Game Art, ossia la branchia dell’arte contemporanea ispirata dai videogames. Può essere una modifica artistica di un videogame commerciale esistente o un gioco del tutto nuovo (artgame), ma può presentarsi anche come una forma d’arte molto più tradizionale: un dipinto, una fotografia, un video o una performance. In generale, nel momento in cui si crea l’opera d’arte e poi la si presenta dinanzi ad un pubblico, per la Game Art diventano essenziali l’estetica, la tecnica e la cultura provenienti dal mondo dei videogames.

Il primo esempio conosciuto di Game Art venne presentato all’Ars Electronica di Linz nel 1995. L’artista Orhan Kipcak aveva creato una modifica artistica del noto First Person Shooter videogame Doom , da lui ribattezzato Arsdoom. Arsdoom era un livello completamente nuovo di Doom, una ricostruzione della mostra Brucknerhaus dove il giocatore poteva visitare la mostra virtuale, combattere contro gli artisti, distruggere l’opera in esposizione o creare la propria opera d’arte con l’aiuto di diversi strumenti trovati nell’edificio.

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Questi primi esperimenti artistici con i videogames non differivano poi così tanto dagli hack e mod realizzati da giocatori abituali sparsi per il mondo. Il genere First Person Shooter è esploso letteralmente con Doom e come con quest’ultimo, anche questi nuovi giochi venivano dotati di semplici strumenti per la creazione di nuovi livelli, personaggi e ambienti. Nel 1999, Anne-Marie Schleiner curò la mostra Cracking the Maze: Game Plug-ins and Patches as Hacker Art, alla quale non parteciparono solo gli artisti ma anche dei veri e propri giocatori in grado di entrare all’interno dei videogame e modificarli. All’inizio di quello stesso anno, Konrad Becker diede il via alla mostra Synreal: The Unreal Modification presso l’Institut für Neue Kulturtechnologien di Vienna.

Synreal era una mostra sulle modifiche apportate ai più popolari giochi Unreal. Unreal è diventato un videogame molto popolare tra gli artisti per la sua struttura grafica molto semplice, da modificare con il supporto di vari strumenti. La stretta connessione tra modifiche artistiche e modifiche realizzate da un semplice giocatore, è probabilmente una delle spiegazioni plausibili per cui questa nuova forma d’arte, ai suoi inizi, non ha avuto successo sulla scena artistica internazionale. A quel tempo c’era ancora un forte scetticismo nei confronti dei videogames come forma di cultura. In media, I videogames venivano descritti come degli intrattenimenti di massa pieni di violenza, sangue, poco salutari e pericolosi per i giovani, e l’idea che dai videogames potesse scaturire una forma d’arte era impensabile.

Abbiamo dovuto aspettare il 2002 per poter parlare di progresso per la Game Art in ambito internazionale. Fu il new media artist cinese Feng Mengbo a presentare a Documenta 11 il suo lavoro Q40, una modifica del gioco Quake. Il passo successivo nel processo di riconoscimento della Game Art nel mondo dell’arte fu la Biennale del Whitney nel 2004, grazie a due opere della Game Art incluse nel programma. La prima ad opera di The Velvet strike team (Anne-Marie Schleiner, Joan Leandre, Brody Condon), i quali realizzarono dei dipinti con lo spray per il gioco Counterstrike, per far passare, tramite un gioco di guerra, un messaggio contro la guerra stessa. L’altra, fu una opera diventata oggi un classico: il Super Mario Cloud realizzato da Cory Arcangel, una cartuccia NES hackerata da cui l’artista aveva rimosso ogni oggetto grafico ad eccezione delle nuvole bianche in movimento.

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Dopo il 2005 si nota quindi un numero crescente di mostre sulla Game Art, e l’interesse per i videogames e l’arte trova la sua espressione in numerosi libri, articoli e seminari. A quel tempo, l’artista aveva optato per l’abbandono della fase di modifica ed aveva iniziato ed esplorare e combinare i videogames con altre forme d’arte come performance, installazioni, video (o così come vengono chiamati nella gamescene, i machinima), dipinti, sculture e molto altro.

Nel 2007-2008, Il LABoral Art e L’Industrial Creation Centre, di Gijon, presenta un progetto ambizioso: una trilogia di mostre dal titolo GameWorld, Playware e Homo Ludens Ludens, che si focalizza sull’espressioni del gioco nella cultura contemporanea inclusi i videogames e l’arte. Nell’insieme, queste mostre forniscono una vera e propria scossa allo sviluppo della Game Art fino al 2008 e dimostrano che anche il mondo dell’arte inizia a prendere seriamente in considerazione I videogames.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un crescente interesse da parte delle istituzioni e dei musei nei confronti dei videogames come forme d’arte. L’anno scorso, nel mese di Marzo, Il Smithsonian Art Museum di Washington D.C. ha aperto una mostra dal titolo The Art of Videogame descritta con le seguenti parole:The Art of Video Gamesè la prima mostra che esplora i quarant’anni di evoluzione dei videogames come strumenti artistici, prestando particolare attenzione agli impressionanti effetti visivi e all’uso creativo delle nuove tecnologie.

A breve i videogames invaderanno, come evento collaterale, la 54esima edizione della Biennale di Venezia, quest’anno sotto la direzione artistica di Bice Curiger. La mostra “Neoludica: Art is a game 2011-1966”, che vede Deborah Ferrari in veste di curatore principale, include sei diverse mostre con 34 artisti, tra cui alcuni nomi noti al pubblico della Game Art come Tale of Tales, Miltos Manetas, Eva & Franco Mattes e Molleindustria.

Una persona che ha seguito molto da vicino lo sviluppo dei videogames e dell’arte è Matteo Bittanti, professore aggiunto del Visual Studies Program presso il Californa College of Arts di San Francisco e Oakland. DigiMag ha intervistato Matteo Bittanti, che con Domenico Quaranta si sta occupando della mostra “Italians do it better: Game Art Made in Italy”, come parte integrante di Neoludica (che fa eco alla mostra/screening intitolata proprio con lo stesso nome – Italians do it better – curata nel 2005 da Marco Mancuso per Digicult al festival Optronica di Londra, che metteva analogamente in evidenza gli artisti italiani che hanno fatto la storia dell’arte, però audiovisiva, negli ultimi dieci anni in Italia, preludio del successivo progetto curatoriale +39:Call for Italyhttp://www.marcomancuso.net/?p=62)

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Mathias Jansson: Matteo, che cosa fanno meglio gli Italiani?

Matteo Bittanti: Italians do it better  è un Italian Pavillon alternativo. Si tratta di una retrospettiva sovversiva e irriverente che celebra il lavoro di numerosi artisti che hanno sperimentato e sfruttato le tecnologie su cui si basa il gioco da più di due decenni. Organizzato specificatamente per la prima edizione di Neoludica Italians do it betterrende omaggio agli interventi d’arte italiani basati sui videogames. Si spera che i visitatori avranno la possibilità di vedere il passato, il presente e, Dio ce ne guardi, il futuro dell’arte indigena basata su giochi, in forma analogica e digitale, su tele o schermi.

Quest’anno (2011), l’Italia sta celebrando il suo 150imo anniversario: abbiamo deciso quindi di combinare questo evento con Neoludica. Un combo killer. Ma poichè la nostra relazione con l’Italia è in qualche modo, ehm, complessa (dove per “nostra” intendo di vari artisti, me stesso, etc.), abbiamo pensato di creare un titolo che fosse sia celebrativo che sarcastico, gioioso e critico. Il tipo di titolo che provoca. Dopo tutto, noi siamo dei provocatori.

Mathias Jansson: Il sottotitolo dell’evento “Neoludica” è una citazione di Duchamp “The Art is a game”. Perché ci sono così tanti riferimenti al libro di Duchamp e a quello di Johan Huizingas “Homo Ludens” quando parli di videogames e arte? Cosa c’è che non va con i teorici contemporanei?

Matteo Bittanti: Non sono sicuro di come i teorici contemporanei spieghino i nuovi media. In tutta onestà, trovo che la maggior parte delle teorie contemporanee spieghino i new media in maniera del tutto noiosa. E non leggo un libro dal 1978, da quando ho letto Space Invaders. Sono superficiale e distratto. Preferisco gli studiosi contemporanei che usano i new media in modo creativo. La citazione di Neoludica è un modo per ricordare che l’arte è un gioco vivace, che però tutti noi tendiamo a prendere troppo seriamente. Fortunatamente, guastafeste e enfant terribles come Ben Lewis o Sarah Thornton stanno provvedendo a fornire una critica molto più giocosa.

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Mathias Jansson: Fatta eccezione per gli artisti Italiani che sono stati scelti per la mostra, oggi, quali artisti ritieni più interessanti nel campo della Game Art?

Matteo Bittanti: Ai giorni nostri, ci sono diversi giocatori che trafficano con i giochi. E sono incredibilmente abili. I punteggi che raggiungono sono impressionanti. La mia squadra di calcio ideale è composta da: Damiano Colacito come portiere, Riley Harmon, Robert Hodgin, Huang Hsinchien, Max Capacity (difensori); Kristoffer Zetterstrand, Yann Bauquesne, Rober Overweg (esterni), Kael Greco, Joseph Delappe e Ashley Anderson (attaccanti).


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