è il fatto che un paesaggio ordinario – o che lo è almeno per coloro che ci vivono – venga trasformato dal dispositivo di Iwai in un paesaggio non convenzionale.

Distorcendo quello che ha scritto John Urry: “non viaggiamo per sperimentare la novità” [22], al contrario lo facciamo per trasformare quello che tipicamente incontriamo nella vita quotidiana in qualcosa di straordinario. Invece di viaggiare all’estero per sperimentare qualcosa a noi inusuale, riformiamo – o forse deformiamo – con l’uso della tecnologia il convenzionale nello straordinario, e facendo questo traiamo piacere.

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Christopher Dowling nel suo Multy-sensory versus the Higher Senses dice: “Molta letteratura settoriale afferma che le esperienze estetiche nel mondo dell’arte differiscono da quelle nei contesti quotidiani, poiché le opere d’arte tendono a impegnare i sensi più alti della vista e dell’udito” [23]. In questo senso Sound-Lens può posizionarsi nel contesto d’arte, non nell’estetica quotidiana. Definire Sound-Lens risulta anche più difficile quando approfondiamo l’idea di Dowling secondo cui “[…] l’arte (anche l’arte orientata al quotidiano) tende a distanziare l’osservatore dal suo oggetto, enfatizzando l’impatto visivo di un ambiente ma relegando il tipo di interazione ceduta dagli altri sensi” [24]. Al riguardo si può dire che lo scopo dell’Arte è di rendere non familiare l’oggetto della nostra percezione. Prolungare la visione con maestria rinvia il giudizio.


Note:

[1] – Allison 2006 : 22

[2] – Rekimoto 2009 : 9

[3] – Iwai 2006 : 321

[4] – De Mente 2003 : 37

[5] – Betsky 1997 : 222

[6] – Packer 2003 : 145

[7] – Packer 2003 : 147

[8] – Brophy 2007 : 51

[9] – Allison 2006 : 29

[10] – Jasper 2011

[11] – Allison 2006 : 28

[12] – Figal 2006 : 28

[13] – Harrison e Wood 2005: 1016

[14] – Rose 2001 : 7

[15]Ivi.

[16] – Jenks 1995: 1

[17] – Jenks 2004, 255

[18] – Guénon 1992 : 17

[19] – Agarwal 2003 : 33

[20] – Adler 1989 : 1366-1391

[21] -Barilli 1989 : 28-29

[22] -Urry 2002 : 7

[23] -Dowling 2010 : 236

[24]Ivi.