Parlare di un evento come Ars Electronica è tutt’altro che facile, innanzitutto per via della sua vastità. Vastità che riguarda la tipologia delle attività possibili (assistere a mostre, conferenze, laboratori, performance, proiezioni; riposare e scambiare opinioni nei punti di incontro e di ristoro; partecipare alle varie attività parallele), le aree creative trattate e i cui confini si dissolvono l’uno nell’altro (video, cinema, danza, musica, installazioni, artigianato, animazione, sostenibilità, architettura, giochi, scienza, medicina, biologia …) e l’estensione fisica degli spazi in cui sono articolati i settori del festival.

È vero però che, al di là della generosa quantità di opere e appuntamenti davvero imperdibili, non tutto è necessariamente degno di nota. Ma certo tutto nell’ambito del festival contribuisce a creare l’atmosfera speciale di quei giorni e di quel luogo. Sì perché Ars Electronica, specialmente in uno spazio come la Tabakfabrik, l’eccezionale location di quest’anno, per qualche giorno diventa un mondo, uno stile di vita, almeno per i fanatici che vi si immergono full-time. Tutti gli spazi e tutti i presenti contribuiscono alla grande energia del festival, alla sua ricchezza, alla sua capacità di dirigersi a visitatori di ogni tipo.

Ars Electronica è un evento che si distingue. Senz’altro per il prestigio acquisito durante la sua ormai lunga storia (l’anno scorso festeggiò trent’anni), per la densa attività del centro che sta alle sue spalle e perché rappresenta ormai un punto di incontro annuale per artisti, esperti e appassionati di tutto il mondo. E anche perché si tratta di un festival dove tutto è curato e ben fatto: basta citare che quasi ogni installazione ha una persona accanto (spesso l’artista stesso), che sta lì non solo per controllare che l’opera non venga danneggiata, ma anche per spiegarla al pubblico. Ma c’è senz’altro un altro motivo.

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Una delle discussioni più frequenti negli ambienti culturali di ricerca è come educare la gente ad apprezzare la nuova arte. Annosa questione che a Linz in qualche modo sembra essere stata risolta. La gente di Linz va ad Ars Electronica: famiglie con bambini di ogni fascia d’età, ragazzi, adulti e persino anziani, che si soffermano a osservare le installazioni, assistono alle performance e ascoltano le conferenze.

Sarà che vivono in una città dove la proposta culturale gravita intorno all’Ars Electronica Center, che ne ha definito l’identità, comunque il risultato quest’anno, calcolando anche i numerosissimi visitatori non autoctoni, sono stati più di 90.200 visitatori. Secondo gli organizzatori del festival, a ispirare la curiosità degli abitanti della città è stata anche la possibilità di visitare l’interno della fabbrica, che avevano visto sempre e solo da fuori. Sarà, ma anche dinanzi alle opere non si comportavano meramente come curiosi di passaggio.

La fabbrica di sigarette di Linz, ormai in disuso da un anno, quest’anno è diventata anche un simbolo dei profondi cambiamenti economici che stanno segnando la nostra epoca e che vanno di pari passo con emergenze a livello planetario. Appelli che erano il tema centrale dell’edizione di quest’anno del festival: Repair. Non si parla più nemmeno di riciclare, ma addirittura di riparare, di usare gli oggetti fino al loro totale esaurimento, di andare controcorrente rispetto alla “corsa agli armamenti” che rappresentano da alcuni anni i mercati dell’informatica e della telefonia (la durata massima dei gadget è mediamente di due anni, ma quasi nessuno arriva a vederli smettere di funzionare).

E buona parte di Ars Electronica 2010 ha denunciato proprio questo, invitando a visitare cimiteri di oggetti non biodegradabili, già fuori uso o quasi (sacchetti di plastica, lampadine, motori, televisori a tubo catodico, nella mostra Requiem for dying species). A informarsi su quanta strada fà un rifiuto (la visualizzazione TrashTrack dell’architetto Italiano Carlo Ratti) o su quanti ce ne sono in giro (In fondo al mar di David Boardman e Paolo Gerbaudo, o i ritratti Running the numbers di Chris Jordan). A vedere o provare mezzi di trasporto alternativi (i veicoli elettrici presentati nel cortile o i progetti bizzarri della mostra Proben). A trovare ispirazione su come si possono riutilizzare o aggiustare oggetti e materiali di ogni tipo (negli stand di Platform21). A creare addirittura dei gruppi musicali, come nel caso del giapponese Ei Wada, che nella sua performance Braun Tube Jazz Band suona gli schermi di vecchi televisori solo sfiorandoli con le mani.

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Riparare l’ambiente, certo, ma non solo. Riparare anche la società. Come propongono di fare Das Mobile Ö1 Atelier con case leggere ed economiche adatte a emergenze come quella di Haiti; Ralf Schmerberg con il suo film Problema, una riflessione sulla percezione che ha la gente dei grandi problemi mondiali; Mongsen Jacobsen, con la sua installazione Power of mind 4 – Dissociative defense, che affida a una batteria galvanica composta da patate il compito di combattere la censura.

E riparare anche il corpo umano. Oltre ad aver dedicato un intero piano della Tabakfabrik allo shiatsu, alla terapia cranio sacrale, allo yoga, alla kinesiologia e via dicendo, il Prix Ars Electronica quest’anno ha assegnato il Golden Nica della sezione Interactive Art al progetto Eye Writer, di Zach Lieberman, Chris Sugrue e Theo Watson con la partecipazione dei Graffiti Research Lab. Un team d’eccezione che decise di creare questo sistema quando il graffit artist Tempt rimase paralizzato per affetto da sclerosi laterale amiotrofica. Uno strumento che gli permettesse di continuare a disegnare sarebbe stato troppo costoso, così Lieberman, Watson, Sugrue e i GRL si misero al lavoro per crearne uno loro, approfittando dell’unica parte mobile rimasta allo sfortunato ragazzo: la pupilla.

Anche Revital Cohen ha pensato ai disabili e con il suo Phantom Recorder, proponendo un sistema capace di registrare il fenomeno percettivo dell’arto fantasma e di proiettarlo su un’eventuale protesi.

Ma il corpo può anche essere usato come interfaccia, come ha dimostrato Sonia Cillari nelle sue performance. Artista italiana di base ad Amsterdam, quest’anno Sonia ad Ars Electronica ha presentato As an artist I have to rest, un’estenuante performance di un’ora e mezza nel corso della quale stesa per terra e respirando in un tubo l’artista genera una creatura digitale di nome Feather.

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Ma il corpo può essere anche arricchito, per esempio con il Lighting Choreographer, la speciale tuta di LED progettata da Minoru Fujimoto che accresce l’espressività dei danzatori attraverso un sistema interattivo. E può essere modificato, come ha fatto Stelarc con l’ormai chiacchieratissimo Ear on Arm, la sua ultima follia (e Golden Nica della sezione Hybrid Art). Davvero da questo eccentrico performer non sappiamo più cosa dobbiamo aspettarci. Adesso si è fatto impiantare un orecchio in un braccio (e le immagini degli interventi chirurgici sono diventate una mostra fotografica, firmata ovviamente Nina Sellars), con l’obiettivo di convertirlo in un ricettore e in un trasmettitore.

Per il momento l’artista è stato sottoposto a due operazioni e ha dovuto affrontare già una serie di complicazioni. Sono previsti ulteriori interventi, ma tra l’uno e l’altro sono necessari periodi di recupero che fanno prolungare nel tempo questo originale progetto. Stelarc doveva presenziare ad Ars Electronica, ma per via di un piccolo incidente il pubblico del festival ha dovuto accontentarsi del suo avatar di Second Life. Chi comunque volesse maggiori dettagli e non fosse troppo impressionabile, può trovarli sul sito web dell’artista.

Negli ultimi anni non sono più impossibili anche i nostri tentavi di replicare il corpo umano. Alla robotica sono stati dedicati due interessanti pannels ad Ars Electronica 2010, con la presenza di una mascotte d’eccezione: ASIMO, l’evolutissimo umanoide sviluppato dalla Honda (che si poteva vedere in azione nel Deep Space dell’Ars Electronica Center, in una presentazione forso un po’ troppo in stile Las Vegas).

Ospite d’eccezione, che sà molto bene come muoversi all’interno del festival austriaco, è stato il professor Hiroshi Ishiguro (lo si vede all’inizio del film Surrogates di Jonathan Mostow, con il suo clone Geminoid HI-1, che l’anno scorso fu installato nel bar del festival). Il suo obiettivo è creare interfacce più umane per comunicare con i propri cari, qualcosa che non abbia l’aspetto e il tatto impersonali dei telefoni e dei computer. E così quest’anno ha presentato il suo Telenoid, il cui aspetto stilizzato, per permettere di identificarlo con chi si desidera, sembrava però terrorizzare i bambini. Una versione ridotta del Telenoid, che si chiamerà Elfoid, potrà essere tenuto in mano come un cellulare e portato ovunque con sé.

Ma la robotica non sempre è impegnata nel tentativo di imitare il corpo umano, come hanno dimostrato i deliziosi Oribotics di Matthew Gardiner. L’artista Australiano, attualmente in residenza presso il Futurelab dell’Ars Electronica Center, lavora da anni su questo progetto, che consiste nel creare origami meccanici e interattivi con materiali sempre più adatti e un funzionamento sempre più preciso ed ergonomico. E anche l’immancabile Golan Levin ha descritto alcuni robot che ha costruito in passato (come il simpatico Double-Taker (Snout)) basandosi sullo studio delle reazioni umane e dell’espressività corporea.

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E tutto questo in realtà non era che una parte della vasta proposta offerta dal festival, che purtroppo qui non avremo lo spazio per descrivere in tutta la sua completezza. E se la prima reazione appena arrivati alla Tabakfabrik era la frustrazione che provocava il non riuscire a trovare le opere negli spazi a dir poco labirintici della fabbrica, a un certo punto tutti trovavano un’andatura più serendipitica e accettavano di perdersi esplorando sale, aprendo porte e infilando scale, per poi alla sera segnare sul programma (86 pagine!) tutto ciò che erano riusciti a vedere.

Tre giorni è stato il tempo necessario per aver ficcato il naso un po’ dappertutto. Ma non per questo il festival era da ritenersi esaurito. Ogni giorno c’erano decine di conferenze, che avevano l’unico difetto di avvenire simultaneamente in spazi diversi e di costringere a operare difficili scelte (è stato il caso, per esempio, del Prix Forum Digital Music & Sound Art che si è sovrapposto alla seconda parte del Media Facades Symposium, … peccato!).

E poi valeva la pena anche tornare a visitare gli spazi già visti, per vedere cosa succedeva, osservare il pubblico, tentare la sorte di imbattersi in qualche evento unico non annunciato (come quando sono stati messi in moto, una sola volta durante tutto il festival, i motori Dies irae – Remembering EB 180, omaggio al progetto del 1989 108 EB – Chamber Music for Four Motors and Service Personnel di Hubert Lepka e Lawine Torren), fare una pausa per controllare la posta elettronica (wi-fi libero in tutta la fabbrica, ovviamente) in compagnia delle proprie installazioni preferite (molti lo facevano spesso nell’ampia sala dedicata al Cycloïd-E, dei fratelli svizzeri Cod.Art: un meraviglioso pendolo orizzontale con cinque articolazioni che produceva un suono ipnotico).

Nonchè per rivivere gli spazi sotto un’altro punto di vista. O sotto un’altro punto di udito, come permettevano di fare gli Electrical Walks di Christina Kubisch, l’ormai storico progetto della sound artist tedesca che fornisce ai partecipanti delle sue “passeggiate” delle speciali cuffie capaci di rendere udibili i disturbi elettromagnetici nei quali siamo inconsapevolmente immersi.

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Una settimana, quindi, all’insegna dell’arte. Arte dappertutto, arte anche dove non te l’aspettavi. Perfino sulle scale che conducevano ai piani alti di una delle sezioni dell’edificio, dove ci si imbatteva nella splendida installazione sonora Champs de fouilles (Excavations), di Martin Bédard, premiata con un Award of Distinction al Prix Ars Electronic. Una composizione che sembrava essere stata pensata appositamente per qual tipo di spazio anche se l’artista, in realtà, non si è dichiarato molto contento di vederla presentata in un luogo di passaggio, pieno di voci e porte che sbattevano. Dato che sembra fosse l’unico spazio disponibile, Bèdard ha chiuso un occhio con dignità, sperando che chi rimanesse colpito dalla sua musica poi trovasse il modo e il tempo di ascoltarla in situazioni più raccolte. E non si è sbagliato.

In merito agli spazi, la fabbrica a quanto pare non è stato un luogo così facile da gestire, perché ufficialmente schedato come edificio di interesse culturale. Il festival non era autorizzato quindi a toccare nulla. Ma, grazie all’ecoarredamento e alle pareti di cartone di PappLab (che per esempio hanno consentito di ricavare tante piccole sale cinematografiche, nello spazio dedicato al festival di animazione) e all’abilità degli organizzatori nella gestione dello spazio, alla fine queste difficoltà non sono apparse evidenti al pubblico e non hanno impedito che anzi le installazioni venissero perfino valorizzate dalla location (senza contare la possibilità di presentare ogni sera performance di mapping sulla facciata del magazzino della fabbrica e tra le quali si è distinta per il buon gusto il lavoro del collettivo turco Griduo).

Evidentissimo è stato per esempio il caso di Earth, dell’islandese Finnbogi Pétursson, collocata al fondo di un’amplissima sala buia che permetteva di godere di tutta la sua bellezza solo da una certa distanza. L’aspetto più sorprendente di questa installazione è la sua semplicità: con pochi ingredienti (frequenze a 7,8 hertz, una vasca d’acqua e un proiettore di luce) l’artista è riuscito a creare un ambiente visivo e sonoro incredibilmente suggestivo che riesce davvero a trasmettere la pulsazione vitale della terra.

E la semplicità è anche uno dei punti di forza di Plant, eccellente opera di Akira Nakayasu, ancora una volta da inserire nel campo della robotica: una pianta che reagisce all’ombra muovendosi dolcemente come se la accarezzasse il vento. Deliziosa e poetica, di quelle opere che ti metteresti a casa. Così come erano davvero belle e interessanti altre tre installazioni: Ocean of light: Surface, di Squisoup, scultura tridimensionale dove luci e suoni fluiscono in modo interattivo e con estrema eleganza; Framework f5x5x5, di LAb[au], parete di geometrie mobili e luminose che con il loro movimento producono un suono estremamente gradevole; 216 prepared dc-motors / filler wire 1.0mm di Zimoun, giovane svizzero autodidatta che usa elementi meccanici per esaminare la creazione e la degenerazione dei pattern.

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E, naturalmente, last but not least, la performance Rheo: 5 horizons di Ryoichi Kurokawa. L’artista giapponese, vincitore del Golden Nica nella categoria Digital Music & Sound Art, ha dimostrato la consueta capacità di manipolazione del paesaggio visivo e dei suoni naturali, così come nella nuova performance audiovisiva Inject, l’artista Canadese Herman Kolgen dimostra il suo ormai riconosciut talento nel coniugare una fotografia impressionante con una narrativa visiva e sonora che lascia con il fiato sospeso, ma senza mai ricadere nel cliché.

Una serata davvero indimenticabile che ha segnato in bellezza il termine del festival. La fabbrica in realtà è rimasta aperta ancora qualche giorno, ma conferenze e performance ormai erano terminate, quasi tutto era chiuso e molte delle opere erano già in viaggio verso il loro paese d’origine. Restavano i visitatori distratti dell’ultimo minuto (o quelli tratti in inganno dalle date ufficiali del festival, che effettivamente favorivano il malinteso), i nostalgici che ripercorrevano le sale un’ultima volta prima di partire, coloro che si incontravano per scambiarsi i dati di contatto e salutarsi. Senza dubbio con un arrivederci all’edizione dell’anno prossimo.


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