Mark Amerika è una forza prolifica e creativa che ha esplorato i mondi dell’arte e della scrittura in rete (sia online che offline), sviluppando una risposta allo stesso tempo teorica e creativa nei confronti dei media in cambiamento e delle potenzialità da essi offerte.
Ama definirsi un “digital jack-of-all-trades” ed è vero che la sua attività online di networking è da sempre focalizzata sulla raccolta e il remix di immagini, testi, codici, suoni, multimedialità in senso ampio, anche in termini di generi letterari, teatrali, teorie pedagogiche e psicogeografiche.
Dalle sue prime pubblicazioni, tra cui “Sexual Blood” e “The Kafka chronicles“, che esplorano il flusso libero dei processi di pensiero incanalati nel gioco di parole sperimentale e il crollo di disgiunzioni narrative, alle sue pubblicazioni online che diffondono il significato dell’essere scrittore e remixer in epoca digitale e post-digitale (tra cui vale la pena ricordare “How to be an internet artist” [1], “Expanding the concept of Writing” [2], “Becoming a remixologist” [3], “Portrait of a VJ” [4], “Meta/Data a digital poetics” [5]) è praticamente impossibile descrivere tutti i suoi lavori e ha forse poco senso farlo dato il numero considerevole di interviste che potete trovare in rete e la scontata completezza del suo sito web.
La seguente intervista è stata realizzata via mail, mentre Mark Amerika era impegnato a promuovere il suo progetto “Remixthebook”, un esempio piuttosto rappresentativo di tutta la sua opera. Un libro, pubblicato da Univeristry of Minnesota Press, che si appoggia a un sito web (remixthebook.com) come hub in rete con lo scopo di remixare digitalmente alcune delle teorie espresse (da autori come Janneke Adema, Giselle Beiguelman, Julie Carr, David Gunkel, Gary Hall, Frieder Nake, Craig Saper, Darren Tofts, Gregory Ulmer, Chad Mossholder, Michael Theodore, Michelle Ellsworth, Rick Silva, Will Luers, Yoshi Sodeoka, Mark McCoin, Curt Cloninger, Kate Armstrong, Maria Miranda) nelle pagine del libro relative alla pratica del remix come forma artistica.
Nonostante l’iniziale intenzione fosse quella di utilizzare le risposte alle mie domande come punto di partenza per un intervento critico più approfondito, le risposte che ho ricevuto erano così complete e intrinsecamente significative per inquadrare l’opera di Amerika in un contesto più ampio, che ho deciso di riportarle così com’erano.
Punto di partenza di questa chiacchierata è stato il suo ultimo progetto Immobilité, quello che lo stesso Mark Amerika definisce come il primo film artistico per cellulare mai realizzato, che è stato proiettato in vari eventi sia in Europa che negli Stati Uniti, tra cui non ultimo la mostra “Hyperstrata” a ISEA 2011 a cura di Lanfranco Aceti. Con una trama annodata attorno a un mondo del futuro in cui il sogno di un’utopia è alimentato da una tribù nomade di artisti e intellettuali, il film indaga il concetto e l’idea di uso creativo delle tecnologie legate ai cellulari e in generale sulle possibilità nascoste delle tecnologie diventate di uso quotidiano.
Mark Hancock: Quando guardo Immobilité, mi sento come se stessi guardando qualcosa che potrebbe facilmente provenire dalla cinepresa di Chris Marker. Che si tratti del linguaggio visivo o del tema del futuristico, un sentimento catastrofico post-qualcosa, non riesco ancora a decidermi. Come ti senti pensando che le tue idee si legano a quelle di Marker in quest’opera?
Mark Amerika: Chris Marker sicuramente gioca con l’idea di comporre una sorta di “cine-essay”. E’ simile a quello che Agnes Varda definisce “cinécriture”, o scrittura cinematografica. Hai ragione a pensare che ci siano spunti sovrapponibili tra il lavoro di Marker e il mio, così come in quello di Agnes Varda e di Jean-Luc Godard: infatti il film come saggio o scrittura d’immagine mi affascina. Non dovrebbe sorprendere che anche Marker lavori con i media digitali, e che la Varda e Godard abbiano sperimentato nel campo delle installazioni multimediali.
Oggi questi limiti disciplinari si stanno fondendo per molti di noi. Il mio “essere scrittore’”significa che pubblico principalmente libri, sia stampati che tradizionali e-book. Ma si può ad esempio espandere il concetto per includere i miei lavori di net art, i miei ipertesti, le istallazioni nei musei, le performance live come VJ, i miei film feature-length e i miei esperimenti sulla narrativa transmediale? Io mischio costantemente stili, temi, immagini, parole, codici, suoni, provenienti da molti grandi artisti. Grammatron è un progetto colmo di Godard. Filmtext è ricco per l’appunto di Marker. Immobilité sperimenta entrambi, ma anche l’espressionismo astratto britannico come W. E. Sebald, Kathy Acker, Henri Lefebvre e molti altri.
Mark Hancock: Tu sei autori anche del Manifesto avant-pop. Come è presente ancora quel manifesto nella sua pratica artistica contemporanea? Se lo dovesse revisionare, pensa che apporterebbe molte correzioni? Ovviamente ce ne sarebbero alcune relative a certi musicisti e forse anche a nuovi scrittori…
Mark Amerika: Certo, mi piacerebbe rivederlo, se ne avessi il tempo. Un grande cambiamento consisterebbe, ad esempio, nella fine della necessità di profetizzare l’arrivo di artisti/scrittori post-studio e connessi alla rete. Oggi, è un dato di fatto. Rivedere quel testo, servirebbe inoltre ad evidenziare l’incremento dell’arte social media e l’emergenza del flusso digitale delle persone nel campo della distribuzione.
Mark Hancock: Immobilité è pubblicizzato come un film “in lingua straniera”. Personalmente, l’ho letto in due modi diversi. In uno, penso che tu consideri il medium cinematografico come se fossi un forestiero in terra straniera, che non pretende cioè di conoscere le sue forme e i suoi funzionamenti, liberando così se stesso da ogni convenzione.
Mark Amerika: E’ una lettura forte da parte sua. In realtà è più facile de-familiarizzare l’esperienza estetica di un’opera se si è pratici dell’aspetto e della percezione, per ipotesi, dello stile dei precursori che si spera di mixare con i ritmi multimediali personali. Così, ad esempio, Giancarlo Antonioni e Ingmar Bergman e, come hai detto prima Chris Marker, possono offrire un ritmo che posso sperimentare e fondere nella mia cifra stilistica, filtrando poi attraverso vari “plugin” inconsci che alterano il modo in cui l’opera procede. Questo crea una specie di estraneità che può essere inquietante o addirittura frustrante per il turista cinematografico medio.
Mark Hancock: Propongo però anche un’altra chiave interpretativa: quelle lunghe riprese e quelle valutazioni quasi mute del paesaggio sembrano molto americane, nel modo in cui cercano di modellare un personaggio partendo dal paesaggio stesso. Sembra essere presente, in parte, il punto di vista de L’uomo che cadde sulla terra, con tu nel ruolo del corpo alieno che abita in un mondo straniero…
Mark Amerika: Amo quel film. Ciò a cui alludi, penso, sia la dimensione dell’ultraterreno, un tema che attraversa molte delle mie opere. FiImnext penso che sia un buon esempio di tutto ciò, così come qui incontriamo la figura del Digital Thoughtographer . In un certo modo, l’artista deve diventare una specie di alieno-altro, che popola i campi istituzionalizzati della normalità. E’ l’unico modo di sopravvivere, perché la sopravvivenza richiede una costante rielaborazione creativa dei dati associati alle esperienze quotidiane.
Ecco perché mi dedico al remix, come rituale quotidiano, una specie di pratica della vita di tutti i giorni in cui regolo costantemente i filtri del mio apparato artistico per estraniare ulteriormente quello che il commercio ha reso troppo comune. Si dovrebbe anche menzionare Warhol, dato che l’ultraterreno che si percepisce in Immobilité è reso più complesso dall’emulazione delle sue tecniche di Screen Test.
Mark Hancock: Tu hai sempre affermato che il tipico film-making, cioè il processo di cattura delle immagini come dati e la loro lavorazione attraverso la cinepresa, è solo il primo passo di un lavoro cinematografico. Successivamente, il vero artefatto viene creato in post-produzione e questo processo non deve necessariamente seguire il sentiero tradizionale del fim-making. Intendi con questo rispondere a un impulso scritturale per esplorare quelle potenzialità che si trovano all’interno dell’immagine in movimento?
Mark Amerika: Sì, l’idea della pre-produzione, della produzione e della post-produzione non è più un processo essenzialmente sequenziale. Esse avvengono in modo simultaneo, oppure, come Mondrian ha detto in un altro contesto, si tratta di una fusione simultanea e continua. Remixerei tutto per poter leggere una fusione simultanea e continua di eventi processuali, che normalmente macchiano il nostro rapporto con il tempo, il movimento e il modo in cui manipoliamo inconsciamente qualsiasi fonte materiale utilizzata in qualsiasi momento.
Per me, tutto ciò dovrebbe includere quello che io e i principali partecipanti ad un progetto stiamo leggendo, vedendo, ascoltando, visionando in rete, dicendo nelle conversazioni, sognando, immaginando, ricreando dal passato, progettando per il futuro, evidenziando come un momento sia rilevabile come se stesse avvenendo nel presente.
Mark Hancock: L’atto del camminare è un elemento ripetitivo nel suo lavoro. Lei parla del processo del camminare nel suo manifesto di Immobilité e dice come questo abbia aiutato a dare forma ai suoi pensieri riguardo a come il progetto sarebbe dovuto diventare. Inoltre, apre Sexual Blood con una camminata. Immagino che questo processo di movimento fisico sia la chiave del suo processo creativo, anche quando ritorna alla tastiera per creare.
A volte sembra che lei sia arrivato alla tastiera con una grande energia cinetica e che questa poi fluisca nella tastiera e nel suo lavoro. Non ho una vera e propria domanda, mi chiedevo solo quali potrebbero essere i suoi pensieri al riguardo…
Mark Amerika: Non ho elaborato un pensiero sulla mia pratica della camminata, perché è molto radicata in tutto ciò che faccio. Il nuovo progetto su cui sto lavorando (The museum of Glitch Aesthetics, commissionato da Abandon Normal Devices e FACT come parte delle Olimpiadi culturali di Londra 2012) riguarda però in parte questo atto del camminare: infatti, mi trovavo sulla costa sopravvento di Oahu la scorsa settimana per girare alcune scene di camminata molto sperimentali e ho alcune scene eccellenti registrate nel Lake Discrict, in Gran Bretagna, durante lo scorso maggio.
Inoltre, nel mio ultimo libro, “Remixthebook”, tutto il testo ruota su due concetti portanti: il moving-remixing e l’economia del movimento. Fondamentalmente, come ho tweettato recentemente: “Camminare lungo la lunga linea della costa è una specie di recitazione spaziale, uno scaglionamento, che scatena poteri di image rendering che strutturano i miei pensieri”.
Penso quindi che il mio lavoro sulla camminata, simile a quello di Richard Long, poggia le sue basi in molti aspetti diversi della pratica interdisciplinare che include l’arte concettuale, l’arte performativa, la fotografia e l’arte del linguaggio, ma anche, secondo me, la video art, la net art e la teorizzazione. La Teoria, come ricorda Greg Ulmer, ha le sue radici nei viaggi e addirittura nel turismo (il buon turismo). Quindi, essere un artista è essere un corpo, è essere un sognatore in movimento, è incarnarsi in un professionista, è essere un mover-remixer…
Mark Hancock: Mi è sempre piaciuta la tua interpretazione del ruolo di scrittore e il processo di scrittura che va oltre le parole e dentro al testo, seguendo quel buon vecchio tipo di post-strutturalismo del testo che diventa qualsiasi cosa noi desideriamo. Ti piace pensare di essere uno scrittore che lavora con le reti e si adatta alle esigenze di questo medium, ottenendo la miglior risposta creativa possibile da questo strumento?
Mark Amerika: Assolutamente. Scrivere non significa solo mettere giù un testo per pubblicare un libro stampato o un e-book convenzionale. Penso alla scrittura come performance, come scrittura indistinguibile dalla lettura, tutto questo incorporato in una pratica di ricerca.
Note:
[1] – http://www.altx.com/ebooks/artist.html
[2] – http://www.mitpressjournals.org/doi/abs/10.1162/002409404772827987
[3] – http://magazine.ciac.ca/archives/no_36/en/perspective.htm
[4] – http://seven.fibreculturejournal.org/fcj-042-excerpts-from%E2%80%98portrait-of-the-vj%E2%80%99/