Ogni elemento, non importa la provenienza, può servire a creare nuove combinazioni. […] Tutto può servire. Non c’è bisogno di dire che si può non soltanto correggere un’opera o integrare frammenti diversi di vecchie opere in una nuova; si può anche alterare il senso di questi frammenti e modificare a piacimento ciò che gli imbecilli si ostinano a definire citazioni. – Guy Debord [1]
Rileggendo recentemente il saggio di Nicolas Bourriaud Post Production. La culture comme scénario: comment l’art reprogramme le monde contemporain, ho ritrovato questo stralcio di Mode d’emploi du détournement di Guy Debord, che a discapito dei suoi cinquantacinque anni il testo è pubblicato nel ’56 coglie un aspetto estremamente contemporaneo della pratica artistica. L’utilizzo di elementi già esistenti, prelevati dai più disparati contesti e il relativo processo d’intervento e creazione di opere originali.
Se per le arti visive in senso lato, a partire dall’aspetto più ludico delle avanguardie per arrivare al ready-made, alla pop art e alle esperienze contemporanee, c’è già stata un’assimilazione culturale alta che ha metabolizzato queste tecniche e si è guadagnata la giusta chiave di lettura, riguardo la sound art c’è ancora una nebulosa da chiarire.
Spesso si è associato questa pratica al semplice sampling, accostando il ruolo dell’autore a quello del dj o del producer, certo figure basilari della cultura contemporanea, che però agiscono in maniera piuttosto differente, per non dire antitetica, rispetto al sound artist, semplificando di molto il processo che dal prelievo porta alla composizione originale, optando invece per mantenere attivo una sorta di citazionismo giocato su nuove combinazioni (spesso si tende a lasciare riconoscibile il frammento proprio per dare una maggior enfasi allo scarto, all’interno dell’inedito sistema in cui è attualizzato o inserito).
La distinzione sottolineata da Debord tra citazione ed alterazione del senso, fa invece pensare a quelle opere che strutturalmente celano il referente (non per omissione, ma per impianto) e costruiscono un processo autonomo con elementi (frammenti o interi) già esistenti, che per qualità e stratificazione dell’opera divengono parte stessa di quest’ultima, non semplicemente mutando il loro significato, ma assumendo formalmente un nuovo contenuto.
Gli ultimi due lavori del sound artist tedesco Stephan Mathieu A Static Place e Remain seguono piuttosto quest’ultimo processo. Per entrambi, Mathieu si è servito di composizioni edite di eterogenea natura: una collezione di 78 giri di prime registrazioni audio risalenti agli anni ’20 e la partitura sonora di un’installazione di Janek Schaefer, Extended Play. Mathieu non è nuovo al reprocessing, tecnica che utilizza da molto tempo creando set up con strumenti e dispositivi analogici collegati ad hardware che lavorano in real time, ma negli ultimi anni la sua passione per le prime registrazioni discografiche, gli strumenti antichi, i suoni ambientali e i mezzi di comunicazione obsoleti, lo hanno portato a sperimentare nuove soluzioni anche riguardo le composizioni contemporanee.
Paragonato ad artisti come Mark Rothko, Barnett Newman e Ellsworth Kelly, l’estetica essenziale di Stephan Mathieu colpisce per la sua dinamicità e l’indiscusso impatto emozionale; opere come Virginals e Radioland uscito per l’italiana Die Schachtel e considerato dalla critica una delle migliori opere del 2008, benché relativamente recenti, sono ormai radicate nel background dell’ascoltatore di elettroacustica contemporanea.
Dai primi anni Novanta sulla scena musicale, oltre a numerose composizioni da ascolto ed a collaborazioni eccellenti Kit Clayton, Akira Rabelais, Douglas Benford, Taylor Deupree, John Hudak e altri ancora Mathieu dedica una significativa parte della sua pratica all’esperienza live e visiva, nella quale la dimensione più intima dei dispositivi meccanico-acustici muove dalla concentrazione dell’isolato frammento sonoro verso strutture performative complesse, dalla forte matrice architettonica.
Solo per ricordare i lavori più recenti, la 25a Biennale Musica di Zagabria ha commissionato a Mathieu Process, adattamento de Il processo di Franz Kafka e di The Trial di Orson Welles, trasformati in real time in codice binario; e nel 2010 il Festival Sonar di Barcellona ha prodotto tre nuovi spettacoli per Constellations al Planetario del Museo della Scienza CosmoCaixa, dedicati al compositore iberico rinascimentale Antonio de Cabezón, in occasione del cinquecentenario della sua nascita, celebrato lo scorso anno. Per la parte visiva che ha accompagnato la performance di Stephan Mathieu, Mikalef e del clavicembalista Carles Budo Costa, è stato costruito un sistema di lenti ottiche Carl Zeiss assemblate con specchi e filtri colorati, esaltati da un sistema di lampade spettrali predisposte per creare un gioco di riflessi durante la proiezione sulla cupola del planetario.
Per il 2011 con tre dischi appena usciti Remain, A Static Place, To Describe George Washington Bridge l’attività di Mathieu si sta concentrando su un nuovo ciclo di concerti per l’ormai classico Radioland, e in alcune inedite produzioni che confluiranno nell’ampliamento di Virginals.
Pia Bolognesi: Vorrei iniziare parlando delle tue due ultime produzioni per le label di Taylor Deupree, Remain, su Line, e A Static Place, per 12k, uscite quasi in contemporanea. Si tratta di due lavori “gemelli” che nascono da una comune ricerca sonora, o è una tua prassi lavorare parallelamente a più progetti?
Stephan Mathieu: Di solito lavoro a diversi progetti contemporaneamente, fa parte della mia natura, così se ho bisogno di una pausa da un tema specifico perchè arrivo ad un livello di saturazione momentanea, probabilmente c’e un altro lavoro con il quale riesco ad andare avanti. In questo modo oltre a non rimanere fermo, concentrandomi su cose differenti, riesco a trovare delle soluzioni interessanti.
Ho composto il materiale per AStaticPlace e Remain in una settimana durante il 2008. In quel periodo stavo studiando alcune possibilità per nuovi live system sui quali avevo già cominciato a lavorare da un anno, processando i dischi della mia collezione di 78 giri e suonandoli con due grammofoni meccanico-acustici collegati al mio computer e trasformati in tempo reale. I processi di base coinvolti sono gli stessi che ho utilizzato per Radioland, i gramophone-set up con cui avevo già creato il materiale per Transcriptions, in collaborazione proprio con Taylor Deupree.
I miei strumenti digitali non sono cambiati poi di molto in una decina di anni. Mi piace lavorare con le cose che conosco e piuttosto affinarle e perfezionarle negli anni, per arrivare a conoscerle meglio. I processi che sto applicando al suono hanno a che fare in primo luogo con la fusione di differenti spazi acustici, al fine di creare un nuovo spazio immaginario abitato dalle informazioni sonore primarie, le informazioni iniziali da cui nasce il progetto. Ciò che invece sta cambiando è il materiale che uso per l’input. Sono costantemente alla ricerca dell’essenza del suono, del materiale e degli strumenti con cui sto lavorando.
>Pia Bolognesi: Pensi ci sia una correlazione tra la produzione artistica di Schaefer e la forte dimensione architettonica dei tuoi set-up?
Stephan Mathieu: Mentre le cose stavano cominciando a prendere forma con il mio gramophone system, ho ricevuto il CD Extended Play di Janek Schaefer. Janek e io siamo amici da molto tempo e in quel periodo ci siamo scambiati un sacco di pensieri e feedback riguardo i reciproci progetti. Così, se avevo già familiarità con i concetti che stanno alla base dell’installazione ExtendedPlay, quando ho ascoltato le registrazioni per la prima volta sono subito rimasto colpito. Per me è il lavoro su Janek Schaefer è il più forte, il più toccante che ha fatto fino ad oggi.
Pia Bolognesi:Per quanto riguarda le differenze invece con A Static Place, per Remain è stato utilizzato materiale originale dall’installazione Extended Play, ritrattando il suono con diversi dispositivi (entropic set-up, spectral analysis and convolution processes), costruiti su una visione decisamente dinamica e introspettiva. Puoi dirci come hai lavorato alla struttura di Remain e in che modo hai trattato il suono dell’installazione di Schaefer?
Stephan Mathieu: Oltre ad essere un bellissimo progetto per un amante della musica come me, Extended Play mi ha anche dato il giusto input per iniziare a lavorare con i miei 78 giri. E’ successo in maniera abbastanza casuale, che il risultato si sia pian piano trasformato in una installazione domestica, con quattro copie della partitura in loop predisposte attraverso varie fonti che si sviluppano sui tre piani della mia casa. Esse creano una versione in continua evoluzione del brano di Janek, che riflette il suo concetto originale di ricombinazione casuale di una partitura per pianoforte, violino e violoncello in frammenti sparsi su nove dischi in vinile.
Ho fatto due lunghe registrazioni di questo mix, mettendo i microfoni in diversi luoghi della casa e poi iniziando a rielaborare digitalmente il segnale, così come ho rielaborato gli arrangiamenti classici per l’audio entropy, che poi significa “spazio di elaborazione sonora”. Nel mio caso, l’audio entropy viene ricreata suonando il brano nella stessa stanza, registrandolo nuovamente da lì, suonando la nuova registrazione, registrandola di nuovo e così via, fino a quando tutto ciò che rimane è una fascia tonale scintillante, filtrata dalle dimensioni del proprio spazio.
La circonvoluzione [2] fa qualcosa di simile, ma qui le cose accadono in uno spazio astratto digitale che utilizza algoritmi complessi. Anche se tutto questo può sembrare molto tecnico come approccio, per me invece è un modo poetico di lavorare con il suono. Per quanto riguarda l’audio invece mi sembra si tratti più di un sistema autopoietico.
Pia Bolognesi: Un altro aspetto interessante di Remain è la scelta di sviluppare la composizione in un flusso di 60 minuti senza interruzioni, in un lungo ambient-drone saturo di piccole variazioni e sfumature…
Stephan Mathieu: Questo risultato proviene da un processo di lavoro basato sullo studio dello spazio e della durata, cioè il flusso. Per me forse è più corretto poterla definire una ricerca su uno “stato” (come fenomeno fisico) dell’audio, piuttosto che pura ambient music.
Pia Bolognesi: Tornando invece ad A Static Place, per questo progetto hai scelto una selezione di 78 giri di composizioni proveniente dai periodi Tardo Gotico, Rinascimentale e Barocco, incisi dal 1928 al 1932. Come hai lavorato sui supporti originali e qual è stato il processo preparatorio per questo specifico tipo d’intervento?
Stephan Mathieu: Il processo preparatorio per A StaticPlace è molto simile a quello di Remain, mentre la circonvoluzione è più prominente nel materiale per la 12k. Le due registrazioni in interni che ho usato per Remain sono costituite da record selezionati che vengono riprodotti contemporaneamente da due grammofoni meccanico-acustici della fine degli anni ’20, raccolti poi da microfoni che li inviano al computer. Anche in questo caso, entrambe le fonti di ingresso sono trasfigurate in una forma audio ibrida, che riporta le informazioni dello spettro tonale, le dinamiche, i movimenti del materiale iniziale.
Pia Bolognesi: Come sound artist e collezionista, credo che il lavoro su materiale pre-esistente sia per te una sfida molto forte tra il rispetto degli originali e la determinazione creativa nel realizzare una nuova opera sfruttando le potenziali aree di intervento che le combinazioni di suoni permettono. Inoltre, c’è una componente molto forte che si trova in A Static Place, una sospensione della temporalità che attualizza la composizione e al contempo la rende senza tempo. Cosa ne pensi di questi aspetti?
Stephan Mathieu: Dopo aver iniziato a fare musica con i computer ho subito rielaborato alcuni pezzi di amici, una collezione che è diventata la serie Full Swing Edits. Dieci tracce molto astratte rispetto alle versioni originali. Ero alla ricerca di qualcosa che pensavo come un’essenza personale del materiale, qualcosa che appartiene al metodo di lavoro degli artisti, al loro sound specifico, cercando di creare un ritratto audio di ognuno di loro. È la stessa cosa che faccio oggi, ogni volta che ho a che fare con materiale di altri artisti, le loro personalità sono sempre presenti mentre lavoro alla produzione. L’aspetto di sospensione del tempo potrebbe venire dai luoghi dove trovo questa essenza, dagli spazi all’interno dello spettro tonale.
Pia Bolognesi: Negli ultimi anni hai collaborato frequentemente con compositori e artisti contemporanei: Taylor Deupree, Akira Rabelais, Janek Schaefer, Piotr Kurek, John Hudak, Claudio Sinatti e Caro Mikalef. Anche se si tratta progetti distanti l’uno dall’altro, le tue opere denotano un canone formale, una ricerca minuziosa sul singolo suono in armonia con le differenti personalità con cui lavori. Mi riferisco alle affinità elettive con Taylor Deupree e Akira Rabelais d esempio, ma anche, per Constellations, con Caro Mikalef. Mi incuriosisce soprattutto sapere da cosa nasce e come si è sviluppato Virginals…
Stephan Mathieu: Virginals collega diversi aspetti che mi interessano molto: c’è il mio amore per gli strumenti musicali antichi, lo “spirito” di questi strumenti, i media storici e il loro utilizzo nel contesto della composizione contemporanea, ma anche l’atto d’interpretazione di una partitura scritta…
Ho scoperto la musica classica da semplice ascoltatore, dopo aver sviluppato un senso per i diversi modi di suonarla (e quindi di percepirla); mi colpisce soprattutto chi riesce a suonarla in modo unico e personale. Come ascoltatore, questa è la cosa che mi tocca di più. In seguito ho cominciato a interessarmi al backgroud dei brani che più mi colpivano: qual’era il contesto coevo, le circostanze politiche, filosofiche e scientifiche che hanno influenzato i compositori, il loro atteggiamento, gli strumenti musicali esistenti, che tipo di ensamble si esibivano alla corte reale, se esisteva qualcosa di simile ad un vibrato alla fine di un canto rinascimentale, e così via.
Ho letto molto riguardo a questo, ho ascoltato ogni tipo di registrazione che sono riuscito a reperire, e alla fine questo ha cancellato una parte delle conoscenze pop che avevo! Ad esempio, se alcuni anni fa potevo dirti la durata esatta di We are the Champions dei Queen, adesso non ne sono più sicuro… Invece posso dirti in quale giorno Blind Willie Johnson ha registrato Dark was the night, cold was the ground; ma a parte questo, ho imparato molte cose sull’influenza e l’interpretazione di una composizione, sia in maniera positiva che negativa.
Contemporaneamente mi sono molto appassionato di Storia della registrazione sonora e ho iniziato a collezionare grammofoni e dischi del periodo 1900-1930, in pratica gli albori delle apparecchiature elettroniche.
Una cosa curiosa è che allora la maggior parte della musica classica veniva “attualizzata” in stile moderno. Ma esistono anche alcune registrazioni pochissime! che rispettano una prassi storicamente informata, dove strumenti come il liuto, le viole, il clavicordo, venivano registrati per la prima volta, suonati da musicisti che stavano molto attenti all’aspetto delle accordature storiche, filologicamente risalenti al periodo della partitura. Queste registrazioni, sotto molti aspetti, mi hanno aperto una finestra su un mondo sconosciuto e affascinante.
Una figura importante per la rinascita della musica antica è stata Arnold Dolmetsch, uno svizzero che si è trasferito in Inghilterra e ha dato il via alle ricerche in questo campo intorno al 1860, un’epoca in cui tutto ciò che aveva più di 100 anni era considerato primitivo. In questo caso, i primi tentativi di fare musica. Dolmetsch ha iniziato la ricostruzione di titoli rimasti a lungo perduti, partiture studiate dal Rinascimento e primo Barocco ed ha iniziato a insegnarle, in primo luogo ai membri della sua famiglia e poi alla gente che aveva sentito parlare di lui.
In realtà, la sua storia sarebbe una trama fantastica per David Lynch, se avesse voglia di leggere la sua biografia. In ogni caso, Dolmetsch stesso e la sua famiglia hanno composto una manciata di registrazioni per la Columbia tra il 1929 e 1932, e tramite varie ricerche sono riuscito a trovare su eBay un paio di queste composizioni.
Poi, un giorno, uno dei suoi strumenti, un Octave Virginal, una sorta di clavicembalo domestico costruito nel suo laboratorio nel 1952, è spuntato fuori all’improvviso e sono riuscito ad acquistarlo ad un prezzo ragionevole. Con l’arrivo di questi nuovi strumenti musicali, le cose sono migliorate e ho iniziato a lavorare su una serie di special version: personali interpretazioni di alcuni tra i pezzi che amo dei miei compositori preferiti, come Alvin Lucier e Phill Niblock, di cui ho trascritto brani per Virginals, aggiungendo una versione di Francisco López di Untitled ’92, suonata con quattro grammofoni. Dopo un po’ di tempo e con molte prove, sono stato in grado di suonare un programma di musica contemporanea in puro stile classico.
In seguito ho ampliato la strumentazione aggiungendo un altoparlante vintage a 6 canali, sistema che si è rivelato essere l’amplificazione perfetta per questi lavori. Inoltre, ciò mi ha permesso di configurare un dispositivo dove il pubblico può camminare all’interno invece di stare seduto. Così l’intero set-up è diventato un organismo che comprende, reagisce e si basa fortemente sullo spazio della performance e sul pubblico come soggetto attivo: le persone sono libere di muoversi nello spazio, l’esperienza delle fonti posizionate in luoghi diversi lascia che tutti si avvicinino al suono che preferiscono, e i riflessi acustici spaziali prendono vita in un modo molto speciale.
Nel frattempo ho aggiunto due nuovi organi elettronici per l’ensemble e da un po’ di tempo sono in contatto con dei compositori che scrivono opere per questo tipo di strumenti. Adesso sono molto eccitato per la collaborazione con Tashi Wada su una composizione per Virginals; il pezzo verrà presentato in anteprima in un monastero del 14° secolo nel centro di Parigi all’inizio di Giugno.
Pia Bolognesi: Nei tuoi live c’è una forte relazione tra suono, video e performance. Qual è la dimensione che caratterizza l’aspetto performativo diversamente dal processo di creazione su disco? E come, nell’esperienza audiovisiva, la spazializzazione del suono influenza il risultato finale?
Stephan Mathieu: La dimensione live non è poi molto differente da quello che faccio a casa, perchè negli ultimi periodi uso più o meno gli stessi strumenti. Certo, alcuni progetti sono più grezzi in un contesto live, soprattutto i pezzi che si basano su processing in tempo reale, senza alcun materiale preparato o predisposto. Qualche tempo fa ho presentato composizioni più o meno aperte come Constellations, Process o Virginals, che sono in un certo senso progetti più “sicuri” da eseguire in una dimensione performativa. Più in generale, la cosa importante per me con la musica elettroacustica riguarda la qualità di riproduzione audio; mi interessa lavorare su un buon sistema di altoparlanti.
A parte il sistema che ho utilizzato per Virginals, ogni volta che è possibile viaggio con tutte le mie cose. Ho scoperto che la mia musica funziona spesso meglio con un backline più rock (chitarre e amplificatori e basso), che con un classico PA, soprattutto se la PA è qualità più che media.[3] Mi piace lavorare con attrezzature che hanno carattere, aiuta a far arrivare meglio la musica. In genere, cerco di evitare una situazione frontale stereo per le performance e preferisco invece andare in surround / multicanale, quando questo è possibile.
Parlando degli aspetti visivi, invece, ho cominciato a sviluppare concetti che sono legati all’approccio più meccanico che in questo momento sta prendendo molto campo nei miei lavori. Anche se non credo che la musica abbia bisogno necessariamente di un aspetto visivo, sono stato invitato a creare pezzi audiovisivi degli ultimi due anni. Ho scritto Process, un pezzo vagamente basato su Franz Kafka e The Trial di Orson Welles, che viene eseguito con quattro grammofoni, una spinetta[4] e due proiettori 16 mm collegati da un lungo anello bianco e nero che converte il testo kafkiano e le immagini di Welles in codice binario.
Così come Constellations, una collaborazione con la visual artist e musicista di Buenos Aires Caro Mikalef per una commissione del festival Sonar di Barcellona, che si è poi rivelata essere una dedica al compositore rinascimentale Antonio de Cabezon eseguita da entrambi, anche in questo caso, utilizzando una spinetta con sette elettromagneti, mentre un grande dispositivo fatto su misura con lenti e filtri colorati getta luce spettrale nello spazio. Mi piace molto vedere cosa succede, dove mi porta questa dimensione e che cosa può essere di volta in volta una performance.
Pia Bolognesi: Concludendo, questo è un periodo molto intenso per te. Hai appena pubblicato due dischi e nei prossimi giorni sarai a Parigi, in Spagna e Buenos Aires con Radioland e Constellations. Spero poi di avere la possibilità di vedere di nuovo Virginals nei prossimi mesi. Puoi dirci quali sono i tuoi progetti e gli appuntamenti per il futuro?
Stephan Mathieu: Oltre ai nuovi pezzi per Virginals, sto preparando un altro paio di collaborazioni. Con Musique Nouvelle (http://www.musiquesnouvelles.com), un ensemble di musica contemporanea belga che mi ha invitato a creare assieme a loro due composizioni e con Ensemble 0 (0sound.tumblr.com), con cui nel mese di Luglio m’incontrerò per una settimana, un open-group formato da Stéphane Garin, Sylvain Chauveau e Joel Merah come nucleo fondatore, per creare un’opera site specific.
Anche il mio sogno di mettere insieme un ensemble di strumenti antichi sembra finalmente avverarsi: con Caro Mikalef siamo in procinto di terminare un nuovo pezzo meccanico-acustico che vogliamo presentare poi in autunno e da un po’ con Z’ev si discute l’idea di un pezzo chambermusical da fare insieme.
Questi sono principalmente progetti live, ma sto preparando anche alcune produzioni da ascolto: un CD con la colonna sonora che ho fatto per un adattamento scenico del romanzo di Gustave Flaubert Un Cuore Semplice è quasi finito. Proprio adesso inoltre sto registrando Virginals, senza in questo dimenticare le collaborazioni con Sylvain Chauveau e Christoph Heemann che stanno lentamente prendendo forma.
Ci sono un sacco di cose interessanti da fare e per fortuna che per la maggior parte si tratta di progetti in ensemble anziché solitari. Mi piace molto questo modo di lavorare e sono molto impaziente di ciò che mi riserva il futuro.
Note:
[1] – Guy Debord , Mode d’emploi du détournement, Parigi 1956, in Nicolas Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia Books, Milano 2004, p. 33.
[2] – Tecnica utilizzata da Mathieu per la spazializzazione del suono.
[3] – La strumentazione PA, è di solito usata coma “frontline” in modo da ridurre i problemi di feedback acustico, ed è posizionata in opposizione al sistema backline.
[4] – Strumento simile al clavicembalo, di dimensioni ridotte.