L’estate porta con sé un’ elevata concentrazione di spettacoli dal vivo quasi imbarazzante, tanto che bisognerebbe avere quasi il dono dell’ubiquità per non perdere il treno della contemporaneità, e per avvertire ad ogni festival – da Santarcangelo a Drodesera, dal Festival d’Avignon a ImPulsTanz, fino a Transito Firenze e Contemporanea – quella meravigliosa sintomatologia inevitabile per un buongustaio della scena performativa all’avanguardia. Non è una malattia; è una sensazione, una sensibilizzazione interiore, o per dirla alla Clifford Geertz una sorta di “conquista di vedere noi stessi tra gli altri, […] un caso tra i casi, un mondo tra i mondi” dai quali deriva quella apertura mentale senza la quale l’oggettività è autoincensamento e la tolleranza mistificazione.

La performing dance delle nuove generazioni è trait-d’union tra corpo e luogo, tra gesto e spazio, tra un nuovo vintage come stile di vita, come nuovi virtuosismi anche erotici, nuova moda della cultura made in Italy dove il corpo è rappresentato e presentato come opera d’arte. Un mutamento anche estetico dunque incarnato nel lavoro delle giovani Valeria Fiorini ed Eleonora Gennari della compagnia NNChalance di Riccione. Come quando in Se non ricordo male o in Enjoy your holiday hai di fronte una creazione rituale del contemporaneo, un nuovo status emotivo che fa da collante fra teatro-danza, happening, balletto e antropologia di un corpo perfetto, umanamente meccanico e impeccabilmente scansionato.

Lavori che ti trascinano dentro intimamente, che ha nella durata una scelta consapevole e nel ritmo – ossessivo fino a quando l’immobilizzazione improvvisa ti concede un respiro – il valore peculiare ed efficace di due ragazze che si “incastrano” a meraviglia fra passi coreografici innovativi avvolti da un contesto esterno che valorizza ancor di più la scena performativa: sia esso un teatro, uno sferisterio polveroso, una spiaggia o un centro storico antico. Lo stato di grazia di Valeria ed Eleonora coincide con un momento di passaggio per la danza e con la nascita di una certa performing dance; è un’evoluzione del corpo dove la sua antica sacralità viene meno, dove questo si modella a seconda del luogo, dell’atmosfera, divenendo messa in scena di sé.

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È come se riuscissero a far andare il corpo da solo, e se le rappresentazioni del corpo derivano dalle rappresentazioni dell’individuo allora siamo di fronte ad una quotidianità espansa, luogo privilegiato di un corpo liberato. Un’altra procreazione ha preso forma nella Felliniana Rimini, dove la compagnia Korekané è riuscita ha farci specchiare, a renderci consapevoli facendoci fermare e stoppando un attimo l’orologio inesorabile della quotidianità. Chiara Cicognani ed Elisabetta Gambi, entrambe impeccabili nella loro performance, nella loro “danza ripetitiva”, ineccepibili nella puntualità e rigorosità di un percorso in-finito che essendo sempre lo stesso rischia di de-sensazionarci, de-gestualizzarci fino al rifiuto involontario del quotidiano.

Con Primo frammento di un quotidiano disfatto allora ci riavviciniamo a ciò che conosciamo meglio, a ciò che ogni giorno ci rende noi stessi, a ciò che è realmente conscio e contemporaneo; attendere che tutto vada da sé ma sempre alla ricerca e aperti all’inevitabile, aperti – per dirla alla Winnicott – agli spazi transizionali, a quei spazi che fanno della vita quotidiana un rifugio sicuro ma aggiungo imprevedibile. E se Georges Balander nel suo Essai d’identification du quotidien afferma che la sociologia del quotidiano “si mostra in negativo […] si definisce più per quello che evita di considerare che per quello che considera” allora il “banale” giorno dopo giorno in superficie fa paura ma sono proprio le accumulazioni scontate e non considerate che ci rendono solidi, liberi da una routine affettiva, familiare, conviviale e perché no professionale.

L’opera allora va a toccare corde sociali e culturali – ancor prima di quelle intime e sensibili – dove la scena è riuscita, nel susseguirsi dei rituali, ad alleggerire il peso d’attenzione troppo grande e anche se sappiamo benissimo che la giornata di oggi non è la riproduzione della giornata di ieri, le sensazioni, i propositi, le emozioni ed i gesti che l’uomo tesse abitualmente rendono il corpo invisibile agli occhi degli altri. La speranza allora è di ri-trovare gli stimuli e gli input necessari per riattivare o solamente continuare il flusso del quotidiano con le sue scansioni e pulsazioni che con la messa in scena di Korekané resta comunque in sospeso, aperto a qualificazioni che possiamo attribuirci o attribuire.

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Qui il fruitore è dinanzi alla “verità degli specchi” e alla ricezione eminente della percezione sensoriale dei corpi scenici che – come sottolinea George Simmel – formano la base della socialità. Socialità che viene derisa, commentata ed espansa nella nuova creazione dei Quotidiana.com, dove Roberto Scappin e Paola Vannoni con Sembra ma non soffro hanno dato vita ad un’opera frizzante, mai banale e sempre accattivante. Un danza delle parole che non ti lascia mai da solo, un susseguirsi essenziale di battute testuali incasellate una dietro l’altra con la grande qualità di far pensare ridendo.

Il loro non rifiuto della parola ci mette di fronte finalmente ad un ritorno al testo in un complesso scenico minimale; due inginocchiatoi bianchi illuminati da neon come un’installazione di Kosuth dove i due attori giocano benissimo il ruolo dell’incertezza, del “mettersi in gioco”, dell’ambiguità gratuita e dell’autocritica.

Ma Roberto e Paola ci fanno guardare il mondo intero con un’altra ottica, una torsione concettuale rispetto agli usi correnti della socialità, e con semplicità imbarazzante descrivono una normalità rivitalizzata e alternativa. E se “la performance” – secondo Abercrombie e Longhurst – è così profondamente infusa nella vita quotidiana che noi stessi ne siamo inconsapevoli” – in quest’opera l’ infusione inconsapevole è il privilegio e la “perversione” più significativa che si possa desiderare. Sono riusciti attraverso la più essenziale, genuina e leggera delle interpretazioni a risolverci per assurdo problemi mentali, dubbi meravigliosi, questioni irrisolvibili e timori stressanti anche grazie all’intelligenza delle movenze, dell’organizzazione ritmica e temporale e all’arte incontestabile di una recitazione che hanno nel sangue.

Recitazione, postura drammaturgica e un’attenzione radiologica nei particolari come pochi artisti contemporanei hanno sono le qualità di David Batignani da Firenze, artista (circense) oserei dire versatile e sempre “diligente”. La sua procreazione performativa Assolutamente solo, più che uno spettacolo di trasformismo è un elogio alla magia visiva ed emozionale. In scena oltre ad un microfono su asta, un busto di cartapesta sartoriale e una “vetrina chiusa” rettangolare simile ad un’urna elettorale dove grazie ad una sorta di cerniera a mano il lato fronte pubblico si alza e si abbassa ci sono due uomini: padre e figlio. E allora David ha preso per mano il babbo per creare un’opera sull’identità, che può essere simile fisicamente e nei comportamenti, ma distanti per età e per questo ben diversa.

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Opera onesta e fedele, insistente come un’ombra, che anche nella durata ha le sue carte migliori dove inscrive le tracce nel rapporto con l’altro. È un susseguirsi di coerenze familiari, di sensazioni dove i corpi diventando essenza si strutturano intorno a forma e contenuto; l’immagine del proprio corpo come universo di valore, come interiorizzazione cosciente di similitudini e lontananze. Rappresentazione fisiologica e fisiognomica, dell’oralità logica, del dialogo cognitivo, della consapevolezza psicosomatica, dell’interazione fra memoria e riti trasformistici, dove la “grammatica del vedere” si sposa con quella del “Sentire”.

Poesia messa in scena inscritta su un pentagramma generazionale, dove l’identificazione diventa positività e il sentimento ci stringe al cuore dopo la tenera e struggente (ma non troppo) ballata finale di un capolavoro da vedere e rivedere. Un’altra storia, un altro percorso artistico e suggestivo lo stanno tracciando Massimiliano Setti e Gabriele Di Luca che con Luisa Supino hanno fondato pochi anni fa la compagnia Carrozzeria Orfeo.

L’’ultima procreazione Sul confine – dove in scena ammiriamo anche Alessandro Tedeschi è un vero capolavoro drammaturgico e coreografico. Dal primo buio, dai primi “giochi” di luce e dalle prime battute in scena si capisce la caratura dell’opera, senza retorica e presunzioni, ma con un grande lavoro d’ équipe incentrato sugli orrori della guerra e le sue conseguenze, supportato da una trama testuale mai superflua.

Con questa opera andiamo sul velluto oserei dire, alto livello di recitazione e sopraffine valore coreografico; discorsi duri e quotidiani fra soldati al fronte ammortizzati da una stupenda invenzione scenica dove luci di torce danzano da sole come lucciole ballerine. Il Confine è un non luogo, un passaggio fra il presente ed il futuro di soldati ora consci del proprio destino malgrado la loro scelta, di vita, di coraggio e di onore.

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Racconto tragico e semplice come la vita, come l’impianto scenico adottato, fatto di “caricature” anche pesanti nella loro nudità, fatto di movimenti e torsioni millimetriche, di battute secche come la gola in un deserto, di ricordi e smarrimenti fino alla voglia e al bisogno di vivere nonostante l’uranio impoverito. Sul confine è un’opera già matura, dove Gabriele, Massimiliano ed Alessandro – senza dimenticare i giochi di luce firmati da Diego Sacchi – esprimono una sorta di documentario scenico, un reportage drammaturgico, una fotografia autentica in bianco e nero senza elaborazioni artificiali.


http://nnchalance.altervista.org/

http://www.korekane.com/

http://www.piccoliprincipiteatro.it/index.php?option=com_content&view=frontpage&Itemid=53&lang=it

http://www.carrozzeriaorfeo.it