Gli Hasidim ne sanno qualcosa del mondo che verrà. Tutto lì sarà sistemato grazie alla collaborazione di tutti. La stanza che abbiamo adesso, sarà la stessa nel mondo che verrà; dove dormono i nostri bambini adesso, dormiranno nel mondo che verrà. I vestiti che indossiamo, li indosseremo anche nel mondo che verrà. Tutto sarà uguale a qui, solo che sarà un pochino diverso.” – Walter Benjamin In the Sun (trans. Rodney Livingstone)
Doron Golan ha girato cortometraggi utilizzando il formato QuickTime per oltre trent’anni. Per gran parte di questo periodo ha postato le sue produzioni su Internet. E’ stato un pioniere della pubblicazione di video in rete e la sua opera è profondamente segnata dalla sua produzione digitale e dalla sua presenza sul web. Lo considero un apparato di opere di grande significato: coraggioso, ricco, umano e spesso profondo.
Variano ampiamente sia i soggetti trattati sia le tecniche utilizzate, a partire dalle prime sperimentazioni sull’astrazione o sull’appropriazione (comprese le “installazioni” di pagine html, dove due o più video brevi sono incorporati in una singola pagina) fino alle opere su media scala quasi narrative, ritratti, documentari e paesaggi. Queste categorie sono del tutto sperimentali e permeabili, proprio per la varietà di tecniche e di soggetti utilizzabili (i paesaggi ritraggono spesso persone, nel mezzo di rituali, lutti e preghiere, mentre cantano, fanno il bagno, si pettinano, danno da mangiare ai piccioni o producono arte).
Ricorrono ovunque diversi tipi di citazioni e tributi, che si inseriscono in modo del tutto naturale nei suoi lavori. Remix (The Perfect Human the 6th Obstruction, un’appendice alla serie di variazioni di Lars Von Trier a proposito dell’originale Jorgen Leth), omaggio o “influenza attuata consapevolmente” (da Beckett, Warhol, Goya e dal cinema muto) o, più curiosamente, una sorta di raccolta pubblica di appunti rivolti a se stesso in cui l’artista ri-filma semplicemente opere di Bill Viola.
Negli ultimi anni non ha fatto altro che esplorare in modo ossessivo l’applicazione di una gamma limitata di effetti ai ritratti (spesso aventi una dimensione leggendaria o biblica) e ai paesaggi. Il suo lavoro più recente si focalizza quasi unicamente sulla conseguenza dell’effetto “eco” (simile a un fantasma ma più di sostanza, in base a cui ogni elemento mobile sullo schermo innesca riprese multiple col tempo).
Una persona che cammina o una macchina guidata diventano quindi una linea di persone, una linea di macchine. Se non lo si ha sott’occhio, però, è difficile trasmettere il senso delle differenti dislocazioni magiche che questo semplice “marchingegno” è in grado di produrre.
Potrebbe sembrare che vi stia suggerendo che Doron Golan è un outsider o una persona naif, ma non è affatto così. Tutte le sue produzioni richiedono il cauto dispiegamento di un sofisticato arsenale tecnico e concettuale. Ciò che mi affascina, tuttavia, è quello che riesce a trasmettere alla fine allo spettatore.
Spiegazioni
Non si riescono a trovare spiegazioni nell’universo filmico di Doron Golan. Nessuna indicazione. È come se fosse stata accuratamente cancellata ogni traccia dalla scena. Quel che è, è. Da un lato, le opere sono del tutto trasparenti, ciò che accade è presentato in modo chiaro e semplice, e chiunque è in grado di comprenderlo. Tuttavia è l’evitare e l’eliminare ogni tipo di revisione a renderle allo stesso tempo profondamente misteriose.
Per svelare lo strano e il fantastico, a Golan spesso basta individuare un soggetto e puntarci contro la videocamera. Le piramidi o la Sfinge, un edificio al di sotto di un telone strappato e tutto ciò che di secondario ci passa a fianco ogni giorno: autocarri, guardie, uccelli, un cimitero colmo di persone in lutto, il gelo, il traffico. È proprio questa combinazione tra monumentale e quotidiano a evocare il tempo storico nel suo terrore, così come nella sua banalità. Uccelli che si agitano e chiocciano in cima alla Sfinge da poco costruita…
D’altro canto, a volte l’artista accresce la stranezza grazie alla manipolazione dei materiali che utilizza: un piccolo elicottero vola come un insetto di fronte all’immagine ferma del viso di un uomo che risulta ulteriormente congelato dall’applicazione di un filtro di Photoshop; il lancio di un cappello su un pavimento bagnato appare a tinte verdi in un film altrimenti completamente in bianco e nero; il montaggio obbedisce a ritmi privati e interni piuttosto che a esigenze narrative.
Percepiamo che gli oggetti sono dei simboli, ma il problema è che non sappiamo a cosa si riferiscono. Spesso c’è un piccolo ma risonante (e anche se è un cliché, non posso far a meno di chiamare in causa l'”effetto farfalla”) tocco sulla barra. Slow motion, capovolgimenti, effetti visivi prodotti in serie vengono usati per aiutarci a osservare intensamente e indurci a riflettere. Se un mio studente utilizzasse una tavolozza così limitata, nel modo ossessivo in cui lo fa Golan, avrei qualcosa da ridire, ma Golan la maneggia come un virtuoso chirurgo farebbe con bisturi, ago e filo.
Fitte scosse colpi. Ecco che guardiamo attentamente, pensiamo intensamente e dunque sentiamo, non in modo meccanico ma spontaneo e a tratti quasi imbarazzante, come se ci stessimo svegliando in un mondo sconosciuto.
In Canal vediamo un incrocio di New York e il traffico che lo attraversa. In realtà, la prima cosa che notiamo è il ritratto di una donna dalla chioma bionda e solo dopo ci focalizziamo sull’ambiente in cui il film è girato. Svanisce e poi appare il traffico. Nessuna spiegazione. Il film è rallentato e capovolto, ma non in modo uniforme; rallenta gradualmente fino ad arrestarsi. Inizialmente ho pensato che fosse una manipolazione della velocità del film, ma ora credo che sia lo stop-start motion dei piccoli segmenti utilizzati in quest’opera. Cosa ne pensate? Guardate!
A metà del video il film comincia ad accelerare in avanti e poi a tornare indietro fino all’inizio. Due esempi di riprese del traffico, una all’indietro e l’altra in avanti, ma la donna non la vediamo più. Quindi il film viene riprodotto una volta e poi viene ripetuto, ma la donna non riappare fino al secondo ciclo di “forward motion”. Di nuovo, guardate!
C’è un qualcosa di infantile nell’utilizzo intenso e logorante di un unico soggetto, un’attenzione ossessiva in cui tutto è carico di significato. Sia chiaro, “infantile” è un complimento. Indico con questo termine uno stato paradossale di disinteressata, ma al contempo appassionante, brama di osservare.
Questo aspetto, caratterizza anche il montaggio. Le cose iniziano, qualcosa le interrompe e qualcos’altro le fa ricominciare. L’andamento è casuale. Lo spostamento in avanti del tempo è negato. Nessuna illusione di continuità si collega al movimento del corpo. La logica quotidiana è costantemente rifiutata.
In After the Revolution, un ritratto del cantante David Rovics, assistiamo a una falsa partenza, seguita da alcune indicazioni dell’artista. “Aha! – pensiamo – nessuna quarta parete, auto-referenzialità e consapevolezza!” Ma poi il resto del video si trasforma nella registrazione chiara e abile di un’utopica canzone politica. Una canzone che, ci rendiamo conto ora, dopo che è stato gentilmente esplicitato, è ancora più strana di quella che ci dovevamo aspettare inizialmente dal film. Occhio!
Ritrattistica
Alcune opere sono assimilabili a semplicissimi ritratti, registrazioni del viso di alcuni individui. La consapevolezza che Doron Golan ha della recente storia dell’arte (e intendo dire la consapevolezza di Golan tout court, la sua curiosità, la sua sensibilità nei confronti della cultura e del mondo in generale), è parte integrante del suo lavoro. Perciò possiamo considerare gli screen test di Wahrol come dei chiari antecedenti.
Qui, tuttavia, è come se fosse stata eliminata ogni traccia concettuale; certo, l’accenno alla storia dell’arte è presente, ma una volta superato (e lo si supera in fretta) ci troviamo a fare una cosa fuori moda, con un concetto antiquato, scrutando un’anima.
Ritroviamo una qualità estatica in molti dei ritratti; in Sorin at AP Artists Proof la videocamera fissa si concentra senza sosta per oltre quattro minuti su un individuo. C’è una sorta di crudeltà in questo. Difatti il soggetto, un uomo di mezza età con problemi di comprensione, adottato da una colonia di artisti israeliani (che indossano uno strano cappello che assomiglia a quello di un apicoltore o a un qualcosa circondato da una zanzariera in alto e a sinistra) distoglie lo sguardo, sorride nervosamente, e guarda indietro.
Cerca con crescente insistenza di essere rassicurato e di incrociare qualcosa con lo sguardo, probabilmente solo l’occhio cupo e vuoto della videocamera (mi chiedo: ci sarà Golan dietro la videocamera? Oppure la lascia funzionare dando istruzioni al soggetto e poi si allontana?). L’estasi qui è un qualcosa di fastidioso per il soggetto (simile all’attesa di grattare un forte prurito), ma di scoperta per noi. Credo sia un’opera toccante in modo quasi insopportabile.
In Ganesha, l’artista rivolge la videocamera sul fratello Ofer mentre intona un canto religioso Indù. Qui l’estasi è religiosa, o quantomeno comporta un totale impegno mentale e fisico per portare a termine un importante compito. Nella sua forza equivalente, ma al contempo diversa, è il compagno più adatto di un’altra opera: Sorin.
C’è poi la destrezza del Rabbino prestigiatore di The 9th Allegro; risulta comico, come un numero di varietà, e sinceramente lo è in parte; le opere di Golan sono raramente solenni o seriose, ma non prive di dignità, comunione estatica e gravità. Ci sono Boaz Eliash e il suo corvo in Tale of Crow, o una tastiera in miniatura suonata da un vagabondo di Haifa, Joseph, in Hobo Joseph Haifa.
Anche in molte delle opere di finzione, il viso è un elemento chiave. Come dimenticare il lugubre e espressivo Theodore Bouloukos mentre mima e balla, senza camicia, in Try Jah Love o mangia un ultimo pasto in Last Supper sotto l’occhio attento della figura a metà grandezza di Stan Laurel, il suo esecutore, o carceriere o giullare. O ancora, la luminosa sensualità del viso e dei capelli di Joanne Gordon in 3 Majos: La Maja Desnuda. E che Golan scelga di filmare soggetti con facce particolari e interessanti consumate dalla vita, o che la sua arte sottile trovi solo queste caratteristiche nel potenziale e le nobiliti, o entrambe le cose, rimane difficile dirlo con certezza.
Parabola
Ritroviamo l’elemento della parabola in molti dei suoi lavori. Già i titoli Last Supper, One lot for the lot of man and of beast, Till Joseph flies to hide the biting tears , Uniqueness of a Prayer on Temple mount lo suggeriscono. Ma sono la semplicità, l’innalzamento e la sensazione di inevitabilità secondo cui le opere si dispiegano, uniti alla loro inesauribilità ( non faccio altro che ritornare a vederle) a confermarlo. Anche per la “parabola” vale lo stesso discorso fatto in precedenza per il “simbolo”; si crede infatti di poter afferrare facilmente un significato che rimane sospeso lì, posizionato sempre leggermente fuori dalla nostra portata (e anche se Golan non fa mai espliciti riferimenti a Kafka, a me sembra che ci sia una grande affinità).
Simpatie
Si respira una marcata simpatia per altri artisti. In primis Goya, amico di Golan, Meir Pichadze, Bill Viola, Beckett, Nam June Paik. Una grande generosità di spirito caratterizza Doron Golan e al contempo un’inequivocabile aspettativa di reciprocità. Egli essendo artista, interprete, cantante, ballerino, sciamano, rimaneggia opere destinate anche a format diversi rispetto a quello di appartenenza. Porta avanti la tendenza a citare, sviluppare o saccheggiare sfacciatamente opere altrui.
Aggiunte
Ci sarebbe ancora molto altro da dire. La prossima volta mi soffermerò su una recente opera di Golan. Sono consapevole che ci sono aree tematiche e tecniche che ho solo sfiorato: l’umorismo è una di queste e l’approccio estremamente individuale al suono e alla musica è un’ altra. Ma non posso dilungarmi oltre, lo spazio a mia disposizione è esaurito. Avete tempo fino al prossimo mese per andare a vedere di cosa si tratta.