Stage Archive, questo è il titolo della mostra a cura di Chiara Parisi e Andrea Viliani, visibile fino al 28 agosto al Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, in cui Rosa Barba dialoga e reinterpreta gli Archivi Storici del museo, luogo di conservazione di documenti e opere futuriste.
Conclusa da poco la sua grande personale alla Tate di Londra e vincitrice lo scorso anno del “Nam June Paik Award“, Rosa Barba – Agrigento, 1972, vive e lavora a Berlino – è tra le più affermate artiste a livello mondiale della sua generazione. La sua è una ricerca acuta e rigorosa che mira a scomporre e frammentare il linguaggio cinematografico fino ad ottenerne le unità minime grammaticali, in una sorta di reinvenzione chirurgica del medium: proiettore, luce, celluloide, cornice, testi, suoni, immagini, ogni elemento rivive nell’immaginario dell’artista come parte autonoma di un tutto organico, in ottica scultorea e performativa.
Il cinema rinasce come spazio di relazione, di dialogo, di condivisione, spazio di visione collettiva che spesso si perde nelle declinazioni fruitive contemporanee, nelle “rilocazioni”, per utilizzare il noto termine proposto da Francesco Casetti, dell’era postmediale.
Rosa Barba sembra invece rimettere nelle mani dello spettatore frammenti linguistici del cinema delle origini, lettere di un alfabeto con cui riscrivere quella che è stata la grande utopia visiva del ‘900.
Grazie ad un progetto che il Mart di Rovereto ha portato avanti in collaborazione con la Fondazione Galleria Civica di Trento, l’artista approda in Italia con una personale che si snoda su un doppio spazio espositivo. Se a Trento sono infatti visibili alcune delle sue installazioni più recenti, tra cui Private Tableaux, Let me see it, One Way Out, accanto a nuovi lavori come White Curtain, singola frase ritagliata su feltro bianco che introduce l’esposizione, a Rovereto sono invece presenti tre opere site specific, pensate e realizzate in stretta relazione con gli spazi museali.
Così stretta che capiterà di leggere, sulle pareti delle scale centrali dirette ai vari piani espositivi, una segnaletica per un museo in potenza, virtuale, che potremmo quasi chiamare “immaginario”, in omaggio a André Malraux. L’opera No Titles propone infatti, nello stesso lettering istituzionale del museo, una sorta di piacevole disorientamento all’interno degli spazi museali.
“The Observer is always in the International centre of things for the study of Futurism” – scrive l’artista indicando il piano seminterrato, visibile dal vano scale come una grande cavità centrale, un vuoto al centro dell’edificio che si inabissa man mano che saliamo verso i piani espositivi più alti. E proprio lì, alle soglie degli archivi, nel cuore e cervello pulsante dello spazio museale, ci troviamo di fronte alle due sculture che l’artista ha realizzato nell’intento di rimettere in scena l’utopia e l’immaginario visionario delle avanguardie di inizio secolo.
Theory in order to shed light è un dittico in feltro, dove da una parte sono intagliati testi ed elementi grafici provenienti dalle sceneggiature di Fortunato Depero per film mai realizzati, dall’altra un taglio rettangolare centrale riproduce il white frame, elemento visivo e concettuale tipico della ricerca di Rosa Barba. La luce attraversa il feltro e si staglia sul muro, dove la forma delle lettere o di figure geometriche diventa effettivamente visibile. Oltrepassa lo schermo, potremmo dire, reintepretando alcune delle idee visionarie delle avanguardie storiche del cinema, quella di uscire dai limiti imposti dalla cornice: la cornice dell’inquadratura, la cornice dello schermo.
Rosa Barba rinuncia alla realizzazione di quelle utopie, adesso possibili grazie alla malleabilità e alla duttilità dei media elettronici e digitali, e sceglie piuttosto di rimetterne in scena il desiderio, la potenzialità immaginifica, la forza visionaria, quel “non ancora” che lascia aperta ogni possibilità, quel vuoto prima dell’inizio che racchiude tutta l’energia del gesto creativo. Pagina bianca, potremmo dire, ma anche pellicola non impressionata, come quelle che compongono Stage Archive, la grande scultura circolare che dà il titolo alla mostra.
Un archivio in scena, che nel perfetto stile avanguardista dell’estetica del macchinico riproduce una sorta di concerto a più voci, un “balletto meccanico” del vuoto, dove quel che conta non sono i documenti che compongono l’archivio, bensì l’interstizio, l’intervallo, l’assenza che lascia spazio alla creazione di nuovi immaginari.
Ho avuto il piacere di poter conversare con Rosa Barba negli spazi suggestivi del Mart, accanto alle sue opere. La nostra chiacchierata, nel tentativo di ripercorrere alcuni elementi chiave della sua ricerca, è partita da lì, da questo vuoto che è un po’ come un inizio…
Rosa Barba: Per me il vuoto ha la capacità di diventare azione. E’ un mettere l’energia in scena. Invece di aggiungere qualcosa, io sottraggo. Bisogna dire che la frammentazione attraversa tutto il mio lavoro. Io cerco questi punti, questi interstizi nella storia del luogo dove mi trovo a lavorare. Anche nei miei film più lunghi quello che m’interessa è una traccia della storia che ancora non è stata realmente documentata, che in un certo senso già esiste, ma non fa ancora parte della storia vera e propria.
Giulia Simi: Anche il documento, nel tuo lavoro, è un elemento che condivide forse con il vuoto questa sorta di energia vitale, di potenzialità creativa. Non è l’oggetto-documento il tuo fulcro d’interesse, ma forse lo scarto invisibile che si crea tra un documento e l’altro.
Rosa Barba: Infatti. Nei miei film, per esempio, anche il paesaggio rappresenta un documento. Le tracce che si sviluppano in esso, sono una sorta di documento che cambia continuamente. Il documento per me non è mai una cosa immobile, è sempre in trasformazione. Le persone per esempio possono essere documenti. Nei miei film non ci sono attori che devono interpretare dei personaggi, ci sono sempre persone inserite nel corso della storia. Nel film che ho girato sul vesuvio (Split Field, ndr) sono visibili le persone sopravvissute all’ultima eruzione. Ecco, per me sono loro i documenti di quel paesaggio. E’ questo tipo di documento che m’interessa, che è connesso anche al mettere in scena, alla creazione di una potenzialità.
Giulia Simi: Parlami invece di quello che significa per te lavorare con il medium cinema. In una precedente intervista hai dichiarato: “Il film non è il medium più aperto possibile, ma a me piacciono le limitazioni che contiene“. Sembra un’affermazione che attesta una pratica molto diversa da quella, per esempio, di alcuni pionieri della videoarte, che speravano proprio di oltrepassare, attraverso il medium elettronico, le limitazioni imposte dal cinema mettendo in atto visioni mai realizzate. Per te invece è in qualche modo il contrario. Lo spazio del limite è lo spazio creativo?
Rosa Barba: Sì, praticamente con il film io mi trovo sempre a dover interagire con il limite, anche temporale. Magari ho una pellicola di 10 minuti che mi deve bastare per mettere tutto in scena, allora per esempio devo cercare di fare una sorta di montaggio real time, questo mi costringe a fare attenzione a quello che giro. Un’altra caratteristica è quella del suono. Per me è stato sempre molto importante il rumore che la cinepresa fa quando si accende. Fa parte di una sorta di performance che con il video si perde. E poi c’è la questione dell’enorme quantità di materiale da gestire. Nel video c’è una possibilità praticamente infinita di creazione che a volte può rendere difficile la comprensione di quello che è invece il momento vero, quello essenziale.
Giulia Simi: E poi immagino ci sia l’aspetto materico, la fisicità del cinema. La pellicola, il proiettore…
Rosa Barba: Sì, assolutamente. Il cinema ha una valenza scultorea per me. Questo con il video sicuramente si perde. C’è una sorta di interattività con il medium fisico che crea un altro spazio. E’ possibile allora ritrovare il momento di una visione comunitaria, di un’azione che si può esperire assieme al pubblico. Questo aspetto dialogico del cinema per me è molto importante. C’è una performatività della relazione con lo spettatore e tra gli spettatori. E’ la visione collettiva. Per me conta molto ed è ben diversa dalla fruizione tipica dei media digitali per esempio, dove uno si può prendere un dvd e guardarlo da solo, a casa propria. E’ un’altra cosa.
Io lavoro da 15 anni con il film e la sua progressiva dissolvenza è un fatto molto recente. Fin da subito ho frequentato il mondo dei film festival, che mantiene la dimensione discorsiva attraverso la discussione dopo la visione vera e propria… Però a me ha sempre interessato l’aspetto performativo, la trasformazione di quest’azione. Ho cominciato molto presto a lavorare con l’installazione, in modo da mettere in scena anche le macchine. In ogni caso il mio è un lavoro in progress. Tutte le mie opere non le penso come finite, penso che sono sempre in viaggio, sempre in metamorfosi.
Giulia Simi: Parliamo delle tue sculture in feltro, figure che in qualche modo ricordano, anch’esse, il dispositivo cinematografico perché rimane l’aspetto della luce proiettata. A me ricordano anche il dispositivo della memoria, spesso descritto, da scienziati e filosofi, e soprattutto da Freud, con la metafora della scrittura che s’imprime su una superficie, che lascia una traccia. Nel tuo caso però la scrittura buca la superficie…
Rosa Barba: Sì, è come se rappresentasse il negativo. Per me sono come degli strumenti che devono passare attraverso il negativo per diventare visibili.
Giulia Simi: C’è anche la questione del taglio, una ferita forse…
Rosa Barba: Sì è vero. In realtà non mai pensato a questa cosa della ferita. Devo dire che per me è soprattutto una ricerca sulla cornice. Ogni lettera trova la sua uscita attraverso la materia. Per me significa anche utilizzare il disegno per trovare l’uscita. Le lettere comunque sono bruciate dalla luce. Ecco, per me è come l’uscita dal sistema cinema. L’uscita da un certo tipo di funzionamento alla ricerca di un altro linguaggio.
Giulia Simi: E poi c’è il bianco, elemento che ritorna continuamente nei tuoi lavori. Che cos’è il bianco per te?
Rosa Barba: E’ un po’ come un reset. E’ un gap, ma è anche un reset vero e proprio. Quando ho cominciato a montare i miei primi film utilizzavo il bianco per operare la trasformazione in un altro livello di narrazione. Utilizzavo i bianchi per frammentare la storia. Quando utilizzavo due o tre narrazioni all’interno della stessa opera c’era sempre questo bianco che riusciva a costruire livelli differenti. Il bianco era molto potente per entrare in un’altra temporalità, quindi è sempre stato fondamentale per me. Poi ho iniziato ad utilizzare solo quello. Ho detto ok, togliamo tutto il resto e lasciamo solo il bianco. Ho realizzato quindi molte sculture dove c’è solo il bianco che si staglia sullo sfondo.
Giulia Simi:Mentre il nero…
Rosa Barba: Il nero per me è più come un fiato, una pausa, mentre il bianco è come un salto, un salto verso una nuova forma di immaginazione. Per esempio accade così nel mio lavoro Stating the Real Sublime, dove ho appeso il proiettore alla sua stessa narrazione, alla sua stessa pellicola che cerca così di formulare il bianco… Ho fatto davvero molta ricerca su questo elemento visivo. Anche qui, come vedi – è la prima volta tra l’altro che faccio una composizione con due feltri – l’ho riproposto attraverso il taglio in formato rettangolare del secondo feltro.
Giulia Simi: Un’ultima domanda sul concetto di archivio, sicuramente centrale in questa esposizione pensata proprio come dialogo con gli archivi storici del museo, ma che riecheggia anche in altri tuoi lavori, dove la relazione con il passato torna più volte. C’è comunque una sorta di operazione di scavo – penso anche ai tuoi film sulle architetture sotterranee – un tentativo di riportare alla luce il sommerso…
Rosa Barba: Sì è vero. C’è sempre questo lavoro archeologico, questo andare a scavare, a tirare fuori delle tracce…
Giulia Simi: Un’operazione molto diversa però da altri filmmaker che invece usano il found footage, immagini trovate e riproposte attraverso un’operazione di montaggio. Per te si tratta di un lavoro metaforico, simbolico…
Rosa Barba: Sì. Io infatti non uso mai il found footage. Anche la questione del montaggio per me ha una valenza diversa. Per me il montaggio è azione, è quello che avviene di fronte allo spettatore. Anche qui, con gli archivi che avevo a disposizione, non m’interessava tirare fuori dei documenti, ma piuttosto trarne un’ispirazione. Io studio. Osservo gli archivi per poi tirare fuori un’altra opera.